Macbeth
Aggiunto il 05 Agosto, 2007
Incisione mitica, questa, e per almeno tre buone ragioni.
Innanzitutto lo spettacolo cui faceva seguito, celeberrimo, in cui Abbado recuperava profondità e mistero ad una partitura spesso negletta, anche se recuperata alla celebrità già da qualche tempo, soprattutto grazie alla Callas che aveva fatto piazza pulita delle cantanti di area tedesca che si erano appropriate del ruolo di Lady in forza dell’equivoco della voce “brutta” che Verdi stesso avrebbe voluto per la propria protagonista.
La seconda ragione è appunto la direzione di Abbado, il vero Abbado, quello che ci fa impazzire e che giustifica branchi di appassionati deliranti che ne seguono meticolosamente gli spostamenti, non quello di oggi, secondo noi molto più scontato nelle sue scelte.
La terza ragione è, ovviamente, la Primadonna, probabilmente la migliore di tutta la discografia a pari merito con la Callas.
Shirley Verrete è grandissima. Attenzione: è una Lady che, se vogliamo, presenta qualche improprietà stilistica dovuta al fatto che la sua impostazione da mezzosoprano (ma sarebbe più corretto definirla falcon, almeno in quella fase della sua carriera) la porta ad affondi poitrinées che, in aggiunta ad una prosodia italiana piuttosto fantasiosa, comporta un risultato abbastanza curioso nei passi più declamatori (la lettura della lettera, per esempio). Ma siccome, come dicevamo, a quel punto della sua carriera aveva già virato di prua diventando di fatto un soprano, la sua candidatura al ruolo è molto più pertinente rispetto a quella di una Cossotto che, nell’incisione con Muti, nonostante gli acuti svettanti, non riesce mai a far dimenticare di essere un mezzosoprano.
È ben vero che la lettura della partitura obbligherebbe a considerare che Lady non è né mai potrà essere un mezzosoprano; ma è anche vero che c’è una lunga teoria di cantanti, soprattutto di area tedesca e di tradizione wagneriana, che si erano – come detto – appropriate del personaggio, e non sempre soprani: se è vero che nella lista compaiono la Rysanek e la Nilsson, molto peculiari ma pur sempre soprani, è anche vero che ci sono personaggi come la Klose o la Höngen, che invece erano mezzosoprani e che quindi, nonostante l’estensione del registro acuto anche ragguardevole, non avrebbero mai potuto essere affidabili in una parte come questa, e con particolare riferimento ai passaggi d’agilità.
Ora non diremo che la Verrett domini la coloratura e, più genericamente, la vocalizzazione di agilità alla stregua di una June Anderson, ma si disimpegna con onore anche su questo fronte riuscendo alla fine ad essere convincente.
Ma quello che maggiormente rende questa Lady vincente è l’impronta drammatica mai disgiunta da una femminilità estenuata, nervosa e sensibile eppure mai nevrotica. Una Lady che convince col sussurro e con il sorriso, mai con il grido anche se, all’occorrenza, le fiondate all’acuto hanno una forza percussiva notevole. Tutti i suoi momenti topici sono splendide pagine (la nostra personale preferenza va al tono estatico, straniato con cui pronuncia “La luce langue”), ma tutti gli incisi, soprattutto nei duetti con Macbeth, sono resi con un’efficacia che ha ben pochi riscontri nella discografia. Una prova straordinaria, grazie anche ad un’intesa amorevole cementata con Abbado sin dalle recite milanesi.
A fronte di cotanta interprete, ci sta il Macbeth di Cappuccilli, che non è il nostro ideale nel ruolo (un ideale comunque piuttosto difficile da identificare, ad essere onesti), anche se bisogna riconoscere che alla fine risulta credibile e convincente. Se vogliamo, il suo personaggio è ancorato ad una tradizione di pavidità: è chiaramente manipolato dalla moglie che ne detta i comportamenti, per cui la sua declamazione è sempre tremebonda con rari sussulti d’orgoglio. Non c’è in lui la forza barbarica del thane, bensì la tranquillità di una routine che viene sconvolta da una serie di fatti che egli non è in grado di dominare; non è proprio un’intuizione originale, ma si fa apprezzare. La resa vocale è in linea con le sue migliori performances.
Meno interessante è Domingo, aggregato alla compagnia ma senza essere stato fra i protagonisti delle recite teatrali; il suo momento solistico è cantato bene more solito, ma senza oggettivamente provocare sconquassi emotivi nell’ascoltatore. Non la indicheremmo fra le sue prove più significative.
Ottimo Ghiaurov, che mette a disposizione di Banquo tutta la potenza della propria inimitabile cavata, e ottimo anche il folto stuolo di tutti i personaggi minori, così importanti nell’economia di quest’opera.
Splendido il coro della Scala di Milano, guidato dal geniale Gandolfi, che lo porta ad una coesione di intenti tale da farne un’autentica forza motrice nell’economia del dramma.
La direzione di Abbado è paradigmatica: violenta e corrusca, eppure aerea, vaporosa, sottile, con un sapiente bilancio fra i momenti drammatici e quelli più colloquiali. In particolare segnaliamo volentieri il giusto rilievo ai ritmi villerecci che hanno una precisa economia nel dramma e il meraviglioso accompagnamento ai duetti. L’unico aspetto che ci perplime non poco è l’inclusione di “Mal per me”, aria di non particolare effetto che, peraltro, viene espunta in molte edizioni