Trovatore
Aggiunto il 28 Agosto, 2007
Ascoltando questi due dischi, anche con quel minimo di “bausceria” che è tratto distintivo tipicamente milanese, si deve riconoscere che nel 1962 non ci si faceva troppe seghe mentali con la riscoperta di Europe più o meno riconosciute sotto l’insegna della filologia: l’opera, e la sera dell’inaugurazione in particolare, doveva essere una bella serata nazional-popolare. Lo stesso quartetto di personaggi (direttore, soprano, tenore e baritono) che aveva inaugurato l’anno precedente con la “Battaglia di Legnano”, con l’aggiunta non banale di Fiorenza Cossotto, abbandona la transitoria audacia (tutto sommato, mica poi tanto) della riscoperta dell’opera risorgimentale perduta, riagguanta il Verdi più conosciuto ed affidabile e si presenta al giudizio di Milano per il Sant’Ambrogio. Trionfo. La cronaca di questa registrazione potrebbe chiudersi qui e, per una volta, nessuno criticherebbe i nostri parametri di valutazione, tanto è vivo nel ricordo di chi c’era il gusto di una serata che tutti i sopravvissuti descrivono come memorabile, immensa e chi più ne ha più ne metta.
Ma il tempo è tiranno, o galantuomo, a seconda dei punti di vista; e, nel rivalutare con la massima serenità i fasti di una serata che, secondo molti, dettò definitivamente i limiti entro cui si dovrebbe muovere un’ideale interpretazione verdiana, dobbiamo pur tener conto anche di ciò che, tutto sommato, non ci dispiace che sia stato abbandonato, almeno nelle mani degli interpreti che contano.
Per esempio: sono tuttora estasianti le celestiali smorzature ad alta quota di quel fenomeno che fu Franco Corelli, uno che a nostro parere esalta ancora oggi l’ascoltatore più per questi prodigi che non per la bellezza della voce o per lo sfolgorante nitore degli acuti; ma – santa pace! – quelle lagne singhiozzanti continue condite da atroci portamenti ascendenti sarebbero dovuto essere insopportabili anche in quegli Anni Sessanta del boom economico che in Italia venivano ferocemente sbeffeggiati al cinema da un capolavoro di cinismo come “I mostri” di Risi, comparso solo un anno dopo. E invece no: il pubblico applaude in delirio il proprio eroe generando nell’ascoltatore di quarantacinque anni dopo la sensazione che ci debba essere qualcosa di schizofrenico nell’attivazione dei semplici meccanismi di autoidentificazione che stanno sempre alla base della buona riuscita di uno spettacolo, di qualunque genere esso sia (e questo doveva per forza valere anche nel 1962). Perché delle due l’una: il pubblico italiano o si riconosceva in Tognazzi che tira su la battona per festeggiare l’acquisto di una Seicento con una pila di cambiali e in Gassman che rifiuta di far curare l’amico mendicante cieco per non perdere la fonte di guadagno da sfruttare; o si identificava nei singhiozzi pudibondi e nell’eroismo da cartolina di Corelli; ma non tutte e due le cose insieme!. Siamo d’accordo, i due àmbiti sono lontani fra di loro anni luce, ma ai tempi nostri, assai meno cinici di quegli Anni Sessanta che preparavano la contestazione (e che comunque altrove – per esempio al Covent Garden – accoglievano l’eloquio ben altrimenti moderno di un Vickers nelle opere verdine, e non solo nell’ovvio “Otello” ma persino nel “Ballo in maschera”!), risulta incomprensibile l’entusiasmo per un’interpretazione di incommensurabile bellezza quanto ad onnipotenza del mezzo vocale e di deforme bruttezza per quanto concerne un modello virile che sarebbe apparso demodè anche nei romanzi di Liala.
Ma i problemi non si limitano a quanto rappresentato da Corelli.
Gavazzeni dirige malissimo imprimendo all’opera un’andatura lugubre che contrasta con la sua abituale verve garibaldina (e che aveva fatto ascoltare proprio nella “Battaglia di Legnano” di un anno prima), ma soprattutto senza tenere mai in pugno la situazione sul palcoscenico ove tre protagonisti su quattro si fanno elegantemente i cavoli loro. Oltre a tutto i tagli orrendi con cui ammorba la partitura erano già ampiamente passati di cottura da un bel po’ di tempo: nessuna tradizione li doveva più autorizzare, tanto più se propinati da uno dei musicisti più intelligenti, colti e raffinati di tutto il Novecento.
Antonietta Stella è come sempre molto brava e leccatina, e si sforza di non trascendere come fanno tutti gli altri; ma la sua pudibondia sconfina spesso nella riservatezza, col che il risultato perde totalmente d’interesse. E se in “Tacea la notte placida” riesce a trasmettere una partecipazione gioiosa, “D’amor sull’ali rosee” vive solo dell’attenzione per la difficoltà esecutiva, col che si affossa una delle pagine più geniali mai scritte da Verdi per voce di soprano.
Fiorenza Cossotto fa del suo personaggio tutto quello che le passa per la testa, con risultati alterni: è francamente imbarazzante in uno “Stride la vampa” mediocre, ma è elettrizzante per esempio in “Condotta ell’era in ceppi”. Complessivamente è sempre sopra le righe anche quando dovrebbe trasmettere la sofferenza di una madre, e conseguentemente ben poco interessante.
Bastianini è generico e non viene riabilitato nemmeno dalla splendida grana della voce.
Vinco è un Ferrando totalmente privo di mistero in un racconto da osteria della Bassa padana.
Continuiamo a pensare che gli Anni Sessanta italiani vadano ricordati più per il boom economico che non per i criteri dell’interpretazione verdiana