Domenica, 06 Ottobre 2024

Don Carlos

Aggiunto il 19 Gennaio, 2015


Giuseppe VERDI
DON CARLOs
(versione in 5 Atti)

• Philippe II RUGGERO RAIMONDI
• Don Carlos PLÀCIDO DOMINGO
• Rodrigue LEO NUCCI
• Le Grand Inquisiteur NICOLAI GHIAUROV
• Un Moine NIKITA STOROJEV
• Elisabeth de Valois KATIA RICCIARELLI
• La Princesse Eboli LUCIA VALENTINI TERRANI
• Thibault ANN MURRAY
• Le Comte de Lerme TIBERE RAFFALLI
• Un Héraut Royal ANTONIO SAVASTANO
• Un Bûcheron ALESSANDRO CORBELLI
• Une Voix d’en Haut ARLEEN AUGÈR

Coro del Teatro alla Scala
Chorus Master: Romano Gandolfi – Giulio Bertola

Orchestra del Teatro alla Scala
CLAUDIO ABBADO

Luogo e data di registrazione: CTC Studio, Milano, Gennaio 1983 – Giugno 1984
Ed. discografica: DGG, 3 CD (4 nell’edizione originale)

Note tecniche sulla registrazione: suono pieno, lievemente riverberante

Pregi: la prima edizione in francese. La concezione di Abbado è ancora oggi da brivido. Spettacolare la Valentini

Difetti: il cast, in larga parte

Valutazione finale: images/giudizi/buono.png

Questa celeberrima registrazione fu affrontata da Abbado 6 anni dopo l’inaugurazione della Scala del 1977. L’edizione seguita – come noto – è fondamentalmente quella di Modena, cui vengono aggiunti in appendice 6 degli 8 brani ritrovati negli archivi dell’Opèra di Parigi da Andrew Porter, Ursula Günther e David Rosen (coro dei boscaioli, scena Elisabeth-Eboli all’inizio del terzo atto, balletto “La Peregrina”, duetto Elisabeth-Eboli nel quarto atto, compianto sul cadavere di Posa, concertato finale). Chi voglia quindi ascoltare come Verdi abbia concepito la sua opera nella versione originale, deve per forza rivolgersi all’incisione di Matheson per Opera Rara, oppure alla registrazione dello spettacolo di Vienna 2004, quello con la direzione di De Billy e la regia di Peter Konwitschny; altro non c’è.
Ma questa registrazione, pur drammaturgicamente incompleta e piuttosto raffazzonata, anche per la deprecabile scelta di mettere i brani in più in appendice e quindi fuori da ogni logica teatrale, all’epoca era la prima a proporre la lingua francese in cui l’opera fu concepita; e, come tale, fu tenuta in notevole considerazione nonostante alcuni problemi che furono evidenti sin dall’inizio.
Uno: la veste editoriale originariamente in 4 CD. L’introduzione dei brani in appendice non giustificava l’esborso non banale per un quarto CD che non era previsto da nessun’altra incisione, nemmeno di quelle vicine all’integralità come – per esempio – quella di Venezia 1973. Questo aspetto è stato risolto in fase di rimasterizzazione nella collana “The Originals”, in cui la registrazione è stata ripubblicata in 3 CD come tutte le altre.
Due: il cast.
E qui occorre qualche riflessione.

Il cast proposto non rispecchia per niente quello di anni prima alla Scala; viceversa, era quello che la DGG assemblava per i titoli verdiani usando i “campioni” della propria scuderia.
E, nonostante la famigliarità di Abbado con questi cantanti, si sente che non sono quelli con cui era maturata la recita teatrale.
Una delle regole non scritte per far vendere una registrazione operistica era ficcarci dentro Domingo sempre e comunque; ma il Domingo di quegli anni dimostra quanto possa essere improba la parte di Don Carlos se affidata a un tenore sfiatato. E, mi spiace, in questo dissento totalmente dal mio amico Elvio Giudici che dice che di tutto il cast, nonostante le difficoltà vocali Domingo è l’unico a capire l’impostazione del direttore. Riascoltando a distanza di anni questa registrazione, quello che evinco è la spaventosa difficoltà del tenore spagnolo a “starci dentro”: è veramente penoso.
La fatica perenne e l’ansia per l’acuto sono ben percepibili sin da Fontainebleau; ma è con la scena dell’Autodafé che tocca il peggio, mancandogli completamente lo squillo e il declamato che dovrebbero rendere il coté eroico del personaggio. L’ansia per l’acuto e l’affanno, poi, di fatto impediscono di trovare la benché minima sfumatura, nel contesto di un piattume espressivo che non potrebbe essere più desolante.
Molto peggio di lui, però, è il quasi parodistico Philippe II di Ruggero Raimondi, non disprezzabile in tale ruolo nella precedente registrazione Emi di Giulini. C’è peraltro da dire che erano passati ben più di dieci anni, decisamente tanti; e la pronuncia francese di Raimondi inclina pericolosamente dalle parti della parodia del russo. Anche nel suo caso, personaggio pressoché inesistente, subissato da una scrittura non dominata se non in minima parte.
Non male – nonostante tutto – il grande momento solistico all’inizio del Quarto Atto (in cui, come noto, il meditativo assolo iniziale è da Abbado assegnato a tutta la fila dei violoncelli), di cui riesce a cogliere il senso di smarrimento, ma è uno smarrimento troppo proletario per essere quello di un Imperatore. In compenso, la successiva scena con il Grande Inquisitore lo vede soccombere penosamente.
Discretamente meglio, nonostante tutto, Leo Nucci che stava iniziando a ritagliarsi una credibilità nei ruoli verdiani di cui sarebbe stato insospettato detentore nei successivi trent’anni. Il suo Posa non ha l’ampleur del Grande di Spagna, ma è pratico, spiccio, a tratti persino simpatico, complessivamente non male. Ciò in cui Nucci funziona meglio è nella comunicativa del canto di conversazione: da questo punto di vista è ottimo il “Dieu tu semas da nos âmes”, in cui si sovrappone molto bene a Domingo, sembrando curiosamente anche di lui più chiaro; e il duetto con Philippe II è molto ben ritenuto e cantato meglio da Nucci che da Raimondi. Non così bene, invece, nel grande momento solistico del Quarto Atto in cui i confronti con cantanti molto più significativi sono troppo schiaccianti.
Meglio ancora Lucia Valentini, che nobilita la propria parte cantando splendidamente la più bella Canzone del Velo che si sia mai sentita, con sestine meravigliosamente sgranate (come non succede quasi a nessuna) e “rubate” alla fine; e giocando abbastanza di mestiere nel “Don fatal et detésté”. Assieme alla Bumbry è probabilmente la più rifinita e intrigante Eboli di tutta la discografia, grazie anche a un eloquio raffinatissimo e ricco di nuances espressive.
Ottimo Ghiaurov, che si espande con notevole arroganza, anche se con convenzionalità, nella parte del Grande Inquisitore.
La Ricciarelli, riascoltata oggi, non è male. Probabilmente non è illuminante; forse è un po’ monotematica nel giocare la carta della remissività; ma alla fine funziona.
Maluccio nell’atto di Fontainebleau (ma è trascinata verso il basso anche dalla prova scarsa di Domingo), comincia a farsi valere nel duetto del Secondo Atto (Je viens solliciter) in cui riesce a mantenere un profilo ben bilanciato fra l’affetto represso e l’autorità. In compenso, “Oh ma chère compagne” soffre di discreto linfatismo, anche se il tono è sempre giusto e ben centrato. Parimenti linfatica è la grande aria del Quinto Atto, che parte bene ma che viene vissuta in modo tremebondo: questa non è una regina, ma una donna smarrita di fronte a eventi più grandi di lei.
È ovvio che questa impostazione le permette di sfoderare le sue armi migliori, e cioè i pianissimi flottanti in stile Caballè; ma è altrettanto ovvio che – analogamente alla catalana – il personaggio non decolla, perché finisce per mancare qualcosa.
Ma comunque, alla fine, anche all’ascolto odierno si rimane appagati da una voce di così strepitosa bellezza che, forse all’ultimo tuffo della sua (breve) stagione, riesce a emozionare con il puro dato estetico.
Peccato che nel contesto di questa direzione, la discreta inerzia espressiva della Ricciarelli in questa parte si noti ancora di più.

La direzione di Abbado, infatti, è meravigliosa; e questo non suscita meraviglia, giacché si tratta di una di quelle opere sulle quali ha costruito la propria fama. La scena dell’Autodafé, tanto per fare un esempio, ha una potenza visionaria che non ha paragoni nella discografia, ufficiale o no: lo schianto emotivo generato da un’orchestra meravigliosa in comunione con un coro come questo che ascoltiamo, guidato da Romano Gandolfi e Giulio Bertola, è da infarto; ma non è solo questo, ovviamente. C’è una tensione morale, se vogliamo anche discretamente “politicizzata”, notevolissima.
Nessuno ha diretto mai quest’opera con tanta attenzione ai movimenti delle masse come commento alle azioni degli uomini, evidenziando il coinvolgimento di questi ultimi negli sconvolgimenti civili; ecco perché non sarebbe stato male mettere la scena iniziale dei Boscaioli nella sua integralità.
Nessuno ha mai diretto quest’opera con così tanto senso delle sproporzioni nel rapporto fra la Chiesa militante, veterotestamentaria e inquirente; e il potere temporale, imbelle e inadeguato nelle mani di un Imperatore debole e di un figlio potenzialmente anche peggio. E, in quest’ottica così particolare, non solo risuona perfettamente centrata la distribuzione dei ruoli Inquisitore/Imperatore, ma acquista anche un suo senso avere due “debolezze” così evidenti nei ruoli di Imperatore e Infante. Certo che, a ripensare a come a Vienna nel 1970 Ghiaurov (Filippo) e Talvela (Inquisitore) si scambiassero bordate di suono, viene da sorridere: qui Ghiaurov seppellisce il malcapitato Raimondi in una definizione di ruoli che non potrebbe essere più netta, precisa e apodittica.
A fronte di ciò, si ha la sensazione che gli uomini vivano le loro vicende un po’ a lato, come se si scusassero di esserci; ma anche questo potrebbe essere un riflesso delle scelte del cast, fortissimo nel coro e più debole nei singoli.
Questo è un Don Carlos “di sinistra”? Sì, può darsi.
E, come tale, questa visione è stata un caposaldo della storia dell’interpretazione, specie nelle mani di un Mostro Sacro come Abbado, una fotografia di un momento storico irripetibile.
E, diciamocelo: ampiamente sorpassato dalla prova del tempo
Pietro Bagnoli

 

Chi siamo

Questo sito si propone l'ambizioso e difficile compito di catalogare le registrazioni operistiche ufficiali integrali disponibili sul mercato, di studio o dal vivo, cercando di analizzarle e di fornirne un giudizio critico utile ad una comprensione non sempre agevole.