Mercoledì, 03 Luglio 2024

Turandot

Aggiunto il 24 Marzo, 2007


Giacomo Puccini
TURANDOT

• Turandot KATIA RICCIARELLI
• Calaf PLÀCIDO DOMINGO
• Liù BARBARA HENDRICKS
• Timur RUGGERO RAIMONDI
• Altoum PIERO DE PALMA
• Ping GOTTFRIED HORNICK
• Pang HEINZ ZEDNIK
• Pong FRANCISCO ARAIZA
• Un Mandarino SIEGMUND NIMSGERN


Wiener Staatsopernchor
Chorus Master: Roberto Benaglio
Wiener Sängerknaben

Wiener Philharmoniker
HERBERT VON KARAJAN

Luogo e data di registrazione: non indicato, 1982
Ed. discografica: DGG, 2 cd a prezzo pieno

Note tecniche: registrazione tecnicamente perfetta
Pro: strepitosa regia sonora di Karajan; incredibile prestazione della Ricciarelli; coro indimenticabile; eccelente terzetto delle Maschere
Contro: voci affaticate, in particolare Domingo; o inadeguate come la Hendricks
Valutazione complessiva: images/giudizi/eccezionale.png


Tutto ciò che aveva reso indimenticabile la Turandot prodotta dalla coppia Sutherland – Mehta viene genialmente rielaborato sino quasi al ribaltamento da un direttore geniale sino al limite dell’egotismo che fa di quest’opera quello che – a buon diritto – possiamo definire il suo ultimo, vero capolavoro.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati da appassionati esegeti che hanno cercato di capire se volutamente Karajan si sia circondato nei suoi ultimi anni di attività di interpreti che non apparivano all’altezza del lavoro loro proposto, allo scopo di far risaltare la suprema abilità del direttore nel distillare emozioni. E mentre una volta eravamo dell’idea di appoggiare questo tipo di prospettiva, adesso, dopo aver riascoltato questo capolavoro, non la pensiamo più così.
O meglio, lo pensiamo in parte.
Perché è ben vero, come abbiamo già detto in altre sedi, che il tempo è galantuomo e che spesso riabilita prestazioni che sembravano ampiamente sorpassate, ma è altrettanto vero che c’è un limite a tutto, e ciò che già venticinque anni or sono sembrava già brutto nel canto della Hendricks, tale rimane anche a distanza di tempo; così come è indiscutibile che il Domingo degli ultimi tempi sia tutt’altra cosa, non solo da un punto di vista interpretativo, ma anche – misteriosamente – da quello vocale, rispetto a quello sciattone e sfiatato dell’epoca, che lasciava presagire una fine rapida pur se dolorosa. Ma ciò che invece lascia tutto sommato stupefatti è la rivoluzione copernicana cui sarà costretto l’ascoltatore attento e scevro di cellettismi di ritorno che si ri-cimenterà con la prova di Katia Ricciarelli.
Perché si tratta di grande prova, sulla cui reale premeditazione – quanto meno, da parte della cantante – non sapremmo dire, ma che appare ben contestualizzata nel particolare medium sonoro in cui il direttore austriaco cala l’opera.
Il tempo appare superficialmente lento, come gran parte delle produzioni di Karajan di quel periodo; ma è un’impressione che viene subito fugata dal ritmo incessante, pulsante, che agita tutti i recessi dell’opera. Superficialmente può sembrare qualcosa di molto simile a quanto già aveva fatto Mehta nella fondamentale edizione della Decca; in realtà, il grande direttore indiano aveva puntato molto sui contrasti, sulla lucidità del suono, sullo sfavillante nitore dei diversi piani che venivano ad essere sbalzati e contrastati. Qui invece ci troviamo nel regno dell’ambiguità, del non detto, dei sottintesi. Gli strumenti esotici – ampiamente presenti nella distribuzione orchestrale – sono tutti splendidamente in evidenza, quasi a depistare l’ascoltatore che viene così avvolto in una specie di atmosfera stordente di cui riesce a cogliere ogni singolo particolare, ma che lo obnubila. Questa sorta di ossimoro musicale è qualcosa che anticipa determinate evoluzioni del linguaggio musicale successivo, con particolare riferimento alla dodecafonia: da questo punto di vista è sicuramente la più moderna fra tutte le direzioni di quest’opera, anche superiore per impatto emotivo a quella giustamente celebratissima di Mehta.
E, come nel caso di Mehta, ciò che colpisce è la particolare simbiosi del direttore con la prestazione della primadonna, qui decisamente non attendibile come straordinaria e che alla sua apparizione in Italia fu salutata da una salva di critiche pesanti come macigni.
Non sono frottole: basta andarsele a riprendere, alcune di queste sono tuttora ben presenti negli scaffali di ogni appassionato. Ora non staremo a ripetere che il nostro scopo è quello di superare la logica della nota tornita, ben emessa, che scocchi precisa come una freccia, ma il modo di riaprire questa partita non può prescindere dal superamento di questa logica della buona, cara, vecchia ed affidabile scuola di canto. Se è vero che Turandot – estrema tappa del percorso creativo di Puccini e diretta prosecuzione del discorso aperto con Fanciulla e proseguito con il Trittico – è un ponte con le esperienze successive, soprattutto quelle mitteleuropee e particolarmente quelle della costruzione dodecafonica, questa esecuzione è quella che permette più di qualunque altra la comprensione delle sinapsi che portano l’urlo disperato di Turandot a risuonare nell’angoscia della protagonista di Erwartung di Schoenberg.
Quindi, nessuna concessione alla forza brada delle interpreti classica di area tedesca, fra le quali forse solo le straussiane di stretta osservanza (come la Borkh) avrebbero potuto incarnare le inquietudini di questa Principessa; o, in alternativa, le espressioniste che partono dalla Mödl e arrivano alla Stratas, pur con la consapevolezza che avrebbero dovuto compensare con l’accento ciò che sarebbe loro mancato in termini di pura efficacia vocale.
Ed è partendo da questi presupposti che si deve valutare la straordinaria (perché di ciò si tratta) prova di Katia Ricciarelli. Ciò che stupisce non è tanto il fatto che abbia accettato di cimentarsi con questo ruolo così apparentemente lontano dalla sua sensibilità e dalle sue potenzialità; no, ciò che veramente colpisce l’ascoltatore è la perfetta realizzazione di quanto evidentemente deve essere stato suggerito da Karajan, qui più che altrove geniale costruttore di grandi progetti musicali: il superamento della “logica della nota” in favore dell’espressione tesa, lancinante, che però riesce a piegarsi in quelle allucinate e psicotiche dolcezze strutturate in pianissimi filigranati che disorientano l’ascoltatore, costringendolo a dubitare delle sue sicurezze.
In altre parole: la Sutherland di Mehta si rifugiava nella luna di un canto serratissimo che apparentava la Principessa a Elvira o Norma, quasi come se fosse l’ultima tappa dei grandi ruoli Pasta; ed era un’intuizione geniale, realizzata da una delle più grandi specialiste di ogni tempo di questi ruoli. La Ricciarelli, vocalmente alla fine di un’organizzazione come sempre piuttosto eterodossa, alterna acuti stridenti come grida di aquila ferita a estenuanti pianissimi, flottanti come quelli della Caballè dei bei tempi ma rispetto a quelli assai più carnali, apparentando Turandot ai ruoli Ronzi de Begnis, con tutta la loro psicotica complicazione emotiva, e chiudendo così definitivamente la partita.
Ascoltate questa Ricciarelli che giunge sostanzialmente alla fine del proprio periodo d’oro, e avrete un ponte ideale teso fra due Marie: la Stuarda di Donizetti, che medita di scannare il marito mentre egli le sorride dolcemente e quella di Wozzeck, che aumenta il proprio male di vivere gettandosi fra le braccia laide del Tamburmaggiore.
Il che – conveniamone – è intuizione che mette i brividi.
Se poi sia stata un’idea sua per superare le enormi difficoltà di una parte destinata a sovrastarla, o un’idea di Karajan (come pensiamo più probabile, senza nulla togliere alla protagonista), oppure un frutto casuale di una collaborazione cresciuta di necessità all’ombra dell’allora onnipotente etichetta gialla, poco conta: il risultato è entusiasmante, e giustifica già da solo una conoscenza approfondita di questo caposaldo dell’interpretazione del teatro d’opera, che per di più ben s’inquadra in quel particolare periodo creativo del grande Salisburghese. Periodo per nulla minore come a lungo si è pensato, ma che anzi ha permesso di fissare definitivamente i limiti estremi di quello che rimarrà – comunque lo si rigiri – un percorso artistico eccezionale. E ciò valga anche per altre interpretazioni discutibili e discusse: il secondo Rosenkavalier, la seconda Carmen (la “vera” Carmen di Karajan!...), il secondo Otello (anche in questo caso, quello definitivo, contrariamente a quello che si pensa comunemente), il Don Giovanni ed altre ancora.
Abbiamo sino ad ora parlato di un dualismo, ma in realtà si tratta di due dei vertici di un triangolo chiuso dal coro, mai come in questa edizione così genialmente guidato. Roberto Benaglio, forse il più famoso direttore di tutti i tempi, guida i complessi dell’Opera di Vienna dimostrando una totale coesione emotiva non meno che intellettuale con il Direttore.
Cos’è quell’invocazione alla Luna del primo atto!
Chi mai ha sentito questo celeberrimo coro intrecciarsi altrettanto straordinariamente con le arcane dissonanze di tutti gli strumenti esotici previsti dalla partitura, e meticolosamente evidenziati dalla concertazione di Karajan?
Oppure la marea montante della folla invasata che sobilla il boia al ritmo forsennato di “Gira la cote, gira, gira”, giustificando così alle nostre coscienze il concetto di follia collettiva con cui generazioni di psicologi si sono trastullati per giustificare i grandi orrori dell’umanità?
O ancora il Notturno con cui inizia il terzo atto, peraltro accompagnato da Karajan da un’atmosfera di sospensione allucinata, in cui sembra veramente che il tempo si sia fermato?

A fronte di cotanti capolavori esecutivi, ci stanno alcune prestazioni francamente imbarazzanti.
Il Domingo di quei tempi era una palla al piede. Indiscutibile, come sempre, la straordinaria comunicativa, ma la voce era proprio malferma e supportata più che in altre occasioni dalla consolle del tecnico: prova ne sia il do di “Ti voglio ardente d’amor”, posticcio, chiaramente appiccicato e comunque tirato malissimo. Avrebbe potuto ometterlo e nessuno avrebbe avuto nulla da ridire: è una scelta che è sempre stata praticata anche da altri grandi cantanti, compreso Merli nella celebre incisione Cetra.
D’altra parte, pur scassato, era comunque una tassa da pagare per ogni produzione discografica di un certo livello, ed in particolare di quelle dell’etichetta gialla che lo teneva sotto contratto esclusivo. Le dinamiche vocali aride, sbiancate, francamente evanescenti non lasciavano certo presagire l’evoluzione che, nel quarto di secolo successivo (e tuttora in corso) avrebbero consentito al tenore ispanico di reinventarsi una terza giovinezza diventando il tenore wagneriano di riferimento.
Ma ancora peggio purtroppo la Liù della Hendricks, pesce totalmente fuor d’acqua nei ruoli pucciniani (come dimostrerà anche la Mimì incisa pressappoco nello stesso periodo) causa anche la fantasiosa impostazione vocale che, mancando totalmente dell’appoggio sul fiato, la porta ad emettere suoni queruli, sgradevolissimi e terribilmente fuori fase. La Hendricks ha avuto una breve stagione di popolarità: peccato che nel bel mezzo ci sia stata questa performance di così basso profilo che ha gettato una pesante ipoteca sulla globale riuscita di un autentico capolavoro.
Molto meglio Raimondi, all’epoca ancora discretamente integro ma già non più propriamente basso, quanto piuttosto bass-baritono: ne esce un Timur insolitamente giovanile e trepido, affannosamente attaccato alla sua piccola schiava.
Ritorniamo invece –fortunatamente – dalle parti del capolavoro con il terzetto delle maschere che annovera: Gottfried Hornick, un baritono chiaro di una certa notorietà in area tedesca, che lavorò molto con Karajan; Zednik, titolare assoluto del ruolo di Mime a Beyreuth per tutti gli Anni Ottanta e Novanta; e Francisco Araiza, che meriterebbe tutto un discorso a parte per il modo in cui ha dilapidato una delle più interessanti voci di quegli anni ma che, all’epoca, era ancora perfettamente integro. Insieme danno luogo ad un inizio del primo atto magicamente sospeso in un’atmosfera sognante e misteriosa, dolcemente evocativa e, nello stesso tempo, immersa in una lontana eco di felicità

 

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