FRANCOFORTE 2010Premessa.
Non siamo andata apposta a Francoforte per vedere questo Don Carlo. Ci siamo andati per il Billy Budd.
Però, già che c’eravamo, perché non fermarsi un giorno in più per ascoltare il Filippo II di Youn e vedere la regia di Mc Vicar (sulla carta i due unici elementi di interesse della produzione)?
Meglio che lo specifichi prima che saltino su i soliti coglioni che - quando andammo in una sola trasferta a vedere la Donna senz'Ombra di Amsterdam con la Herlitzius, la Turandot di Carsen ad Anversa, la Cavalleria e Pagliacci GRANDIOSI di Jones all'ENO e la Fanciulla del West al Covent Garden con la Westbroek, Pappano e Cura - dissero che avevamo fatto tutto questo per vedere Carroli in Jack Rance!
E che tanto valeva restarsene a Rovigo per la Turandot con la loro adorata e inarrivabile Casolla...
Bene: chiarisco subito e ribadisco.
Non siamo andati a Francoforte per sentire ...Carlo Ventre nel Don Carlo.
Siamo andati per il Billy Budd STORICO di Jones, con Peter Mattei, e (già che eravamo lì) per la curiosità di sentire Youn in uno spettacolo del celeberrimo McVicar.
Chiarito questo, possiamo parlare di questo brutto Don Carlo di Francoforte.
Su Youn ho detto: lui e solo lui valeva la serata.
Su Mc Vicar… è il caso di porsi qualche domanda.
Anzi, una sola.
Come è possibile un simile disastro di regia da parte di un grande come lui, in un'opera poi tanto stimolante?
nell'intero spettacolo c’era assolutamente nulla di interessante: un impianto scenografico non brutto ma prevedibilissimo (e alla lunga stancante). Ossia le fredde mura grigio-marmoree di un grande mausoleo, con al centro un altare e si suppone la tomba di Carlo V (che ogni tanto sprofondava, ogni tanto ricompariva), con fondali e quinte che si aprono, si chiudono, si sollevano per adattarsi alle varie scene.
Al centro una serie di personaggi in costumi rigorosamente d'epoca che fanno (spesso malamente) le stesse identiche cose che si fanno in tutti i Don Carlos del mondo.
Avete presente Ronconi? Ecco... sembra proprio uno spettacolo di Ronconi.
Ma McVicar non è Ronconi, vivaddio!
Cosa può essere successo?
Da un lato, temo che questo non sia il tipo d'Opera che stuzzichi la fantasia di McVicar; si tratta di un regista geniale, ok, ma anche alterno.
Non ha la stoffa di un Jones o di un Carsen o di un Guth o di un Pountney, che - con la forza della loro immaginazione - riescono sempre a strappare all'opera (qualsiasi opera) verità inedite e soluzioni travolgenti.
McVicar è di quelli che alle volte... si arrendono.
E se l'opera lo convince poco fin dall'inizio (vedasi la recente produzione londinese delle Nozze di Figaro, disponibile anche in DVD, partita con un'ouverture spiazzante e poi tradizionalissma) alla fine... lascia fare!
Si concentra sugli attori e illustra il libretto, forse con la testa già ad altri spettacoli che lo eccitano di più.
Temo che con questo Don Carlos le cose siano andate più o meno così.
Non ha trovato stimoli sufficienti (per lui) e quindi ha elaborato una teoria (teoriina piccola piccola) sul fatto che tutta l'opera si svolge già al quinto atto, con Don Carlo chiuso nel chiostro di San Giusto, che attende Elisabetta per l'ultimo addio e frattanto rievoca la sua vicenda.
Alla fine morirà davvero, trapassato dalle spade dei soldati di Filippo.
E la voce di Carlo V? Era sempre solo stata nella sua testa: l'avello che domina la scena si rivelerà il suo, di Don Carlo.
E' una grande idea? No, un po' banale... e soprattutto insufficiente per tenere in piedi cinque atti di grand-opéra
La noia era palpabile e l’ovvio, scontato, becero “j’accuse” anti-cattolico, placidamente liberal dell’autodafé (con eretici torturati e legati, preceduti dalle reliquie dei “loro” santi e seguiti da cumuli di libri da mettere all’indice, e grandi croci che prendono fuoco) non ha salvato niente.
Di solito, però, (come ho detto) quando McVicar getta la spugna come drammaturgo (ed era questo il caso), tende a rifarsi col lavoro sugli attori.
Come nelle succitate nozze di figaro, il tradizionalismo un po' snervante dell'impianto si riscattava col miracoloso meccanismo di espressioni, sguardi, giochi scenici che strappava ai protagonisti.
Per questo motivo, sarei propenso a credere che - quando due anni fa Mc Vicar allestì per la prima volta questo Don Carlos con un cast RADICALMENTE DIVERSO -avesse supplito alla debolezza della lettura generale con un lavoro accanito e trascinante sugli attori.
Se anche così è stato, nulla è soppravvissuto al nuovo cast, globalmente molto modesto, impegnato a fare ciò che avrebbe fatto in qualsiasi altro Don Carlo di periferia.
Carlo Franci se non altro non ha diretto per niente male: senso dei colori, dell’emozione e della pulsazione narrativa non gli mancano; inoltre sa sfruttare le caratteristiche di un’orchestra tedesca (grande qualità di suono, ottime sezioni, ma tendenza al magma e alla magniloquenza) per ottenere impasti suggestivi e grandi momenti teatrali.
Non è avanguardia, ok… ma è stato comunque, insieme a Youn, la cosa migliore della serata.
Come ho detto, il cast era larghissimamente dominato da Youn; a parte lui qualche buona parola se la merita Tassis Christoyannis (Rodrigo) dalla voce tradizionalmente bella e dall’acuto facile; anche la recitazione, se non proprio ideale, appariva coinvolta e capace di sorprendenti guizzi.
Certo che oggi siamo stanchi di questi Posa "verdiani" (come si dice nei loggionastri); disponiamo di interpreti finalmente veri e rivelatori (i coloristi eredi di Hampson, primo fra tutti Keenlyside, il più entusiasmante del presente) al cui confronto Christoyannis sembra una giovane Nucci ripulito: nessuna seduzione (e dire che Posa dovrebbe sedurre tutti), nessuna poesia, nessuna ambiguità da sognatore travolgente, irradiante gioventù, affetto, romanticismo, idealista fino alla morte ma anche sorprendentemente capace di calcolo, di usare fin troppo bene il proprio fascino.
La Raspagliosi, da simpatica ragazza quale la ricordavo negli Ugonotti di Martina Franca, è divenuta un’imitatrice della Dessì; stesse facciotte da diva un po’ regale un po’ sessuosa, stesso fraseggio un po’ languido e un po’ melodrammatico, stesse pose ricercate, non inefficaci ma ridicolmente maestose.
In compenso è povera di suono nei centri e nei gravi. Non è stata pessima, intendiamoci… ma a parte che il ruolo le conviene fino a un certo punto, deve aver sofferto più degli altri della mancanza di un vero lavoro di regia.
Chi se la cava, nonostante le pose stereotipate e l’aspetto da “Eboli-punk” che oggi è fin troppo sfruttato, è la brava Tanja Ariane Baumgartner, dalla voce piccolina al centro, disomogenea, non bellissima, ma con acutastri efficacissimi, lanciati con insolenza, ottimi fraseggi, splendido dominio della scena.
L’applauso fragoroso che ha seguito il suo “don fatale” è forse stato un po’ esagerato, ma in fondo comprensibile.
Hakan Tirasoglu è invece il tipo di Inquisitore che non voglio più sentire: monumento di voce e di potenza brada (e di aspetto, sarà stato alto due metri) non ha nulla del prete, nulla del politico, nulla del “confessore”, nulla del grande uomo di potere. E’ solo un orso che bercia.
Il duetto con Filippo II ne risulta persino noioso, perché non c’è progressione, non c’è sviluppo psicologico: i toni del sacerdote che dovrebbero alternarsi (da “paterni” quando assicura il perdono al Re che sacrifica suo figlio; a “supplici” quando implora il Re di “rientrare nei suoi doveri” a TERRIFICANTI quando si rivela e lo minaccia di trascinarlo davanti all’inquisitore) suonano tutti uguali. Questo Orso bianco urla quando entra e urla quando esce.
E poi c’è Carlo Ventre. E qui siamo al disastro...
Se c’è una cosa che i dirigenti artistici tedeschi non si mettono in testa è che per cantare i ruoli verdiani non bastano acuti perentori.
Per questo ruolo, Carlo Ventre è fisicamente improponibile (anche se con la camicia bianca aperta e i capelli tinti, neri e cotonati faceva molto tenore verdiano), vocalmente improponibile (afonissimo al centro, maldestro nel cantabile, incerto nella linea, poverissimo di intuizioni), come attore improponibile… Insomma una zeppa tragica, e non solo per me, dato che alla fine ha raccolto contestazioni da parte del pubblico.
Speriamo che gli serva a capire che se sei un declamatore all’italiana, povero nella linea e nella dinamica, infelice nella presenza ed esclusivamente proiettato agli acuti sparati, non è Don Carlo che devi cantare. Ha quattro secoli di storia dell'opera per cercare personaggi più confacenti.
Salutoni,
Mat