Guglielmo Tell
Aggiunto il 11 Settembre, 2006
Di tanto in tanto qualcuno “riscopre” il Guglielmo Tell, magari nella sua forma originale francese; ma è ben difficile che si proponga di farlo nella forma proposta in queste recite scaligere da Riccardo Muti che, con esse, ha siglato il proprio capolavoro d’Artista.
Innanzitutto, l’assoluta integralità, sia pure nella traduzione italiana. Traduzione che rimane, abbastanza comprensibilmente, uno dei due nei di un’edizione che di fatto è passata alla Storia; l’altro fu la regia di Ronconi, decisamente non all’altezza dell’evento, ma non l’affronteremo in questa sede.
Il ricordo delle recite di ormai quasi vent’anni fa è sorprendentemente ancora molto vivo, ma l’ascolto dei 4 cd è illuminante per capire sino a che punti di approfondimento si sia spinto Muti con una partitura che aveva in repertorio da parecchio tempo, come conferma la registrazione delle recite fiorentine del 1972.
Se provassimo a sintetizzare i punti essenziali potremmo identificarli come segue:
1. La fuoriuscita dalla logica “guerresca” della vicenda mediante l’adozione di tempi energici, talvolta violenti, ma mai pesanti o soffocanti. Da questo punto di vista, nessuna edizione presenta una propulsione agogica che sia anche solo lontanamente paragonabile, in ciò ampiamente supportato da un’orchestra come quella scaligera addirittura oltre il top delle proprie possibilità, evidentemente sollecitata da una personalità soverchiante. È francamente difficile estrapolare i momenti più significativi in cui tale aspetto è magnificato: dalla fastosa Ouverture sino alla scintillante chiusura, in cui veramente l’orchestra sul “Grandioso” finale riesce a far percepire perfettamente i riflessi dei monti sul lago, passando attraverso la Scena del Giuramento del II Atto sino all’Allegro di Arnoldo del IV Atto, trascinante per un senso di urgenza espressiva, non per velleità guerrafondaie. Altrove, invece, i momenti di calma pensosità come il “Selva opaca” o il “Resta immobile” hanno una serena affettuosità tuttavia sempre pulsante di un dinamismo che batte secondo un orologio interno che mai nessun direttore aveva fatto percepire con così tanta efficacia. Questo orologio interno è, a nostro avviso, la vera chiave di lettura non solo dell’interpretazione mutiana, ma del Tell in toto
2. La scelta di un tenore con le caratteristiche vocali di Merritt risponde da un lato alle necessità esagerate della parte, dall’altra alla mancanza di un tenore in grado di rispettarle seguendo la prassi cosiddetta “di petto” e, infine, l’oggettiva constatazione che il tenore di Oklahoma City, in quel periodo, godeva di una popolarità internazionale di un livello tale da meritare, ancora oggi, una riflessione attenta. Pensiamo al ruolo: scritto, com’è noto, per le possibilità vocali di Adolphe Nourrit, tenore contraltino che, a partire dal sol 3, passava al falsettone raggiungendo con questa metodica il do 4 senza problemi (e anzi, probabilmente andava anche oltre). Sulla base di queste possibilità, Rossini ideò una scrittura acutissima: nel Terzetto del Secondo Atto arriva al do diesis 4, ma tutta la parte di Arnoldo è piena zeppa di si bemolle, si naturali e do. Poi, com’è noto, da Gilbert Duprez in avanti furono cambiate le carte in tavola con la comparsa del do di petto; in tempi relativamente recenti, l’elemento stilisticamente più attendibile di questa particolare visione è stato indiscutibilmente Gedda, con tutto che anche lui si rifugiava in un’emissione mista di testa con risonanze apparentemente haute-contre. Con Merritt, vera forza della natura, dotato di fiati interminabili, di musicalità ineccepibile e di stile rigorosissimo, si ritornava per certi versi ad un’emissione che se non era un vero e proprio falsettone, comunque lo ricordava molto da vicino e che era particolarmente evidente tutte le volte che la voce si inarca oltre il si bemolle. Ne risultava un Arnoldo per noi tutto sommato inedito, eccitantissimo tutte le volte che la scrittura andava sopra il rigo (e Dio solo sa quante volte ci vada, in questo ruolo), un po’ meno in quei passaggi in cui invece veniva richiesta maggior riflessività, ma comunque dotato di una scansione bruciante che raggiungeva il suo acme proprio nello straordinario Allegro del IV Atto
3. L’esaltazione della Natura come vero motore di tutta la vicenda, e quindi ecco l’orologio interno di cui si parlava poco sopra. La Natura, vero motore che anima le vicende degli uomini, è il principio e la fine di tutto, e accoglie in sé anche le nefandezze inglobando nel suo alveo materno anche gli orrori di Gessler. In un medium di questo genere, di cui Muti fa sentire le pulsazioni, non c’è spazio per guerre e tormenti: basta solo ascoltare quel soffio profondo che è il vero colpo di genio di Rossini, che qui fa respirare orchestra e cantanti come non gli era mai riuscito nei capolavori precedenti e come, intuitivamente, non gli sarebbe più riuscito in seguito, col che verosimilmente si spiega anche la scelta di interrompere la produzione musicale ancora prima dei 40 anni
Molto spesso si parla del Tell come della prima opera del Romanticismo, ma abbiamo sempre avuto da ridire su questa affermazione (che, semmai, potrebbe riguardare quell’altro capolavoro che è La Donna del Lago), tanto più a fronte di un’interpretazione come questa di Muti che, forte del suo amore per il Neoclassicismo, trova nel Tell l’ultima propaggine di questo mondo sereno ed apollineo che ancora non riesce a corrompersi coi furori dionisiaci del Romanticismo in arrivo e che si sublima nella celebrazione di una Natura incorruttibile, vero arbitro delle vicende e delle miserie umane.
Non c’è spazio per eroismi, in questo mondo così perfettamente equilibrato.
Ed ecco che, quindi, trova una sua collocazione anche il Guglielmo del bravo, misurato ed intelligente Giorgio Zancanaro, che non avrà sicuramente il carisma di un Taddei, ma che in questo contesto ci sta benissimo superando così anche i limiti di un’interpretazione forse un po’ carente sul versante della personalità, ma comunque sicura, attenta, molto misurata ed esente da fatiche soverchie, il che gli permette di arrivare alla perorazione finale (dopo circa 4 ore di spettacolo!) ancora in ottime condizioni di freschezza vocale.
All’epoca, poi, scritturare Cheryl Studer voleva dire disporre della cantante più famosa del momento. E brava lo era davvero, tanto più in una produzione come questa che restituisce a Matilde l’integrità della parte, ivi compresa la difficile aria del Terzo Atto, ricca di vocalizzazioni piuttosto acrobatici che alla Studer riescono davvero bene. Anche qui, a voler cercare il pelo nell’uovo, risulta evidente un certo qual riserbo espressivo che, per esempio, le fa un po’ sprecare il “Selva opaca” che è cantato molto bene, ma che non ha quel fraseggio particolarmente appassionato che ci hanno fatto sentire altre cantanti.
Ottimo il Gualtiero di Surjan, straordinariamente efficace nel Giuramento del Terzo Atto, di voce limpida e sicura, mentre appare provato da una lunga carriera il Gessler di Roni, i cui interventi – fortunatamente – non incidono più che tanto.
Abbiamo lasciato per ultimo il coro di Giulio Bertola, vero protagonista dello spettacolo assieme alla straordinaria orchestra di Muti, in un rapporto di simbiosi che purtroppo, negli anni successivi, non si è più ripetuto a questi livelli.
Complessivamente, la migliore incisione del Guglielmo Tell, il capolavoro artistico di Muti e, diremmo, uno dei capolavori assoluti della discografia del teatro d’opera.