Forza del destino
Aggiunto il 16 Marzo, 2008
Questa è la storia di una spedizione, di quelle che una volta la Scala faceva senza troppi problemi, portandosi al seguito tutti i complessi. Da questa performance stellare nasce una di quelle registrazioni che si pongono, senza se e senza ma, come riferimento assoluto nella Storia esecutiva di questo capolavoro teatrale.
All’ottenimento di questo risultato concorrono, ovviamente, tante componenti, tutte in proporzioni di raro equilibrio, a dimostrazione che il lavoro di squadra è spesso più importante dell’one man show.
C’è una direzione ispirata, serratissima, ricca di pathos teatrale, drammatica, spesso violenta e contrastatissima: è probabilmente il capolavoro esecutivo di quel grande Artista che effettivamente è stato Antonino Votto, uno di quei personaggi giudicati a torto minori nel panorama dei cosiddetti “direttori di repertorio” ma che invece riuscivano ad abbinare originalità esecutiva ad una piena conoscenza di tutte le gabole tese dal canto.
C’è un tenore che, sicuramente, all’epoca era già ai limiti inferiori per poter tollerare la tensione espressiva di questa parte, ma lo fa con appropriatezza, ancora buona tenuta complessiva e solo occasionale stridore di un settore acuto messo alla frusta ma sostenuto con competenza e praticità. E va detto, peraltro, che quando le cose funzionano bene, Di Stefano riesce ad esprimere una poesia ricca ora di dolcezza e di nostalgia melanconica, ora di furore virile che sembra sempre eroico senza essere posticcio, come capitava invece ad altri “campioni dell’affondo” della stessa epoca.
C’è un basso collaudatissimo nel ruolo di Padre Guardiano: Cesare Siepi ha fatto questa parte austera in tutti i teatri del mondo con appropriatezza, severità e una carica non indifferente di comprensione umana. Qui è meglio che altrove grazie anche ad una discreta dose di ironia e di humour che affiora soprattutto nel duetto con Melitone, anche se siamo decisamente lontani da quell’ideale di leggerezza ultraterrena che dovrebbe sostanziare questo personaggio.
C’è un baritono anch’esso appartenente alla categoria dei vilipesi, specie di fronte ai grandi modelli italiani del ruolo in epoca novecentesca come Tagliabue (prima) e Cappuccilli (dopo), ma che rispetto al primo presenta una spontaneità espressiva talvolta un po’ rude ma di notevole efficacia, e rispetto al secondo – del quale è spesso stato visto come un progenitore – una maggior incisività e precisione. Un gran bel Carlo di Vargas, davvero; anzi, un modello di riferimento, e non solo per la sicurezza con cui si dipana tutta l’esposizione della parte ( “Morir! Tremenda cosa” è espresso con una specie di timor panico quasi superstizioso che cede il passo ad una progressiva consapevolezza rabbiosa che si sfoga in un’ “Urna fatale” di rapinosa bellezza), ma anche per il taglio interpretativo ricco di idee e di sfumature.
C’è un mezzosoprano magari non raffinatissimo (ma ci serve veramente in un personaggio come Preziosilla?), magari più familiare alla parte di Curra, ma che comunque “porta a casa la serata” senza farsi particolari problemi.
C’è uno stuolo di comprimari di notevole spessore, che contribuiscono da par loro al risultato eccezionale della serata.
E c’è lei, ovviamente: Leonora di Vargas. Leyla Gencer, che si appropria di una parte virtualmente non sua con un’efficacia grandiosa e con alcune scelte che possono sembrare scaltre, ma che di fatto proiettano questo ruolo spesso magniloquente in bocca ad altre (anche – giustamente – celeberrime) in una specie di oasi di intimismo che diventa, in bocca sua, l’unico possibile scenario per questo personaggio.
Innumerevoli sono gli spunti: si parte da un “Me peregrina ed orfana” che mette già – per così dire – le carte in tavola con una eloquenza liquida ed un eloquio affannato ma elegantissimo (tra l’altro “raccontato” meravigliosamente dall’ispiratissimo accompagnamento di Votto), concluso da una smorzatura celestiale che fa passare ampiamente in secondo piano altre specialiste del ruolo e altre ancora che, pur non essendo specialiste, vi si cimentarono con risultati non banali.
È chiaro poi che, proseguendo su questo cliché, la Gencer trova accenti di una bellezza rapinosa in “Madre pietosa Vergine”, ancora una volta con un accompagnamento palpitante di Votto; in tutta la scena del convento, conclusa da un "La Vergine degli Angeli” che, quanto a pura bellezza di suoni (vale a dire proprio ciò che su queste pagine viene cercato di meno), è talmente strepitoso da essere superiore persino a quello di Renata Tebaldi; e in un “Pace, mio Dio”, ancora una volta concluso da una smorzatura da estasi pura su “Invan la pace”.
Ciò in cui, se vogliamo, possiamo trovare qualche carenza è sul fronte della scansione drammatica di questa Leonora, che è una creatura più angelicata che carnale e, al limite, un filino monotematica nel cedere supinamente agli insulti della malasorte, ma sono quisquilie di fronte ad una prestazione che, dalle angolazioni in cui si pone, non è meno che straordinaria.
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