Alcina
Aggiunto il 29 Marzo, 2008
In quell’estate parigina del 1999, Robert Carsen mise in scena al Palais Garnier un allestimento di Alcina di Georg Friedrich Handel, opera bellissima, trionfo autentico del barocco in musica per contenuti e forme espressive. Alla guida di una compagine specialista del repertorio, Les Arts Florissants, il loro fondatore, William Christie, il cui suono languido e assai poco aspro era molto indicato per l’atmosfera fiabesca dell’opera, laddove sarebbe risultato un poco tenue in opere più guerresche come Rinaldo o Orlando. Il cast era sulla carta molto interessante, anche se poneva alcuni dubbi: affidare la parte di Alcina, ruolo di agilità ma anche assai esigente da un punto di vista espressivo, alla Fleming poteva apparire azzardato, anche per il prevedibile scarto stilistico fra questa cantante ed il resto del cast, può versato nel canto di coloratura e anche barocco.
Si trattò di recite destinate a restare nella storia del melodramma, per la ventata prepotente di novità e la sconvolgente, spiazzante interpretazione della protagonista e della sua cameriera Morgana. Chi assistette di persona alle recite al Garnier assicura quasi all’unanimità che si trattò di uno spettacolo tra i migliori degli ultimi venti anni, e del resto basta constatare quanto il video pirata dell’allestimento sia presente sulle reti P2P.
Come diceva Napoleone, “du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas” ed in queste recite Renée Fleming ci fa capire quanto avesse ragione. La cantante americana è conscia delle sue difficoltà vocali alle prese con questo repertorio. Le agilità non hanno un mordente ed una precisione paragonabili alle interpreti storiche del canto di coloratura, ma nemmeno alle cosiddette specialiste del barocco, fisse e stridule fin che si vuole, ma generalmente molto corrette nella coloratura rapida. Il canto di sbalzo si presenta difficoltoso e in certi punti non perfettamente dominato, causa non ultima un tipo di voce tendenzialmente troppo pesante per le sinuose melodie handeliane ed avvezza ad un repertorio assai diverso. Pure, ella decide di intraprendere una via interpretativa alternativa, splendidamente in linea con la regia di Carsen e mirabilmente assecondata da Christie.
Il regista la pone in scena vestita da diva, in abito da sera con veli di tulle e acconciature hollywoodiane, e la cantante decide scientemente di accentuare questo aspetto fino ai limiti della caricatura. In possesso di una voce di strepitosa cremosità, dotata di particolarissimi armonici e striata di sensualità, la Fleming spalma sulla linea vocale tonnellate di miele ed esaspera il cremoso turgore del registro centrale, compiacendosi di dispiegare tutto il proprio fascino timbrico, senza pensare alle conseguenti occasionali durezze sugli acuti. Assume un tono melenso e come trasognato, vagamente sonnecchiante, all’uopo indulgendo a variazioni ai limiti dell’improvvisazione, di gusto piuttosto alieno al canto barocco ma non estraneo al jazz, componente fondamentale della sua educazione musicale e culturale. Ricorre con frequenza a tutta una serie di soluzioni vocali e stilistiche che rendono il suo canto un vero e proprio ‘meltin’ pot’: attacchi a scivolo, portamenti marcatissimi, suoni sospirati, stimbrature estenuate, effetti ai limiti del crooning, suoni growl nel registro grave. Tutto ciò è finalizzato a dipingere un’Alcina in versione diva di Hollywood, una maga non algida o astratta, ma al contrario molto umana, nel quale il lato sovrumano è come reinterpretato in chiave allegorica: creatura soprannaturale, Alcina, ma non in quanto donna dotata di poteri magici, ma in quanto diva, anzi divastra, che si sente una semidea piuttosto che esserlo davvero. Vera sofisticata padrona di casa di un salotto vip fatuo ed indolente, la Fleming gioca davvero a fare la caricatura di sé stessa, ed esaspera i propri pregi e difetti in maniera assolutamente geniale. Una maga che si scopre però in più punti donna, e che alterna un’apparenza patinata e divistica ad una vita privata e sentimentale viceversa sofferta e tormentata. In questo senso, mirabili appaiono i momenti solistici, a partire dalla bellissima prima aria “Di’, cor mio”, che diviene davvero una dichiarazione d’amore da set cinematografico, a tal punto sdolcinata da sembrare quasi finta, recitata, da vera diva che non riesce a togliersi di dosso una certa affettazione dei modi. Quando Alcina rimprovera Ruggiero, “Sì, son quella”, ecco che comincia a farsi strada il sentimento autentico, la star che si spoglia dei suoi orpelli e lascia uscire la donna. Chiave di volta dell’intera interpretazione, la lunga, difficile e commovente aria “Ah, mio cor”: quando la disperazione di quest’Alcina erompe prepotentemente fuori dalla facciata splendente, indolente e trasognata della maga, si viene a creare un contrasto da capogiro, ed il momento è da brividi come difficilmente si può sentire in un’interpretazione operistica. Il canto è adesso cupo, terreo, mortificato, scavato nella disillusione più nera, profonda ed inconsolabile, come potrei immaginare fosse l’umore di Marilyn Monroe quando (se è vero…) quel 5 agosto del 1962 pose fine alla sua breve e leggendaria vita: la diva che si scopre infelice, che capisce che il successo, la bellezza, l’ammirazione, non possono rintuzzare ed annichilire un’insoddisfazione di fondo. Un momento di teatro immenso, da mozzare letteralmente il fiato, nel quale è persino inutile cercare le mille sfumature, nuances e sottigliezze con cui la Fleming tratta la linea vocale: basta ascoltare la squassante forza emotiva con cui ripete “sola” variando colore, intensità, accento. Veramente eccezionale.
Va senza dubbio detto che questa caratterizzazione viene prontamente ed intelligentemente sostenuta da Christie, che accompagna questa Alcina sui generis con suoni turgidi, davvero poco ‘baroccari’, ma al contrario ricchi, vibranti e degni di un’orchestra moderna. Insomma, a fronte di diverse, anche notevoli, imperfezioni vocali (evidenti in brani come “Ombre pallide”, dagli impegnativi sbalzi di registro, e la virtuosistica “Ma quando tornerai”, le cui agilità vengono risolte con un’emissione cauta e poco timbrata), che possono legittimamente disturbare chi nel canto ricerchi prima di tutto il rigore tecnico, si avverte un senso di fortissima, decisa e squassante rottura con la tradizione, ed il personaggio che ne viene fuori è semplicemente sconvolgente! Un’Alcina impensabile ed impossibile a chiunque altra. Più carnosa ed umana dell’astratta perfezione della Sutherland, molto più sensuale e vocalmente affascinante delle secche e stridule vocette aguzze attuali specialiste del barocco, l’Alcina di Renée Fleming rappresenta un unicum assoluto: una personificazione davvero geniale, possibile solo a chi possiede un talento genuino ed un istinto artistico d’eccezione. E soprattutto, una personificazione realizzata TUTTA con la musica e dentro la musica: la caratterizzazione si coglie anche senza l’ausilio delle immagini, e se è pur vero che lo stile esecutivo è caratterizzato da contaminazioni non genuinamente barocche e nemmeno di stile prettamente ‘italiano’, non si può dire che i suoni cui la Fleming affida la sua Alcina non siano artistici, musicali e meditati.
Semplicemente, la musica di Handel diviene un mezzo tramite il quale si perviene alla caratterizzazione del personaggio, e perde (aggiungerei un “finalmente”!) il ruolo di centralità e unica ragion d’essere della rappresentazione. Forse per questo quest’Alcina piace poco ai puristi, che non accettano questo ribaltamento dei valori: «Georg Friedrich Handel al servizio di Renée Fleming?! Ma siamo matti?!»
Al suo fianco, una strepitosa Natalie Dessay. Non ci sono parole per descrivere la facilità del suo canto, la souplesse disarmante con cui dipana colorature, trilli, volate, variazioni (“Tornami a vagheggiar” è un gioiello assoluto, che non sfigura di fronte alla resa della Sutherland), la naturalezza con cui esegue messe di voce perfettamente sul fiato e vibranti, l’eleganza con cui dipana i recitativi. Lo stile, inoltre, è l’esatto opposto di quello della protagonista: quanto la Fleming è sincretica e direi quasi ‘eretica’, tanto la Dessay è perfettamente in regola. La levità, la naïveté, il pepe di questa Morgana costituiscono un contraltare fortissimo con l’umore della protagonista, così sofisticata, sorniona e melensa, e si viene a creare un iato assai marcato e drammaticamente perfetto fra le due parti sopranili. Il canto della Dessay promana una joie de vivre prettamente francese, impossibile a realizzarsi per qualunque altro cantante europeo. Ne sortisce una cameriera spiritata, idrargirica, parente di certi servi della commedia plautina, che rubano in certi momenti la scena ai loro padroni, arruffianandosi il consenso della platea con trovate argute e spiritose. Si tratta di una Morgana storica, che risulta meno sconvolgente della protagonista solo perché il linguaggio musicale con il quale si esprime è più in regola con lo stile e dunque meno nuovo.
Ad offuscare parzialmente questa festa di grande teatro, ecco Susan Graham. Mi correggo subito: la Graham non canta male, anzi, benché possegga una voce di timbro piuttosto comune, emette con discreta perizia le note, domina con sicurezza le insidie della parte ed arriva ad uno “Sta nell’ircana pietrosa tana” cantato piuttosto bene, con agilità sgranate e ben timbrate. Si notano vuoti di timbro nel settore grave della gamma, e qualche acuto non perfettamente centrato, ma la linea è fluida e scorre senza problemi, come dimostra tra l’altro il bel legato di “Verdi prati”. Il problema è che non si capisce bene che personaggio sia o voglia essere il suo Ruggiero. La Graham è specialista di ruoli en travesti: proprio per questo, spiace dover notare come questo Ruggiero sia di personalità piccina. O la Graham non sente molto il personaggio, e si limita alle note, oppure è a corto di fantasia, o ancora si sente soffocata dalle straripanti personalità della Fleming e della Dessay per osare qualcosa di nuovo. Va infatti concessa un’attenuante alla pur talentuosa Susan: probabilmente, la mancanza di una caratterizzazione originale del suo Ruggiero si avverte proprio per l’impietoso contrasto con i due soprani. In un contesto più “normale”, la Graham sarebbe un Ruggiero di tutto rispetto. Con un pizzico di personalità (o di follia – che forse è la stessa cosa…) in più, la Graham avrebbe potuto renderci un Ruggiero degno di figurare in questa produzione.
Al loro fianco, Kathleen Kuhlmann è un Bradamante di livello appena sufficiente, che deve fare i conti con un timbro piuttosto gutturale ed un’emissione non fluidissima, particolarmente evidente nelle agilità. Discreta la personalità, ma lungi dal proporre qualcosa di nuovo ed eccitante. Passabili appaiono Timothy Robinson (timbro tenorile un poco sbiancato, ma buona musicalità) e Laurent Naouri (grande artista della parola quando si esprime nella sua lingua, molto più interlocutorio in italiano); mediocre Juanita Lascarro, che canta la sua arietta con timbro asprigno ed emissione difficoltosa nelle agilità.
Postilla finale: mi pare che fra le recenti incisioni barocche, questa Alcina sia quella con il cast migliore in assoluto. Sarà un caso, ma vi spiccano diverse non specialiste del barocco: la Fleming nasce mozartiana e all’epoca aveva già affrontato parti straussiane e contemporanee, la Dessay è una belcantista di razza, con all’attivo diverse interpretazioni del repertorio francese ottocentesco, la Graham ha cantato diverse parti mozartiane, ruoli dell’Ottocento francese e addirittura del Novecento americano. Inoltre, non ci sono controtenori. Sarebbe il caso di meditare su questo fatto: taluni artisti non specialisti cantano un’opera barocca con una personalità, un’originalità, una sensibilità che i cosiddetti baroccari non riescono nemmeno a guardare da lontano…
Quanto a William Christie, posso solo dire che il suono de Les Arts Florissants si conferma una volta di più magnifico, caldo, pastoso: ascoltandolo, molti dovrebbero rivedere certe posizioni davvero estremiste sulla qualità dei complessi barocchi. L’abilità direttoriale di Christie è comunque sopravanzata di gran lunga da quella di concertatore: davvero si colgono differenze sostanziali del peso sonoro, direi quasi della ‘tinta’ strumentale, a seconda del cantante presente sul palcoscenico. Suono, come si è detto, turgido e romantico per l’avvolgente cremosità timbrica della Fleming, viceversa leggero, trasparente ed iridescente per il meraviglioso cristallo della Dessay. E per la Graham? Anche Christie si accorge che il suo Ruggiero è un po’ anonimo, nondimeno cerca di vivacizzarlo, di rendergli linfa vitale: l’accompagnamento a “Sta nell’ircana” è elettrico e vivace, quello a “Verdi prati” caldo e sensuale… ma c’è poco da fare! Lo sforzo del direttore è solo parzialmente raccolto dal mezzosoprano.
Al clavicembalo, Emmanuelle Haïm fornisce una prova affidabile e sensibile, e si conferma più a suo agio in questa veste che come direttrice d’orchestra, ruolo che, almeno per ora, le va parecchio largo.
Un rimpianto: la miopia delle case discografiche ha impedito che questo spettacolo storico fosse immortalato in DVD. Ma forse è già da considerare un miracolo che Decca, Virgin e Sony si siano accordate con l’Erato per permettere la registrazione delle rispettive cantanti di scuderia.
Alberto Zama