Lunedì, 07 Ottobre 2024

Tristan und Isolde

Aggiunto il 30 Dicembre, 2007


Richard Wagner
TRISTAN UND ISOLDE

Personaggi e interpreti:
 Tristan RAMON VINAY
 König Marke LUDWIG WEBER
 Isolde MARTHA MÖDL
 Kurwenal HANS HOTTER
 Melot HERMANN UHDE
 Brangäne IRA MALANIUK
 Ein Hirt GERHARD UNGER
 Ein Steuermann GERHARD STOLZE
 Ein junger Seemann WERNER FAULHABER


Chor del Bayreuther Festspiele
(Chorus Master: non indicato)

Orchester der Bayreuther Festspiele
HERBERT VON KARAJAN

Data e luogo di registrazione: 23/7/1952, Bayreuth
Registrazione dalvivo

Edizione discografica: Orfeo, Myto, Walhall
3 CD a prezzo medio o economico, a seconda della casa discografica

Note tecniche: registrazione di eccellente qualità
Pro: le prime prove di polverizzazione del mito; lo spettacolo con cui prese il via una nuova stagione; due protagonisti indimenticabili; una direzione ancora oggi mitica
Contro: nessuno che alteri il risultato finale
Valutazione complessiva: images/giudizi/eccezionale.png

Eccolo qui, lo spettacolo che cambiò le sorti dell’interpretazione wagneriana. In meglio o in peggio, questa è una valutazione che conta ben poco perché la percezione estetica è squisitamente soggettiva; ciò che ci interessa è invece la considerazione che, da questo momento in avanti, le cose non saranno più le stesse e cambierà proprio il modo di intendere l’interpretazione wagneriana. Da questo momento in avanti ci sarà un “prima” e un “dopo”, e questo è qualcosa che nessuno può cambiare, perché è un punto fermo della Storia dell’interpretazione.
Alfiere di questo cambiamento fu Wieland Wagner che coagulò intorno a sé un pugno di intellettuali molto eterogenei, se si considera che accanto all’inquieto Karajan ci stava il solido e affidabile Knappertsbusch, che a lui si alternò sin dal 1952: entrambi rappresentavano il rinnovamento nella continuità di una tradizione che aveva avuto momenti ed interpreti epici e che non meritava di essere cancellata tout court. La continuità non era rappresentata solo dal ferrigno Knappertsbusch: lo stesso Karajan era già in attività da tempo sufficiente per essere sospettato (e forse anche qualcosa di più) di essere stato non solo colluso, ma forse anche l’énfant gatè del recente regime; e non è che le sue precedenti prove direttoriali avessero dato l’idea di un fenomeno particolarmente innovativo: il vero Karajan, quello che oggi riconosciamo appena appoggiamo la puntina su un microsolco, inizia infatti proprio da quegli anni che vedono la sua effimera collaborazione con il Colle di Wieland.

Ma rinnovamento doveva essere, e rinnovamento fu. Non vorremmo ripetere tutta la solfa sulla Neue Bayreuth, che spesso abbiamo raccontato, a dimostrazione dell’impatto che questo movimento culturale ebbe sulla Storia; e rimandiamo all’introduzione dell’incisione DGG della Walküre di Karajan per tutto ciò che concerne il periodo storico in cui maturò tale movimento culturale. Vorremmo invece sottolineare qui il mutamento di prospettiva di rappresentazione che fu tipico di quella stagione: dalla celebrazione del Mito in tutte le sue forme, alla prevalenza del dramma borghese, che veniva influenzato dal teatro di Ibsen e Strindberg – da un lato – e dall’affermarsi dell’esistenzialismo dall’altro. Questi sono i presupposti che stanno alla base dell’erosione del Mito in senso stretto, e dell’affermarsi di prospettive più sottili, inquiete, angoscianti e angosciate, che non avrebbero più potuto fruire di voci mitiche e ben consce della loro miticità, bensì di voci nuove, scavate e persino corrotte. La corruzione maggiore sta nella perdita dell’ampiezza, del volume granitico, del controllo assoluto del passaggio, a vantaggio di una forma espressiva nuova, che prevede il munchiano "urlo" lanciato come sfida al mondo, come manifestazione dell’angoscia del vivere quotidiano. Ne derivano figure ambigue, come quelle rappresentate dai due protagonisti di questa registrazione: due cantanti che “nascono” rispettivamente mezzosoprano e baritono, ma che guadagnano il registro superiore e lo spendono in un’opera come questa che, pur non raggiungendo mai le vette siderali di acuti stratosferici, mette continuamente alla frusta quel passaggio che faceva parte della tradizione italica e lo sostituisce con un declamato melodico che non ha nulla a che vedere col “parlato”, ma che lo richiama inserendosi a meraviglia in un tessuto musicale cangiante, mutevole e proteiforme.
E così, questa testimonianza discografica di un Evento, diventa di fatto il vero Manifesto di un movimento culturale che sarà poi la traccia interpretativa in cui si incanaleranno tutte le successive interpretazioni wagneriane: il che, a pensarci bene, è un unicum nella storia recente dell’interpretazione musicale, giacché la “Rossini-rénaissance” – tanto per fare un esempio recente di un movimento culturale di portata analoga – non è un diverso modo di raccontare le cose, ma un recupero corretto e filologico di una prassi esecutiva corretta. È probabile che, da un certo punto di vista, lo sia anche la prassi della Neue Bayreuth, con il suo restituire ai declamatori un repertorio che non poteva essere lasciato ai vocalisti di stampo classico; ma questa “restituzione”, contrariamente alla “Rossini-rénaissance”, viene vissuta ancora oggi molto male da quegli aficionados che non riescono ad ammettere che si possa (e si debba, aggiungiamo oggi noi) cantare in modi diversi repertori diversi.

Si dice – e probabilmente non a torto – che il vero “Tristan und Isolde” di Karajan sarà quello registrato in studio per la Emi all’inizio degli Anni Settanta. In realtà, quella registrazione arriverà alla fine di un percorso esecutivo che ebbe proprio inizio con lo spettacolo qui rappresentato. Una performance vissuta in stretta simbiosi con Wieland, che di quello spettacolo fu l’artefice visivo. Ci manca, purtroppo, questa parte essenziale che doveva essere un elemento assolutamente trascinante, almeno da quanto possiamo desumere ascoltando il solo audio.
La polverizzazione quasi morbosa di quella frase musicale che prima era suonata tanto perentoria in altri interpreti, è qualcosa che è già evidente sin dal 1952; ciò che invece rimane ancora come residuo del passato prossimo è un certo compiacimento edonistico per tutto ciò che oggi identifichiamo come “romantico”, anche se filtrato attraverso una sensibilità nuova, più attenta ai dettagli piuttosto che al respiro ampio e possente. Lo capiamo dalla fluidità con cui scorre quella frase musicale che, invece, nell’incisione definitiva del 1970 sarà contorta, involuta, quasi metafisica. Qui, invece, ancora si piega “al furor della tempesta”, in una sorta di spirito sturm und drang che rende conto dell’attenzione maniacale che Karajan sempre presterà alle aspettative del pubblico. Ma non solo: questo tipo di concertazione suona anche come un affettuoso omaggio ai protagonisti scelti che non possono ancora usufruire di quel particolare “paracadute” che diventerà poi noto come “cuscino-Karajan” (e che sarà poi l’alibi per molte prestazioni al limite del pietoso di interpreti assai meno ispirati che il Maestro sceglierà senza apparenti motivi artistici come protagonisti delle incisioni degli anni a seguire), ma che scelgono egualmente di buttare il cuore oltre l’ostacolo in un coinvolgimento emotivo che, ancora oggi, sbaraglia anche l’ascoltatore più smaliziato.
Siamo d’altra parte – è giusto riconoscerlo – nei paraggi dei vertici assoluti dell’interpretazione di quest’opera anche e soprattutto dal punto di vista vocale, anche se le voci sono lontane dai vertici apollinei su cui si erano attestati alcuni (non tutti, a dire il vero) degli interpreti del passato remoto e recente.
Prendiamo la Mödl, per esempio: nessuno sarebbe così pazzo da affermare che la sua voce possa essere accostata a quella della Leider o della Flagstad. Il fatto è che questa voce da mezzosoprano-falcon è quella di Isolde sin nel profondo del cuore. Non c’è un solo momento dell’opera che non sia letteralmente trasfigurato da questa voce in grado di passare nel giro di pochi istanti dalla violenza più fredda e glaciale alla più estasiata dolcezza. Se ascoltiamo il primo atto e il suo straordinario finale, i termini della questione ci diventeranno chiarissimi nel momento in cui ascoltiamo la sensualissima smorzatura con cui si spegne quel “Tristan…” del momento dell’agnizione: e la sensualità è qualcosa che Isolde non aveva ancora conosciuto, per lo meno nelle testimonianze discografiche rimasteci. Gli acuti sono un po’ arruffati? Certo, indiscutibilmente: ma il linguaggio con cui si esprime questa Isolde è quello della madre di tutte le declamatrici espressioniste, e ci sembra di “tornare a casa”, nel senso che finalmente tutto torna al proprio posto: la scrittura di Isolde sembra fatta apposta per una declamatrice e la Mödl ce la fa ascoltare come dovrebbe essere.
Al suo fianco, un altro cantante singolarissimo e atipico, ma che di fatto getta un’ipoteca quasi definitiva sul ruolo di Tristan: Ramon Vinay, un esordio da baritono, una voce nera come l’inchiostro con acuti complessi, difficili, laceranti; e una personalità talmente magnetica da diventare soggiogante e quasi paradigmatica in un ruolo che, peraltro, conoscerà le inquietudini esistenziali di Vickers e i rimpianti dell’ultimo, commovente Domingo.
Cos’è il terribile terzo atto di questo psicodramma in bocca a questo genio della comunicazione!… Anche nel suo caso gli acuti non sono proprio l’arma vincente, ma il discorso fluisce con una logica terribile, da autentico protagonista del “male di vivere”.
Il resto del cast è un parterre royale di glorie del canto wagneriano.
Ira Malaniuk sarà la Fricka degli anni a venire: cantante intelligente e raffinata, è una Brangäne trepida e commossa che canta splendidamente il proprio lied del secondo atto: una delle migliori testimoniate dal disco.
Ludwig Weber riesce a dare a Marke una patina di calore umano e di comprensione che rende più digeribili le insopportabili querimonie dell’interminabile assolo del secondo atto: è veramente bravo.
Hotter come Kurwenal è un po’ sprecato (sarebbe stato interessante sentirlo come Marke in una produzione di questo genere) e tende a fare un po’ troppo…il Wotan della situazione; però la sua calda umanità, quella che rende irresistibile il suo Hans Sachs, viene fuori in modo debordante.
Molto bene anche gli altri, fra cui segnaliamo volentieri il pastore di Unger.

Edizione di assoluto riferimento, fra i vertici interpretativi di tutti i tempi, che ha segnato l’inizio di un’epoca interpretativa ancora in corso

Categoria: Dischi

 

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