Sabato sera appollaiato in un posto di terzo ordine del Nationaltheater di Monaco ho assistito all'ultima data della nuova (diciamo così anche se ha debuttato a febbraio) produzione di Lucia di Lammermoor di questa stagione. Il motivo principale di questa trasferta era la coppia di amanti formata da Diana Damrau e Pavol Breslik; mentre la prima è ormai rodata nel ruolo del titolo, il secondo ha debuttato Edgardo in questa produzione a febbraio. Le aspettative sono state ampiamente ripagate: entrambi si rivelano interpreti sfavillanti.
La Damrau aveva debuttato il ruolo nel 2008 a New York, lasciandolo nel cassetto per qualche anno. Da qualche anno l'ha tirato nuovamente fuori, meditandoci sopra e arrivando a una comprensione totale di esso. Alcuni, soprattutto tra i melomani italiani, sostengono che la Damrau non è adatta al belcanto, ma questa Lucia è stata proprio la dimostrazione del contrario. La voce è più bella che mai, i sovracuti sono sfolgoranti e la coloratura, anche se meno spericolata di un tempo, rimane uno dei punti di forza della cantante bavarese anche perché usata in modo estremamente espressivo dalla prima all'ultima nota; niente viene buttato via, neanche i recitativi più blandi. La scena della pazzia è ovviamente il culmine di tutte le potenzialità della Damrau: ogni nota è perfettamente calibrata con i gesti e la voce, perfettamente supportata dalla glassarmonica, si piega a mille sfumature, nonostante alcuni movimenti spericolati richiesti dalla regia. Quest'ultima era ovviamente cucita su di lei e ne faceva una sorta di Jacqueline Kennedy bionda, sempre più nevrotica e pazza mano a mano che si procede nell'opera fino al vaneggiamento finale e definitivo. Lo "spargi d'amaro pianto" è pura nevrosi con quel foglio strappato ad ogni inflessione malinconica della musica mentre la Damrau sciorina acuti e trilli perfettamente calibrati con una facilità quasi incredibile. Un'interpretazione maiuscola che fa guadagnare alla bionda un posto tra le grandi interpreti di questo ruolo.
L'Edgardo di Breslik non è da meno. Il cantante slovacco ha dalla sua un bel timbro chiaro e una chiara comprensione dei personaggi che si trova davanti. Le salite agli acuti possono sembrare monotone Il suo Edgardo riesce ad avere tutte le sfaccettature del caso. Conosce tutti i suoi limiti, motivo per cui riesce a dosare la voce, senza strafare e senza scadere nello stereotipo del tenorastro da leggione che si strappa i peli del petto per gettarli alle prime file. Spicca nei numeri solistici (esemplare il suo "Tu che a Dio spiegasti l'ali" che davvero anela al cielo con quella splendida messa in voce, ancor più stupefacente vista la posizione in cui la cantava), ma valorizza da bravo interprete anche i momenti meno cantabili come l'invocazione "Son tue cifre" alla fine del secondo atto.
Nella scena-duetto del primo atto i due protagonisti dimostrano un affiatamento incredibile e regalano un "Verranno a te sull'aure" da manuale, anche solo per quell'inizio in piano in acuto della Damrau.
Accanto a tale coppia, spiccava il Raimondo di Tsymbalyuk, che si è fatto ben valere nei suoi interventi e soprattutto nel duetto con Lucia del secondo atto.
Poco da dire su Dalibor Jenis. Accanto a un parterre di tali protagonisti, il suo Enrico appariva poco carismatico e niente più che corretto.
Bravi Emanuele D'Aguanno come Arturo e Rachael Wilson come Alisa, un po' meno il Normanno di Dean Power.
Dirigeva sulle orme di Petrenko la giovane Oksana Lyniv, che è infatti assistente del Generalmusikdirektor. Anche se non si è molto staccata da quello che fatto Petrenko al debutto della produzione, la direttrice ucraina è risultata comunque convincente, rapportandosi bene con le voci degli interpreti e dando teatralità alla scena. Ha delle buone possibilità.
La regia era di Barbara Wysocka, praticamente al suo debutto operistico. La regista polacca vede in Lucia una donna forte che lotta per la sua indipendenza, non una che si fa manipolare facilmente; dunque se diventa una vittima sacrificale immolata agli interessi di un ambiente maschilista, lo fa solo perché è un suo volere e per non fare un dispiacere al fratello, scelta che la porterà poi a far uscire la sua nevrosi nascosta fino alla fine tragica. Per fare ciò, la Wysocka ambienta il dramma nell'America borghese degli anni 50-60 perché, secondo lei, è l'ultimo momento della società occidentale in cui una donna può e deve sottostare al mondo prettamente maschilista che la circonda per non destare scandali o altro. Gli Ashton diventano dunque personaggi alto-borghesi, mentre Edgardo è un novello James Dean che scardina involontariamente i cardini di una tale società (cosa che tra l'altro il vero James Dean ha fatto attorialmente con il cinema classico della prima Hollywood basato sul codice Hays). La visione può apparire traditrice nei confronti della drammaturgia originale, e ciò lo dice anche la regista stessa in un'intervista, ma alla fine la regia funziona sia ideologicamente che teatralmente, pur con qualche pecca. Infatti ogni tanto gli interpreti fanno quello che si è visto in tutte le Lucie di Lammermoor dai tempi della Sutherland o cadono in una recitazione un po' stereotipata, mentre il coro sta spesso nella posizione a semicerchio tipica del "non so come gestirlo", e qualche volta alcuni interventi sono involontariamente comici. Tuttavia la regia si riscatta in alcuni momenti, soprattutto nella scena della pazzia in cui Lucia con la pistola in mano tiene sotto scacco tutti minacciandoli e alternando lucidità a follia, fino ad astraersi quasi totalmente durante "Ardon gli incensi" cantata davanti a un microfono vecchio stile come se fosse una ballad da una colonna sonora di certo film classico.
Recita galvanizzante a cui è seguito un trionfo di ben 20 minuti con punte di entusiasmo generale per la coppia protagonista, chiamati al proscenio numerose volte in cui hanno scherzato sempre di più col pubblico rimasto ad applaudirli calorosamente.