Ballo in maschera
Aggiunto il 16 Settembre, 2007
Ecco gli Anni Settanta alla Scala.
Un’opera verdiana fra le più belle, uno stuolo di ottimi cantanti dediti a quel tipo di repertorio, un direttore in grado di tirar fuori le cose migliori dall’opera e dai suoi interpreti, un pubblico adorante messo in evidenza dalla ripresa amatoriale e, non ultimo, un debutto, nella fattispecie quello di Shirley Verrett che ormai aveva abbracciato i ruoli da soprano e non si può dire davvero che andasse sul facile.
Inevitabile, in questo periodo immediatamente successivo alla sua scomparsa, riascoltare con commozione Luciano Pavarotti alle prese con uno di quei personaggi che gli hanno dato maggior fama nel mondo, al punto da costringere la critica ad indicarlo come uno dei due interpreti ideali del ruolo di Riccardo (l’altro essendo Bergonzi; e avremmo molto da ridire su entrambe le indicazioni...). E se l’accento nel primo atto e nell’antro di Ulrica è sempre appropriato in virtà di una nonchalance che faceva parte del suo modo di porgere la frase, le cose si complicano però a partire dal duetto con Amelia che suona affettuoso,ma singolarmente poco problematico in una pagina che invece richiederebbe mille tensioni emotive che qui, proprio, non si sentono. Ma la prova del nove è nel terzo atto, dove “Forse la soglia attinse” è compitata in modo stentoreo, emotivamente indifferente, senza un grammo di sofferenza emotiva. Per carità, la voce è sempre quella di Luciano Pavarotti e non manca di imporsi in un’atmosfera incandescente come quella della Scala di quegli anni, e il pubblico partecipa con passione lasciandosi trascinare, ma il pathos è già da “Pavarotti & friends”, dove gli “amici” sono quelli del pubblico cui manca solo un pizzico di sfacciataggine per unirsi al tenore in una specie di rito collettivo, santificato da un “Sì rivederti Amelia” persino insolente per la facilità con cui vengono emesse le note, ma di un’indifferenza glaciale quanto a turbamento di fronte ai conflitti di un amore proibito.
Molto meglio quindi la Verrett, alle prese con un personaggio che non le apparterrà mai completamente e affrontato con umiltà e circospezione, ma anche con la piena consapevolezza di mezzi tecnici già perfettamente rodati e scaltriti. Ciò che non convince è l’accento: duro, scabro, imperioso, mancante di quelle connotazioni squisitamente femminili che avevano caratterizzato anche personaggi come Lady Macbeth. La cifra tecnica è molto elevata, permettendolo smorzature in quota e splendide bellurie da quell’autentica fuoriclasse che era; ma la tenerezza, lo sgomento della giovane donna convenzionale alle prese con qualcosa di molto più grande di lei e delle sue facoltà di comprensione, la gioia pazza dell’autoimmolazione in un amore proibito, sono tutte connotazioni che mancano a questa Amelia il cui ricordo decisamente non è sopravvissuto al passaggio degli anni e che, in questo ruolo, è dimenticata più ancora di cantanti che pure sembravano sulla carta meno adeguate, come la Nilsson.
Il Renato di Piero Cappuccilli è giustamente molto famoso, ma il personaggio è convenzionalissimo, anche se riscattato da un canto che, pur abbastanza povero di armonici, è ricco di bella voce ben emessa. Alcune belle intuizioni di fraseggio nel terzo atto, insinuante e sorridente nel duetto con Oscar, non finiscono per sollevare una prestazione che finisce per imperniarsi sulle grandi arie, particolarmente quella del secondo atto che, in virtù della bellezza del registro acuto, viene salutata da un trionfo da parte del pubblico festante.
Gradevole la Mazzuccato nel dipingere un Oscar argentino, allegro e smaliziato, strettamente apparentato con quei personaggi da operetta verso cui dirigerà il proprio talento; gli acuti però non sono propriamente adamantini.
La Obraztsova fa una prova come al solito ricca di professionalità,ma anche di abusi di suoni poitrinés ricchi di risonanza cavernose che sono ben inquadrati nella tradizione esecutiva di Ulrica, ma che non dicono nulla di nuovo od interessante sul personaggio.
Complessivamente bene gli altri, con una menzione particolare per i due congiurati di Roni e Foiani, splendidi professionisti.
Abbado, com’è noto, ha sempre avuto un notevole feeling con quest’opera, da cui però bandisce tutto ciò che potrebbe sembrare concessione al sentimentalismo in favore di una notevole speditezza non esente da sonorità stentoree di gusto mitteleuropeo; e se questo funziona bene con la Verrett, con cui dimostra un notevole feeling (il che, alla fine, è il principale motivo di interesse di questo live), mostra però un po’ la corda con tutti gli altri e segnatamente con Pavarotti, il cui universo è lontano le mille miglia dalla scabra serietà del direttore milanese. Oltre a tutto – ci sembra – manca molto di quella “voglia di tenerezza” se vogliamo un po’ incongrua nella poetica verdiana, ma che caratterizza l’unica vera storia d’amore che il Cigno di Busseto abbia mai raccontato al suo pubblico.
In conclusione, uno spaccato affidabile dell’interpretazione d’opera a Milano negli Anni Settanta, un ascolto gradevole e per certi versi anche interessante, ma non un’edizione di riferimento del capolavoro verdiano