Il canto: tecnica o tecniche?

problemi estetici, storici, tecnici sull'opera

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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda Maugham » lun 29 nov 2010, 21:09

Cantare bene ha scritto:Trovo questo vostro "evoluzionismo" del tutto inconciliabile con il rispetto della musica così com'e stata scritta e così come per tradizione è sempre stata eseguita,


Scusa, forse gli altri ti seguono, ma io faccio molta fatica.
Una frase come la tua dovrebbe perlomeno essere suffragata da dati di fatto.
Cosa vuol dire... "così come per tradizione è sempre stata eseguita"?
A che tradizione ti riferisci? Da quando parte questa tradizione? In che repertorio? Con quali compositori? Quali autori?
Fammi capire.

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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda teo.emme » lun 29 nov 2010, 22:39

Cantare bene ha scritto: No, qui proprio il "de gustibus" non c'entra niente. Le moderne "tecniche" di canto, prima di essere contrarie al mio gusto personale, sono irrispettose della natura della voce, oltre che dei dettami che la storia ha consolidato e tramandato nel corso dei secoli, e sono pure incompatibili con le ragioni "acustiche" dell'ascolto. E' inutile perdersi in digressioni sulla "evoluzione del gusto"... per eseguire ad esempio una messa di voce come Dio comanda, la voce deve galleggiare perfettamente sul fiato, senza tensioni innaturali, il suono dev'essere "alto" e soave, ed il tutto deve avvenire con perfetta naturalezza. Solo in questo modo si può affrontare un repertorio che nasce per quel modo di cantare, e che solo attraverso quella tecnica può essere eseguito correttamente, nel rispetto di tutte le indicazioni scritte sulla partitura.

Trovo questo vostro "evoluzionismo" del tutto inconciliabile con il rispetto della musica così com'e stata scritta e così come per tradizione è sempre stata eseguita, e inconciliabile pure con la mia (e non solo mia!) idea del canto come espressione della "natura" dell'uomo, che rimane tale nel corso del tempo. Per cantare ci serviamo del nostro corpo, e la nostra tradizione vocale (italiana) dovrebbe averci insegnato qual è quella tecnica che, preservando la peculiare natura di ciascuna voce, permette, per fare un esempio, ad una Mariella Devia di cantare ancora splendidamente all'età di 62 anni, e consente ad ogni cantante di farsi sentire in ogni dove (Schipa cantava all'Arena e lo sentivano fin sulle ultime gradinate, Gigli si esibiva negli stadi e la sua voce riempiva spazi immensi, mentre oggi i cantanti faticano a farsi sentire sopra un'orchestrina).

Io più che un'evoluzione delle tecniche e dei gusti, vedo oggi una frattura tale da farmi pensare che il Canto sia ormai tramontato.


Ho sempre trovato il richiamo alla Tradizione (a qualsiasi tradizione) un espediente retorico, vuoto e semplicistico.

Innanzitutto bisogna intendersi sul significato di tradizione, che spesso è sinonimo di abitudine, di pigrizia mentale, di falsificazione e di comodità. Furtwangler scriveva, più o meno, che la tradizione era il brutto ricordo dell'ultima brutta esecuzione ascoltata (e pensare che oggi, il grande direttore tedesco, che si caratterizza proprio per un fiero distacco dalle sicurezze interpretative tardo romantiche della sua generazione, per approdare ad una visione del tutto personale e antidogmatica, passa per taluni - sprovveduti - come "tradizione").

La tradizione esecutiva, poi, soprattutto in ambito vocale, andrebbe confrontata alla correttezza di stile: ad esempio, la cosiddetta "tradizione interpretativa" dei primi '900 del melodramma italico, è in realtà una rilettura (arbitraria) di quel repertorio, attraverso le visioni di un mondo musicale del tutto differente, che risente del tardo Verdi e delle suggestioni veriste, piuttosto che dai lasciti rossiniani. E infatti, ascoltando tali residuati si assiste a scempi belli e buoni che, spesso, travisano completamente lo stile corretto che tale repertorio suggerirebbe: riscritture orchestrali, indulgenza al mero recitato, effettacci, eliminazione della coloratura, tagli forsennati (tutto per trasformare il belcanto secondo il gusto del XX secolo, eliminando quello che - secondo i fautori di tale "estetica" - risultava superfluo o mero portato di incrostazioni prettamente vocalistiche, e dunque inutili al senso e all'urgenza del dramma: parole che si trovano in uno dei capisaldi di tale visione della Tradizione, ossia i volumi di Serafin e Toni). Allora, Rossini, Donizetti e Bellini venivano trasformati in una specie di para Verdi in salsa verista: oggi sarebbe GIUSTAMENTE inaccettabile.

Senza parlare poi, dei vari esercizi di ottusità a cui ha portato l'ossequio acritico a pretese tradizioni immobili: si pensi alle critiche idiote rivolte contro l'utilizzo, ad esempio, delle cadenze scritte da Verdi (in luogo di quelle tradizionali e conosciute dalla pigrizia ottusa dei pubblici) in Rigoletto, Trovatore e Traviata...come se eseguire ciò che Verdi ha scritto fosse un delitto "antiverdiano"; oppure la smorzatura del si bemolle finale in Celeste Aida (quando Bergonzi lo fece, nella famigerata Parma,fu insultato...e alle sue rimostranze di aver semplicemente seguito quanto Verdi avesse scritto, si è sentito rispondere , da uno dei soliti custodi della Tradizione: "si vede che pure Verdi ha sbagliato"); oppure l'accusa di "verdicidio" a Muti che ha "osato" far cantare la Pira in tono e senza l'orrendo acutazzo finale... Insomma, sotto il nome Tradizione, si celano anche vere e proprie nefandezze. Sapete bene come la penso, non ho mai nascosto di essere in pacifico disaccordo con la maggior parte degli assunti sostenuti dal sito, ma non per questo devo votarmi ad assurde crociate "sanfediste".

Insomma, io credo che, in realtà, non esista alcuna Tradizione (soprattutto con la T maiuscola): ci sono tante tradizioni, buone e cattive. E soprattutto da considerare storicamente, senza assolutismi o manicheismi. Così come non esistono proprietà transitive tra maestri o allievi (illusorio credere che più si torna indietro nel tempo più ci si avvicina alla corretta esecuzione del belcanto, ad esempio)...sarebbe come dire - l'ho scritto spesso - che Kempff suonasse come Beethoven perchè il suo maestro era Karl Heinrich Barth, allievo a suo tempo di Carl Tausig, a sua volta allievo di Liszt, che studiò da Carl Czerny, il quale ebbe come maestro Beethoven in persona. Quindi è da ridimensionare pure la pretesa correttezza di cantanti storici perchè ritenuti più cronologicamente vicini...come se 100 anni fa si eseguisse Rossini in modo più "similare" a come lo si eseguiva nel 1813, solo perchè la maestra della maestra della maestra di Tizia, era allieva della Pasta (come se in 100 anni di storia della musica, non fosse cambiato nulla).

Dal mio punto di vista, ritengo la questione dello "stile" molto più seria e importante: stile che solo a partire dagli anni '50/60 è stato giustamente considerato...attraverso il recupero di una vocalità autentica per Bellini e Donizetti (ripuliti dalle incrostazioni tardo verdiane e veriste), attraverso la Rossini renaissance (che ci ha permesso di scoprire un repertorio semplicemente CANCELLATO da quella "tradizione"). Stili diversi che, secondo me, declinano la tecnica nelle diverse pieghe del repertorio. Ma so che il mio concetto di tecnica non è condiviso.
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda Cantare bene » mar 30 nov 2010, 0:07

Maugham ha scritto:
Cantare bene ha scritto: (Schipa cantava all'Arena e lo sentivano fin sulle ultime gradinate,


Da quel che so Schipa all'Arena mi sembra abbia cantato solo tre recite di Elisir con la Carosio nel 1936 e poi più nulla. E i giudizi furono piuttosto freddi.
Durante le celebrazioni schipiane a Martina Franca nel 1988 Celletti affermò che Schipa era un tenore piuttosto contestato all'epoca, accusato di essere troppo flebile e di avere una voce "piccola".
Poi, che Schipa sia un punto fermo nella storia del canto, non ci piove; non lo prenderei però ad esempio di come saper cantare in un certa maniera (ribadisco in una certa maniera) possa trasformare uno scoiattolo in un grizzly.


Il modo di "cantare" (badate bene, tra virgolette) che trasforma un cantante in un "grizzly", come tu dici, non è certo quello a cui io faccio riferimento quando parlo di "canto corretto", ma semmai è il famoso "affondo" melocchiano, di cui Del Monaco fu l'emblema più famoso, e che oggi distrugge tante laringi.
L'esempio dell'Arena mi serviva solo per sottolineare come chi sa cantare, come per esempio Schipa, riesca sempre a farsi sentire pur non avendo voce "debordante". La "tecnica" serve anche a questo, o meglio, il fatto che una voce si senta bene è mera conseguenza dell'uso sano e felice che della voce si deve fare (un uso che, ovviamente, non risponde solo ad esigenze di "udibilità", ma pure ad esigenze espressive - una voce male educata non potrà mai piegarsi al volere espressivo dell'artista - oltreché ad esigenze fisiologiche che se non osservate finiscono con il guastare qualsiasi voce in pochi anni... fanno eccezione taluni resistenti urlatori, vocalmente superdotati).

Maugham ha scritto:
Cantare bene ha scritto:Trovo questo vostro "evoluzionismo" del tutto inconciliabile con il rispetto della musica così com'e stata scritta e così come per tradizione è sempre stata eseguita,


Scusa, forse gli altri ti seguono, ma io faccio molta fatica.
Una frase come la tua dovrebbe perlomeno essere suffragata da dati di fatto.
Cosa vuol dire... "così come per tradizione è sempre stata eseguita"?
A che tradizione ti riferisci? Da quando parte questa tradizione? In che repertorio? Con quali compositori? Quali autori?
Fammi capire.


Hai ragione, ma parlavo solo in generale. Era per dire che, ascoltando ad esempio i grandi cantanti dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento (un esempio, De Lucia), ci accorgiamo di come a quel tempo il rispetto pedissequo dello spartito non fosse certo prassi comune, in quanto i cantanti spesso arricchivano i segni d'epressione del compositore aggiungendo da sé ulteriori colori, dinamiche, sfumature, smorzature, mezzevoci (pensiamo a Fleta!), per non parlare poi delle cadenze e degli acuti interpolati, delle libertà agogiche, degli eventuali abbassamenti di tono e trasposizioni di intere frasi, magari per risolvere un suono impegnativo su di una vocale più comoda di quella scritta. Tutte operazioni che io, per intenderci, trovo legittime, perché sentir cantare bene per me è sempre un piacere. Soprattutto se poi si va a fare il confronto con ciò che in genere avviene oggi: segni d'espressione sistematicamente ignorati (per carenza tecnica, non certo per scelta stilistica), tutto appiattito ad un grigio monocromatismo, fisime filologiche che si risolvono in torture per le orecchie quando ci tocca sentire le fatiche di taluni cantanti che tentano di cantare le parti più acute in tono...
Comunque, aspetto la risposta di Matteo Marazzi, che oggi mi ha risposto solo parzialmente. Allora vedrò di scendere più nei dettagli. Ho aperto io la discussione chiedendo delucidazioni sulle categorie di cui voi fate sempre uso a proposito dei cantanti (declamatori, coloristi...). Di questo m'interessava discutere.


Teo.emme, ti preciso che io parlavo solo di tradizione vocale. Il mio punto di vista è quello di un maestro di canto all'antica! :lol: E ascoltando, tanto per fare un esempio già citato, un Pol Plançon, sono convinto ci si possa fare un'idea molto concreta di come dovrebbe essere il vero basso rossiniano... anche se, nel repertorio affrontato, Plançon mai fu e mai avrebbe potuto essere "rossiniano", abbiamo comunque le registrazioni a documentarci la bontà del suo canto d'agilità. E Plançon è solo un esempio, chiararamente. Se ne potrebbero fare tanti altri, perché di quell'epoca può non piacere lo stile, il gusto, ma non si può certo dire che non si sapesse cantare.
Ultima modifica di Cantare bene il mar 30 nov 2010, 1:42, modificato 1 volta in totale.
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda Tucidide » mar 30 nov 2010, 0:52

L'argomento è molto interessante, e ringrazio Cantare bene per averlo enucleato e posto senza fronzoli.
Gli amici di OD sanno che guardo con interesse ma non sono del tutto convinto della tripartizione proposta da Matteo. Di certo, bisogna dargli atto di aver proposto lui questa distinzione. E che sia necessaria una distinzione fra i vari tipi di canto che si sentono, credo che sia evidente. Altrimenti, si può tornare alla distinzione fra cantare bene e cantare male, di cellettiana memoria. Ma così, a mio avviso, si svicola dal problema e non lo si affronta.
Posso dirti, Cantare bene, quella che è un po' la mia visione delle cose, che NON è, o almeno, non penso sia, quella di Matteo e di altri. Solo la mia. Io sono eretico ed eresiofilo, si sa. : Chessygrin :
Di Matteo condivido al 100 % l'idea che il canto si evolva, e che il disco da oltre 100 anni testimoni questa tensione al cambiamento, questa sorta di divenire eracliteo. Quindi, al contrario di quanto ho letto, non c'è alcun'idea di rinnegare il passato, anzi! Il passato è fondamentale per capire il presente, nel canto come in tutto il resto. Come nota Teo.emme, non penso che esista una tradizione monolitica, ma tante correnti, che si interrogano ciascuna nel proprio tempo su quale sia il modo di intendere ed eseguire un certo repertorio.
Personalmente, ritengo che i cantanti si pongano in modo diverso in relazione al proprio corpo, alla littera dello spartito, al personaggio che sono chiamati ad interpretare.
Per quello che è il mio sentire, le divergenze maggiori sorgono nella gestione dell'emissione e del fraseggio. Per fraseggio intendo non già l'interpretazione, ma il modellato della frase, per esempio il legato.
Dal mio punto di vista, ci sono cantanti che cercano a livello di emissione un suono il più possibile omogeneo e chiaro, proiettato e squillante, nitido e terso. Sono quei cantanti che adottano un timbro puro, "stilizzato", chiaro anche negli abissi della voce. Il citato Plançon, un grandissimo, era un basso chiarissimo, come chiaro era anche Pasero, o anche Mardones, e di recente Ramey. Ci sono i baritoni tenoreggianti, come Stracciari, Galeffi, De Luca, Tagliabue stesso. Potrei continuare, ma non lo faccio perché penso sia chiaro quello che intendo dire. Essi cantano con suono omogeneo e altissimo di posizione. Sono quelli che, per te, "cantano bene". :)
Poi ci sono quelli che, in un modo o nell'altro, cercano un suono "diverso". Diverso da quello che sarebbe se venisse emesso in modo "corretto" (corretto fra virgolette), ossia come quelli di cui sopra. Costoro cercano cioè di colorare la loro voce, cercando suoni talora cremosi, talaltra scuri, oppure pastosi, nasali, gutturali, aspri, stridenti, e via andare. Tutti quei suoni che l'emissione pura stilizzata preclude, almeno in parte, concentrata com'è sull'unicità ed omogeneità del suono, del sound, per dirla con la grandissima Joan Sutherland, esponente autorevolissima della prima categoria. Un esempio: Kaufmann, che avrebbe voce di timbro chiaro (come tutti, del resto) ma che ha deciso di "inchiostrare" l'emissione per ottenere un suono come quello con cui canta ora, che poi si riverbera nelle mezzevoci in odore di falsetto, nel passaggio aperto e carnoso, nei suoni bituminosi... Insomma, sono i cantanti che secondo te (correggimi se sbaglio) cantano male. :wink: Lo ammetto: talora questi cantanti sono tecnicamente incompleti, e la loro emissione è "peculiare" più per carenze di studio che altro. Un esempio? Di Stefano! :D Sono anche quelli che, spesso, durano poco (ma non sempre).
Diversa è la questione sul modellato della frase. Ci sono, a mio parere, cantanti che privilegiano il legato, indipendentemente dall'emissione stilizzata oppure "alterata" (vogliamo chiamarla "colorista"?), e si trovano a loro agio nei cantabili, spesso anche nelle agilità, nelle tessiture acute. L'emissione conta relativamente, giacché in questa categoria rientrano cantanti dal suono sorvegliatissimo (una Devia, ad esempio) ma anche altri che lavorano sul suono, per esempio scurendolo (come fa Domingo, per esempio).
Poi ci sono quelli che al legato preferiscono un fraseggio più "staccato", fondato sulla propulsione sillabica (credo che questa definizione sia scippata a Matteo), rendendo la linea più frammentata. E anche questo coinvolge cantanti sia stilizzati sia "coloristi". Se tu senti un acuto (solo l'acuto) della Sutherland e uno analogo della Nilsson, puoi pensare che siano la stessa cantante. Stessa posizione, stesso timbro, stessa tecnica di emissione! Poi, senti una frase e tac! :) capisci dove sta la differenza: una lega che è un piacere, ed è piuttosto inerte nell'articolazione, l'altra non è perfetta nel legato (nel repertorio italiano si sente) ma ha un'articolazione sillabica formidabile.
Allo stesso modo, se senti una nota di Domingo e una di Kaufmann, capisci che entrambi cercano un suono scuro. Ma poi, quando dal suono passi ad analizzare la frase, senti che uno lega con proprietà, ed usa quel suo suono scuro per ottenere una linea legata e fluida, mentre l'altro è più concentrato sulla scolpitura delle sillabe, ottenendo talvolta suoni disomogenei, slegati, slabbrati.

Forse, dico forse, ma non saprei dirlo con certezza, la prima differenza, quella fra canto stilizzato e canto colorista è davvero TECNICA, ossia coinvolge la tecnica di emissione, mentre quella fra canto legato (vocalista?) e declamato è più che altro stilistica.

Così la vedo io. Ed ora aspetto fiducioso strali da ambo i fronti. :mrgreen:
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda teo.emme » mar 30 nov 2010, 2:20

Cantare bene ha scritto: Teo.emme, ti preciso che io parlavo solo di tradizione vocale. Il mio punto di vista è quello di un maestro di canto all'antica! :lol: E ascoltando, tanto per fare un esempio già citato, un Pol Plançon, sono convinto ci si possa fare un'idea molto concreta di come dovrebbe essere il vero basso rossiniano... anche se, nel repertorio affrontato, Plançon mai fu e mai avrebbe potuto essere "rossiniano", abbiamo comunque le registrazioni a documentarci la bontà del suo canto d'agilità. E Plançon è solo un esempio, chiararamente. Se ne potrebbero fare tanti altri, perché di quell'epoca può non piacere lo stile, il gusto, ma non si può certo dire che non si sapesse cantare.


E me ne guardo bene dal dire che non sapessero cantare, ma per me l'opera non è solo canto: è soprattutto musica. Quindi stile corretto, senso dell'insieme e ragioni musicali (che sono rapporti tonali, tessiture, linea di canto). L'acuto interpolato può avere un senso in un dato repertorio, in altro è un orrore. Le variazioni funamboliche possono anche essere esercizio interessante, ma se vanno a sconquassare la scrittura dell'autore (e spesso banalizzandola) allora diventano superflue e sgradevoli. Se applico una coloratura "liberty" con fiorettature e picchettati ad una scrittura dei primi dell'800 (esempio: Rosina) potrò ammirare la tecnica sopraffina, ma resta una mezza ciofeca, stilisticamente parlando (così come il pasticcio delle Rosine soprano). Per fare un esempio: quando Verdi scrive le sue cadenze (parlo delle opere del Verdi consapevole, a cominciare da Rigoletto per semplificare), le intende parte del corpus della partitura (tanto che vengono stese nello spartito e non dedicate ad un singolo cantante), fanno parte dell'opera, così come le appoggiature (aspetto capitale dell'interpretazione operistica, troppo spesso trascurato). Sostituirle con altre (pur avallate da una perfida tradizione) è errore filologico, musicale ed estetico. Il cantante con Verdi perde quella centralità che aveva in Donizetti o in Rossini, inizia a contare di più l'opera e le ragioni della musica, rispetto alla vanità dell'interprete. Assume rilievo l'orchestra e la costruzione musicale, tanto che Verdi dalla Traviata in poi, non accetterà più commissioni da teatri che non disponessero di una buona orchestra e di un vero direttore. Abbassamenti, tagli, riscritture, interpolazioni, non sono mai legittimi, semmai rispondono a talune esigenze pratiche, ma la volontà dell'autore viene comunque compromessa (l'originale SOL maggiore di "Casta Diva", ha un effetto del tutto differente - nell'equilibrio tonale dell'opera e nell'effetto estetico - rispetto al FA maggiore che la tradizione ha imposto: l'idea di Bellini è stata compromessa). Certo magari alla fine si sente una bella esecuzione, belle voci, belle esibizioni...ma basta tutto questo? A me no. Non più!
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda Cantare bene » mar 30 nov 2010, 15:26

Tucidide ha scritto:Allo stesso modo, se senti una nota di Domingo e una di Kaufmann, capisci che entrambi cercano un suono scuro. Ma poi, quando dal suono passi ad analizzare la frase, senti che uno lega con proprietà, ed usa quel suo suono scuro per ottenere una linea legata e fluida, mentre l'altro è più concentrato sulla scolpitura delle sillabe, ottenendo talvolta suoni disomogenei, slegati, slabbrati.


E' proprio questo "cercare" un suono, questo voler "fare" la voce, che io non sopporto in questi "cantanti". Per cantare bene si deve cantare con la propria voce naturale, senza camuffare, scurire, gonfiare... Domingo poi non mi sembra affatto un esempio di canto fluido e legato... semmai è l'esempio del contrario. Mentre Kaufmann non fa che vomitare suoni fumosi e ingolati che anziché darmi l'idea di una "propulsione sillabica", mi suggeriscono un altro tipo di propulsione: una spinta defecatoria.


Teo.emme, ciò che tu scrivi non è in contrasto con il discorso che faccio io. Il mio è un discorso tecnico-vocale prima ancora che stilistico. Però potrei obiettarti che sì, è importante adempiere al volere del compositore e rispettare la lettera dello spartito, ma altrettanto importante è rispettare le orecchie degli ascoltatori. Pensi che quando la scorsa settimana, a Firenze, la Urmana e Licitra strillavano a piena voce la Forza del destino, l'idea di Verdi non venisse compromessa? Certo che il canto non è tutto, ma questa non è una buona scusa per giustificare il mal-canto!

In attesa dell'intervento di Marazzi, saluti.
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda teo.emme » mar 30 nov 2010, 16:45

Cantare bene ha scritto:..Pensi che quando la scorsa settimana, a Firenze, la Urmana e Licitra strillavano a piena voce la Forza del destino, l'idea di Verdi non venisse compromessa? Certo che il canto non è tutto, ma questa non è una buona scusa per giustificare il mal-canto!


Secondo me questo discorso nulla c'entra con la questione della tradizione: anzi, vedo prorpio una delle cause della resa scadente proprio nell'ossequio ad una certa tradizione. Il mezzosoprano che si ricicla come soprano (per soddisfare istinti da "primadonna") con tutti i problemi che tale scelta produce e il tenore che scimiotta il Verdi muscolare che una certa visione superata ha imposto (far cantare Licitra, tenore che naturalmente avrebbe una ben maggiore ricchezza di sfumature, come un colone di Del Monaco o Di Stefano è peccato mortale - ancora peggio se la scelta viene dal direttore). Il problema dell'opera di oggi è sempre quello: non considerare le attitudini dei cantanti al ruolo affidato.
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda Cantare bene » mar 30 nov 2010, 17:28

teo.emme ha scritto:
Cantare bene ha scritto:..Pensi che quando la scorsa settimana, a Firenze, la Urmana e Licitra strillavano a piena voce la Forza del destino, l'idea di Verdi non venisse compromessa? Certo che il canto non è tutto, ma questa non è una buona scusa per giustificare il mal-canto!


Secondo me questo discorso nulla c'entra con la questione della tradizione: anzi, vedo prorpio una delle cause della resa scadente proprio nell'ossequio ad una certa tradizione. Il mezzosoprano che si ricicla come soprano (per soddisfare istinti da "primadonna") con tutti i problemi che tale scelta produce e il tenore che scimiotta il Verdi muscolare che una certa visione superata ha imposto (far cantare Licitra, tenore che naturalmente avrebbe una ben maggiore ricchezza di sfumature, come un colone di Del Monaco o Di Stefano è peccato mortale - ancora peggio se la scelta viene dal direttore). Il problema dell'opera di oggi è sempre quello: non considerare le attitudini dei cantanti al ruolo affidato.


Non riesco proprio a seguirti. Il problema dei cantanti, oggi, è che si è perso il vero modo di cantare: è questo che sto dicendo. Non vedo quale "attitudine" possa mai avere uno come Licitra che non sa fare nemmeno il passaggio di registro. Nessuno gli ha imposto di urlare per tutta la sera, ciò che glielo impone è la sua palese mancanza di tecnica: Licitra non sa cantare. E questo c'entra eccome con la tradizione, in quanto vivaddio abbiamo fior fior di registrazioni a documentarci qual è stata la tradizione vocale che ci ha preceduti, ma ciononostante questa tradizione viene oggi sistematicamente disattesa. La Urmana anche prima di passare a ruoli sopranili è sempre stata una "cantante" tecnicamente sguaiata, primitiva, becera. Come vedi - o meglio, come senti - la questione non è l'ossequio all'istinto da primadonna o al Verdi "macho" anni Cinquanta (rientrante pienamente nel filone malcantistico), il problema è la tradizione del cantare all'italiana che si è ormai tragicamente persa.
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda MatMarazzi » mar 30 nov 2010, 21:17

Avevo promesso una risposta sulla plurivocità tecnica del canto classico attuale. Ci provo....

I cantanti che oggi praticano la musica e il teatro musicale cosiddetti “classici” si appoggiano a tecniche di emissione sonora non omogenee, basate su scuole fiorite in epoche e contesti diversi.
Sulla scorta di alcune macroscopiche differenze di emissione sonora, si può affermare che i cantanti classici oggi attivi si possono ricondurre a tre principali famiglie: i vocalisti (che si fondano su una tecnica di emissione le cui radici pratiche e teoriche risalgono al ‘700), i declamatori (la cui tecnica fu ideata nella seconda metà dell’’800) e infine i coloristi (le cui rivoluzioni tecniche si giustificano, dal secondo dopoguerra a oggi, come fenomeno emulativo verso le impressionanti conquiste del canto "non classico" novecentesco).
E' ovvio (e non dimeno necessario) il sottolineare che, seppure forgiate su principi tecnici differenti e orientate a differenti obbiettivi artistici (cosa che sta conducendo a specializzazioni e competenze sempre più nette in seno al repertorio), le tre scuole hanno impostato fra loro sinergie e contaminazioni di estremo interesse: infatti la feroce contrapposizione estetica portata avanti (ancora oggi) dagli "incondizionali" dell'una e dell'altra tecnica (l'odio fra i declamatori e i vocalisti, ad esempio, risalente addirittura alla fine dell'800) non ha impedito che le tre scuole si contaminassero pesantemente, come se gli esponenti dell'una "invidiassero" all'altra le rispettive specificità.
E così vocalisti egregi hanno subito il fascino dei declamatori, molti declamatori hanno "ammorbidito" il proprio declamato per assomigliare ai vocalisti.
L'attualità poi è largamente dominata dai "coloristi", i quali hanno sedotto tanto i vocalisti (il caso più estremo è quello di Cecilia Bartoli), quanto i declamatori (come Kaufmann).
Le contaminazioni fra scuole poi hanno condotto a veri e propri sottogruppi: vi sono declamatori "morbidi", ad esempio, tanto in area italiana (si pensi a Del Monaco o a Bastianini), quanto in area wagneriana (da Melchior alla Nilsson).
Il confine tra vocalisti e coloristi è labilissimo se consideriamo la quasi totalità di specialisti odierni del barocco.
E questi sono solo esempi.
Ma al di là delle possibili classificazioni e varie ibridazioni (la cui analisi ci porterebbe molto lontano), resta il fatto che il modello originale di queste tre scuole, il loro presupposto tecnico fondamentale è chiaramente distinguibile e principale causa dei limiti e dei pregi propri ad ogni scuola.

I VOCALISTI

Definiamo vocalisti i cantanti classici che, per formazione tecnica, si appoggiano alle antiche regole elaborate in età barocca: quel complesso di regole che impropriamente chiamiamo “Belcanto”.
Per capire le particolarità di questa tecnica, occorre per prima cosa individuare gli obbiettivi che con essa i cantanti intendevano conseguire.
L’obbiettivo principale era l’esaltazione della potenzialità strumentali del canto.
Il canto, come è noto, fonde due espressioni artistiche diverse (e virtualmente autonome): la parola e il suono.
Proprio per il culto della strumentalità canora (e sull'esempio del grande virtuosismo strumentale del 700) i cantanti barocchi fecero la loro scelta: il canto avrebbe anche potuto ridurre l'importanza della "parola", trascurarla persino, purché il suono ne fosse esaltato in maniera trascendentale, e con il suono anche le specificità "strumentali" della musica: in particolare il FRASEGGIO (inteso come gestione ritmico-dinamica della frase musicale) o il VIRTUOSISMO (capacità di produrre suoni eccezionali per estensione, ampiezza di arcata e velocità di esecuzione).
Fraseggio e virtuosismo erano proprio ciò su cui si esercitavano i grandi strumentisti... per cui la "parola" non era un problema. :)

Sempre per l'imitazione degli strumentisti (e con l'obbiettivo di conseguire effetti "ultra-umani", come era proprio in quell'estetica) i "belcantisti" avevano fra i loro obiettivi anche l'omogeneità del suono nei diversi registri (come un violoncello non deve far sentire il passaggio da una corda all'altra, così il cantante deve "mascherare" il passaggio da un registro all'altro) e la risonanza (come un violoncello dispone di una cassa lignea per amplificare gli armonici superiori di ogni suono e farlo così penetrare nello spazio di un teatro, così il cantante sfrutterà le cavità facciali).

Alla base di questa tecnica c'erano e ci sono ancora due principi tecnici di grandissima importanza: l’immascheramento del suono e la singolare gestione del fiato.
Partiamo da quest'ultima.
Per conseguire il cosiddetto "canto sul fiato", il vocalista addotta una particolare forma di respirazione (sulla quale circolano i nomi più strani, ma che possiamo chiamare, per intenderci, costale-diafframatica) che permetteva di governare l’intensità del flusso del suono.
E' una forma davvero straordinaria di gestione del fiato: la dinamica della frase musicale veniva così affidata al fiato, alla sua maggiore o minore intensità (e non, come avviene in quasi ogni altra forma di canto, classico e non, alle tensioni dei muscoli della gola).
Il termine di "canto in maschera" descrive invece la capacità di far risuonare gli armonici della voce in determinate cavità craniche (in particolare nei seni frontali e palatali).
I vocalisti non sono gli unici in grado di usare le cavità del corpo come risuonatori: lo fanno anche moltissimi cantanti pop; lo fanno anche i declamatori.
E' però inconfondibile la tecnica dei vocalisti (detta appunto "immascheramento") che non solo consente di aumentare il volume del suono e la sua capacità di propagazione in grandi spazi (chiusi), ma anche di omogeneizzarne il timbro e di nascondere le naturali diversità fra i registri vocali.

Per il repertorio barocco la tecnica "vocalistica" era quello che ci voleva; era inoltre perfetta per i particolari spazi acustici dell'epoca (i teatri lignei e ovali, che esaltano gli armonici) e per il tipo di supporto orchestrale allora richiesto.
Il suo grande limite (ma non ha senso parlare di limite in questo caso) era che le vocali - ossia i "colori" della voce - risultavano come omogeneizzati in un suono indistinto, rendendo molto difficile la valorizzazione e persino la comprensione della parola cantata.
Ma, ripeto, non si trattava affatto di un limite per le estetiche barocche, che sottoscrissero, come abbiamo detto, il predominio della musica sulla poesia, del suono sulla parola.
Persino la gestione del fiato (quel famoso "cantare sul fiato", quella famosa "respirazione" di cui i belcantisti andavano così fieri) nuoceva alla valorizzazione della singola parola - o della singola sillaba - pur di esaltare la melodia nel suo lineare dispiegarsi; la sillaba, nel canto belcantistico, veniva come diluita in un percorso senza soluzioni di continuità (mentre, come vedremo, la respirazione dei declamatori è propulsiva e pertanto discontinua: si concentra sulla pressione e quindi esaltazione di ogni sillaba a discapito della linea melodica).
Altro grande limite dei vocalisti era la scarsissima umanità che questo suono profondamente artefatto e manipolato poteva comunicare: ciò che il canto trae dall'espressione umana (sentimenti, paure, asprezze, sensualità, rabbia) veniva infatti ridimensionato e quasi smaterializzato in suoni troppo omogenei e irreali per comunicare profonde emozioni, le quali semmai erano affidate al mero linguaggio musicale (ritmico, armonico, melodico) col risultato che un'aria di furore, ad esempio, sarebbe risultata altrettanto "furiosa" se eseguita da un oboe.
Ma anche questo non sarebbe giusto considerarlo un limite: ogni tecnica canora va commisurata infatti agli obiettivi che intende perseguire; e l'estetica barocca, di cui il Belcanto era espressione diretta, non aveva fra i propri obbiettivi il realismo, né la comunicazione di sentimenti particolarmente espliciti.


C'è da chiedersi una scuola così particolare, così funzionale a un'estetica precisa (e con i limiti che abbiamo detto) sia potuta sopravvivere tanto a lungo, sostenendo i colpi del Romanticismo e mantenendosi (pur fra tante evoluzioni) fino ai giorni nostri.
Le risposte sono due: la prima è la più ovvia. Su un certo versante (quello appunto "musicale" legato alla valorizzazione del fraseggio e al virtuosismo) i risultati conseguiti dalla scuola belcantistica sono semplicemente sensazionali e vanno annoverati fra le opere dell'ingegno più alte della nostra civiltà.
Non esiste altra forma di canto che renda possibili tali e tante meraviglie.
Rinunciarvi è dura: anche quando il Barocco tramontava e le nuove estetiche ottocentesche reclamavano una "rivoluzione della parola", i compositori stentavano a prescindere dalle possibilità musicalmente sconfinate che il canto vocalistico permetteva.
E anche quando l'esplosione wagneriana (e il nuovo canto declamatorio che su essa si forgiò) inferse un colpo mortale alla tradizione vocalistica, la scuola rimase tuttavia attiva per tutto il '900; e lo è ancora.
I declamatori infatti, con le caratteristiche che poi evidenzieremo, potevano sbaragliare i "vecchi" vocalisti solo nelle nuove musiche, quelle scritte appositamente per loro (praticamente tutto ciò che fu composto dopo Wagner), ma non potevano far fronte alle specifiche difficoltà di tutto il repertorio antico, pensato espressamente per cantanti vocalisti e le cui difficoltà sono insormontabili per qualsiasi altro tipo di tecnica vocale.

Questo spiega anche perché (a oltre tre secoli di distanza) molte delle conquiste del Belcanto siano ancora insegnate e praticate ai nostri giorni; lo ripetiamo: la musica composta per gli antichi “belcantisti” è talmente ardua e "specifica" che nessun altro tipo di tecnica ne permetterebbe l’esecuzione.
Finché si eseguirà il repertorio "per vocalisti" il vocalismo non potrà tramontare: tutt'al più (come vediamo da una trentina d'anni) si contaminerà con altre scuole.



I DECLAMATORI

I primi colpi al vocalismo furono inferti (almeno in linea teorica) fin dai primi dell'800. Sulla scorta delle riflessioni romantiche, del nuovo peso che andava assumendo l'espressione del sentimento, delle prime riscoperte "nazionalistiche" delle arti popolari, il monocromatismo indecifrabile e astratto del Belcanto cominciò a essere avvertito come una prigione da cantanti, compositori e pubblico.
Ci vollero molti decenni perché ci si rendesse conto di poter fare a meno di una tecnica che comunque era praticata da secoli e che consentiva autentiche meraviglie. La conversione ai "prolegomena" del futuro declamato fu quindi un processo molto lungo e difficile da investigare (e tuttavia evidente, come dimostra l'evoluzione della scrittura verdiana dalle opere giovanili a quelle della maturità).
Fu però il successo planetario che arrise all’opera di Richard Wagner, le cui opere della maturità prescindono totalmente dalle possibilità del vocalismo e ambiscono al contrario a una nettissima preminenza della parola, a costringere ai cantanti classici a muovere i primi passi FUORI del tracciato vocalistico e ad esplorare differenti possibilità sonore.
Si andò così articolando (a partire dal 1870 circa) una nuova tecnica, che definiamo “declamatoria”.
Tale tecnica continuava a sfruttare le cavità craniche per amplificare i suoni, ma non più puntando – come i vocalisti – sull’omogeneità dei colori, bensì esasperando i contrasti vocalici e le rotture di registro In modo da valorizzare la sillaba sulla melodia).
Il canto in maschera (nell'accezione belcantistica) venne abolito perché ai declamatori non interessava più conferire un senso di omogeneità alla linea: la linea wagneriana infatti è franta e discontinua e altrettanto pretende dai suoi esecutori.
Proprio il concetto di "omogeneità timbrica" (alto obbiettivo per i vocalisti) divenne per i declamatori uno spauracchio da evitare a tutti i costi: mezz'ora di monologo wagneriano tutto "omogeneo" è una contraddizione in termini.
Il declamatore - non aprendo i suoni, ma proiettandoli diversamente - deve lavorare sull'autonomia di ogni sillaba, sulla sua singolare pregnanza, a costo di rinunciare a virtuosismo e brillantezza che, d'altronde, né Wagner, né i compositori a lui successivi (anche italiani, francesi, russi, cechi) non richiedevano più.
La stessa respirazione smarrì l'antico ruolo di mantice di dinamica (attraverso la belcantistica gradazione del fiato) per divenire strumento di propulsione o “affondo” delle singole sillabe.
L'impatto estetico e culturale del canto "declamatorio"fu violentissimo.
E non solo in Germania, ma in ogni paese: persino in Italia già ai primi del '900 (vedere Caruso o Ruffo) erano nati i primi emuli, tanto che molto del repertorio allora in voga (il cosiddetto verismo) si forgiò sulle loro caratteristiche.
In quegli anni i declamatori tentarono anche di impossessarsi dell'antico repertorio per "vocalisti" dove però incontrarono difficoltà insormontabili (a cui si tentò per anni di sopperire con riscritture delle parti, alterazioni di tonalità, taglio delle battute più scabrose, eliminazione di ogni sospetto di virtuosismo).
E tuttavia proprio l'insormontabile difficoltà del repertorio pensato per vocalisti ha permesso la sopravvivenza di questi ultimi in numero sufficiente per tenere in piedi una tradizione fortunatamente vitale anche ai giorni nostri.
Oggi, fortunatamente, è diventato più raro che vocalisti e declamatori combattano per la conquista del repertorio: gli ambiti sono stati ragionevolmente divisi e questo anche per merito (almeno in Italia) dello spesso citato Celletti, il cui più grande contributo è consistito proprio nel combattere per decenni affinché ai declamatori venisse sottratto il repertorio concepito sulle caratteristiche e sulle particolarità dei vocalisti.
Normalmente i vocalisti odierni esercitano la loro egemonia incontrastata sul repertorio pre-wagneriano, mentre i declamatori hanno il controllo di Wagner, Strauss e compositori coevi (Mussorgskij e Janacek ad esempio, ma anche molto del cosiddetto Verismo).
Solo nell’ultimo Verdi e in altre opere del secondo Ottocento è ancora praticata una compresenza delle due scuole


I COLORISTI

A partire dal secondo dopoguerra, un'altra rivoluzione ha scosso il mondo del canto classico.
Una nuova tecnica, con caratteristiche singolarissime, ha affiancato le due scuole storiche; la principale particolarità del nuovo canto (che chiamiamo "colorista") è quello di fondare molti dei suoi effetti sulla cosiddetta "apertura del suono".

Se c'è una cosa che vocalisti e declamatori avevano in comune era l'esigenza di farsi sentire in spazi acustici più o meno vasti.
Lo sfruttamento delle cavità facciali come "risuonatori" (sia pure condotto in modo completamente diverso) era dunque indispensabile agli uni come agli altri.
Staccandosi nettamente da entrambi, i primi “coloristi” cominciarono - negli anni '50 del '900 - a mettere in discussione l’idea stessa dell’amplificazione facciale del suono.
Cominciarono cioé a emettere alcune vocali "di gola", ossia liberandole dall’alone degli armonici e rivelandole, spogliandole fino alla loro essenza più "parlata".
Non più raccolti nella maschera, non più librati nello spazio sulle ali della risonanza, questi suoni perdevano quella morbidezza e quello squillo che da sempre si associa al canto classico; in compenso rivelarono - con autentica stupefazione del pubblico - i colori originari della voce umana.
Ma le sillabe erano risultate tanto espressive, tanto intelleggibili, tanto poetiche ed emozionanti; mai la carnalità di un suono, la sua verità umana si era rivelata con tanto fulgore.
Ovviamente il contrappasso era severo...
Persa la sua risonanza, il suono faticava a fendere gli spazi, diventava non solo più piccolo, ma soprattutto più sordo. La difficoltà di farsi "sentire" costringeva il colorista a sforzare lo strumento (lo spettacolare e miserevole crollo vocale di uno dei primi pionieri del canto "colorato" - Giuseppe di Stefano - insegna che il repertorio pesante dovrebbe essere precluso ai coloristi).
Omogeneità, morbidezza, squillo, potenza erano persi per sempre per chi osasse la scelta del colorismo.
Ma allora perché osarlo?
Cosa spinse molti degli artisti dell'epoca a muoversi su questo terreno fascinoso e impervio, che permette un'espressività infinitamente maggiore, compromettendo tutto il resto?

Le ragioni sono due.
La prima è la concorrenza del canto "non classico", in particolare jazz, rock e altra musica pop di matrice negro-americana.
La diaspora apertasi fra canto classico e canto non-classico, nel corso del '900, non era più confinabile in una gerarchizzazione estetica: canto di serie A e canto di serie B.
Il canto non classico aveva preso una strada imprevedibile, buttandosi tutte le tradizioni tecniche alle spalle, esplorando sonorità inaudite, nuovissime, stupefacenti (perfino ringhi, suoni spezzati, stimbrati, effetti growl) e naturalmente aprendo i suoni all'inverosimile, creando di fatto il "colorismo".
Di fronte allo sperimentalismo geniale e incontenibile del canto non-classico novecentesco, i cantanti classici (vocalisti o declamatori non importa) dovettero sentirsi dei dinosauri, incatenati a possibilità espressive infinitamente meno vaste.
Fu certo l'esempio (se non l'imitazione) del canto non classico a spingere pionieri come la De los Angeles, Fischer-Dieskau, Martha Moedl, la stessa seconda Callas ad avventurarsi, un po' alla volta, nell'incredibile mondo del canto "colorato".
La seconda ragione fu l'affermarsi, proprio in quegli anni, della fonografia (del 1925 è l'incisione elettrica, dell'immediato dopo guerra è il trionfo dell'LP).
Il microfono era infatti uno strumento traditore per il cantante classico (vocalista e declamatore): non permetteva infatti l'espansione nello spazio a un suono che nasce proprio per espandersi. Il colorista (con le sue aperture) è invece perfetto per il microfono. I suoni che produce si perdono negli spazi, ma si esaltano nel microfono

Dopo le fondamentali sperimentazioni degli anni ’50 (con risultati alterni e discussi nell’opera italiana e in quella tedesca, ma con successo indiscusso in Mozart e nella Liederistica), i coloristi hanno progressivamente conquistato diverse fette di repertorio, vincendo con la modernità del loro canto molte (più o meno fondate) reticenze da parte del pubblico.
Gli ambiti più congeniali ai coloristi "puri" restano quelli in cui non è richiesta una particolare potenza sonora (la musica da camera, il Seicento, il Novecento più sperimentale). Non di meno assistiamo al loro inarrestabile affermarsi anche in terreni che sembrerebbero preclusi alle loro delicate vocalità: ad esempio proprio il Barocco (che dovrebbe essere il regno dei più puri belcantisti) è oggi largamente dominato dai coloristi (specie nella variante “filologica” e contestatrice emersa negli anni ’70). Il loro canto ricco di sprezzature, seduzioni, contrasti è in sintonia con l'orientamento verso un'umanizzazione" di questa drammaturgia.
Ma dove meglio si può misurare l'enorme influenza dei coloristi è nelle contaminazioni con le scuole di canto storiche.
Ormai il colore è divenuto un'esigenza tanto per i vocalisti, quanto per i declamatori.
Specialiste del repertorio vocalistico come Cecilia Bartoli e Anna Caterina Antonacci si sono talmente convertite al colore che oggi è arduo definirle "vocaliste".
Ma ben prima di loro i grandi rossiniani della Renaissance (dalla Horne, a Ramey, Blake, Merritt, Kunde) avevano scoperto le stupefacenti possibilità del colorismo a contatto col repertorio pre-romantico. ù
Non sono da meno i più moderni declamatori (Terfel, Kaufmann), che - sull'esempio dei pionieri americani come Vickers e Thomass, hanno imparato a screziare il loro Wagner di sfumature cromatiche di suggestione semplicemente diabolica.
Non solo l'onnipresenza del colorismo fa apparire "antichi" quei cantanti che ancora praticano un vocalismo o un declamato puri, ma apre le porte a quella che sarà la maggiore conquista dell'Opera nei prossimi anni: l'inglobamento - in seno al proprio repertorio - del Musical classico, nel quale i coloristi (e non da oggi) eccellono.

Scusate la lunghezza e salutoni,
Matteo
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda pbagnoli » mar 30 nov 2010, 22:20

Be', Matteo, che dire?
Sono senza parole :D
Avevamo bisogno di sistematizzare la materia, ma direi che ti sei superato: questo è veramente il manifesto del nostro sito!
Grazie!!!
"Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!"
(Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra)
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda Cantare bene » mar 30 nov 2010, 22:46

MatMarazzi ha scritto:Scusate la lunghezza e salutoni,
Matteo


Ma figurati, anzi grazie per il tempo che hai dedicato a rispondermi. Mi accontentavo anche di una spiegazione più breve, apprezzo questa generosità!

Ovviamente, però, ho molte cose da osservare e obiettare.

Risponderò con calma, spero entro domani.

Nel frattempo, Matteo, mi sarebbe utile, per capire meglio queste categorie che hai enucleato, se tu facessi qualche ulteriore esempio di "vocalista" e di "declamatore", attenendoti se possibile al periodo del primo Novecento. Hai già fatto il nome di Caruso.

Saluti
Cantare bene
 

Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda Tucidide » mar 30 nov 2010, 22:51

Cantare bene ha scritto:Pensi che quando la scorsa settimana, a Firenze, la Urmana e Licitra strillavano a piena voce la Forza del destino, l'idea di Verdi non venisse compromessa? Certo che il canto non è tutto, ma questa non è una buona scusa per giustificare il mal-canto!

Un attimo! :) Quando parlo, almeno io, ma penso tutti, di cantanti dalle tecniche diverse, o dalle sfumature di tecnica diverse, non intendo giustificare esecuzioni mediocri, scadenti, addirittura atroci, come quelle che citi. Un conto è cantare in un modo invece che in un altro. Un altro è cantare male, palesemente male. Qui una tecnica o un'altra non conta nulla.
Penso che converrai che fra il Don José o il Werther di Kaufmann, l'Otello di Domingo, il Siegmund o il Samson di Vickers da un lato e l'Alvaro di Licitra dall'altro ci sia un abisso. Lascia pure che i primi non ti piacciano. Ma certo stiamo parlando di altra merce. In tutti i sensi. :D
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda MatMarazzi » mer 01 dic 2010, 13:47

Cantare bene ha scritto:quando parlate di "declamatori" non capisco bene se vi riferiate ad uno stile o ad una tecnica, e soprattutto in rapporto a quale repertorio.


Ci riferiamo proprio a una tecnica!
I suoni di Lorenz non sono quelli di Pertile (ascoltali a confronto nel Lohengrin).
Come ho spiegato, i declamatori affrontano diversamente proprio quelle che sono le conquiste basi del vocalismo: la respirazione, l'immascheramento, il passaggio di registro.
A farcelo notare è proprio Celletti, non io (e so che ti fidi molto più di lui che di me!).
Il fatto che secondo lui, la Varnay e Vickers (ossia due miti storici del canto declamato, due delle carriere più importanti a livello mondiale del '900) cantino "male" dimostra che non seguono i precetti vocalistici, quelli che lui amava! :)

MatMarazzi ha scritto:Per quanto riguarda i suoni fissi, mi sembra fin troppo scontato far notare che le antiche rudimentali tecniche di registrazione rendevano quasi irriconoscibili i timbri di quei cantanti.


Scusa se mi permetto, ma questa è la classica e più risibile fandonia messa in giro dai Cellettiani.
Le tecniche di registrazione dell'epoca erano le stesse per la Destinn e la Boninsegna, per Caruso e Jadlowker.
Com'è che la Destinn suona fissa e la Boninsegna no?
Com'è che Jadlowcker suona fisso e Caruso no?

MatMarazzi ha scritto:No, qui proprio il "de gustibus" non c'entra niente. Le moderne "tecniche" di canto, prima di essere contrarie al mio gusto personale, sono irrispettose della natura della voce, oltre che dei dettami che la storia ha consolidato e tramandato nel corso dei secoli, e sono pure incompatibili con le ragioni "acustiche" dell'ascolto. E' inutile perdersi in digressioni sulla "evoluzione del gusto"... per eseguire ad esempio una messa di voce come Dio comanda, la voce deve galleggiare perfettamente sul fiato, senza tensioni innaturali, il suono dev'essere "alto" e soave, ed il tutto deve avvenire con perfetta naturalezza. Solo in questo modo si può affrontare un repertorio che nasce per quel modo di cantare, e che solo attraverso quella tecnica può essere eseguito correttamente, nel rispetto di tutte le indicazioni scritte sulla partitura.


Questo è esattamente il de gustibus di cui si parlava, come già ti hanno fatto notare altri partecipanti del forum.
Solo lascia stare la Storia, ti prego.
Louis Armstrong e Billy Holiday sono "storia del canto" ben più di quanto non lo sia Mariella Devia.
eL'unica cosa che tu chiami storia è solo una piccola porzione di canto novecentesco, quella che piace a te! :) E nemmeno tutto il canto "operistico", perchè da quella che tu chiami Storia bisogna sottrarre almeno il 60% dei grandi cantanti (declamatori e coloristi) che non rientrano nei tuoi precetti.
Un bel modo di fare la Storia del Canto, se mi permetti: eliminare il 90 % dei cantanti del Novecento (classici e non) e chiamare "storia" quel che resta! :)

(Schipa cantava all'Arena e lo sentivano fin sulle ultime gradinate, Gigli si esibiva negli stadi e la sua voce riempiva spazi immensi, mentre oggi i cantanti faticano a farsi sentire sopra un'orchestrina).

Sulla propagazione sonora di Schipi e Gigli negli spazi all'aperto, purtroppo parli solo per sentito dire.
Io ho molti dubbi che la loro tecnica fosse in grado di propagare i suoni anche in ambienti acustici aperti, ma anche se così fosse... questo non significa nulla.
Milioni di persone ti potrebbero rispondere che è meglio sentire i mille colori del Winterreise di Fischer Dieskau in un ambiente piccolo che le potentissime strilla della Casolla all'Arena di Verona.
Per inciso, io ho sentito dal vivo Licitra all'arena di Verona (anno 2000) e, pur detestando tanto lui quanto la sua partner di allora, lo sentivo benissimo. Devo per questo prediligerlo a Schipa?

Quanto a Plançon, lo adoro anche io.
Eccolo in una delle sue incisioni più spettacolari, di quelle che bastano a farlo entrare nelle classifiche dei più grandi cantanti di sempre.



Bene: questo è genio!
Eppure ovunque si sentono note che oggi sarebbero giudicata inammissibili da qualunque maestro di canto.
Se vai al minuto 2:06 (o tutta la parte finale, compreso l'acuto) senti proprio quelle "desonorizzazioni" che se le sentissimo in un basso di oggi... giudicheremmo "non canto". Per i parametri attuali, un odierno che eseguisse così questi passaggi starebbe solo "canticchiando".
Non è un caso che Ramey, quando eseguì la stessa aria, non ricorse ad una sola di queste sonorità, che l'evoluzione dei gusti hanno cancellato.
In compenso Ramey faceva ricorso a colori sgargianti (e aperture nel registro medio-grave) che avrebbero scandalizzato qualsiasi ascoltatore primo-novecentesco, a partire dallo stesso Plançon.

mi sarebbe utile, per capire meglio queste categorie che hai enucleato, se tu facessi qualche ulteriore esempio di "vocalista" e di "declamatore", attenendoti se possibile al periodo del primo Novecento. Hai già fatto il nome di Caruso.


Possiamo fare questo gioco con tutti i nomi che vuoi...
Perché non li proponi tu?
Per ora ti posso dire che chiaramente Lauri Volpi era un vocalista.
Pertile, se pure imitava (maldestramente) molti effetti dei declamatori - specie nell'esagitazione della scansione sillabica e nella retorica dell'accento - restava un sublime vocalista.
Più complesso il caso di Martinelli: lui è un buon esempio di ibridazione (allora molto di moda) fra vocalismo e declamazione, ma l'aspetto vocalistico restava quello originale e predominante.
De Luca e Galeffi erano sommi vocalisti. Ruffo e Bechi erano puri declamatori all'italiana.
Stracciari era come Pertile (un vocalisti d'alta scuola che invidiava un po' l'evidenza espressiva dei declamatori e così li imitava negli aspetti più esteriori e retorici, ma restava un grande vocalista).
Gobbi e Bastianini erano declamatori; Tagliabue era vocalista.
Taddei era come Pertile e Stracciari: un vocalista puro che però imita gli effetti dei declamatori, proprio come Corelli che di base (nonostante i singhiozzi e gli orrori della scansione sillabica) restava un provetto vocalista. Un mondo lo divide da Del Monaco (o un altro grande cantante italiano dell'epoca: Gino Penno) che furono fra i maggiori declamatori italiani della loro generazione, non per nulla grandi wagneriani entrambi.

Affascinantissimo il caso dei tedeschi.
Noi siamo soliti associare ai tedeschi l'esclusività del canto declamatorio.
Ma questo è vero solo dal secondo dopoguerra.
Fino alla prima metà del '900 i tedeschi fecero pacificamente convivere entrambe le scuole storiche: molti di loro erano sublimi vocalisti (i baritoni come Schlussnus e Janssen, i tenori come Roswaenge, Wittrich e Tauber, i bass-baritoni come Schorr, i mezzosoprani come la Klose, soprani come la Rethberg); altri erano fenomenali declamatori "puri" (Lorenz, la Larsen Toedsen, la Fuchs, Lotte Lehmann, il giovane Hotter).
C'era inoltre una via di mezzo (quella che io chiamo il "Wagner internazionale"). Ossia un gruppo di artisti popolarissimi - e ancora oggi amati dal nostro Tuc - di declamatori "smorzati" che cioé, pur restando declamatori a tutti gli effetti, imitavano i vocalisti nell'inseguire una maggiore omogeneità di suono, una sensazione di maggiore legato e di maggiore dinamica.
La Flagstad, la Leider, Melchior, giù giù fino alla Nilsson e oggi la Stemme.... restavano declamatori (nella respirazione e in tutto il resto) ma risultavano molto più graditi a quel pubblico che non digeriva il declamato puro (specie il pubblico non tedesco, che non potendosi attaccare al senso delle parole aveva bisogno di altre suggestioni "sonore" per divertirsi con Wagner).

Si può andare avanti per ore... :)
Chissà se anche altri hanno voglia di proporre qualche nome.

Salutoni,
Mat
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda Rodrigo » mer 01 dic 2010, 20:07

Mancano i francesi!
Ne so poco, ma dall'ascolto ho maturato la convinzione che - complice il repertorio tipico e forse il carattere stesso della lingua - i cantanti "storici" transalpini facciano abbastanza parte a sè come stile di canto. Questo almento fino alla fine della seconda guerra mondiale (Vanzo è una specie di frutto postumo).
E' vero che bisognerebbe distinguere bene i cantanti da opera e quelli da opera comique.
Cosa ne pensi?
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Re: "Declamatori", "coloristi", scuole varie...

Messaggioda Enrico » mer 01 dic 2010, 20:23

Secondo le testimonianze di persone che conosco, Gigli all'aperto nei primi anni '50 si sentiva (si sentiva bene, all'aperto, dicono, anche Tagliavini!), ma secondo me questo nel nostro discorso non è molto importante perché la stessa voce può dare risultati diversi in ambienti diversi, anche quando si tratta di perfetti vocalisti. Fisichella, quando l'ho visto io, una volta si sentiva tanto, una volta si sentiva poco, una volta si sentiva benino; Licitra l'anno scorso mi è sembrato, nello stesso luogo, molto più debole rispetto a nove anni prima; Matteuzzi e Jimenez, quando li ho sentiti io, in teatro chiuso e non tanto grande, si sentivano poco e male, Florez invece, per quanto leggero, si sentiva benissimo: e questo può valere anche per cantanti non "vocalisti".

Le registrazioni antiche secondo me sono spesso molto fedeli nel rendere le voci e spesso anche il timbro: per rendersene conto basta ascoltare i dischi di cantanti che hanno cominciato a incidere col sistema acustico e hanno continuato col sistema elettrico per arrivare in alcuni casi anche alle registrazioni su nastro o ai primi esperimenti stereofonici (Gigli, Schipa, Ezio Pinza...): è vero che il suono antico è più povero, ma le voci restano perfettamente riconoscibili, e anche lo stile di canto si può giudicare molto bene. Ciò che manca a volte è la possibilità di immaginare come suonassero quelle voci in teatro con una vera orchestra davanti (e non con le orchestrine lontane dei dischi acustici).

Qualche dubbio su alcuni esempi proposti: Titta Ruffo cantava con voce immascherata, i suoi non mi sembrano suoni aperti,ma è vero che sapeva mantenere la chiarezza delle vocali, come d'altra parte faceva Pavarotti (declamatore? non direi) con la sua tecnica "vocalistica"; Caruso in alcuni dischi emette la voce esattamente come Pavarotti - che infatti poteva permettersi di imitarlo negli effetti puramente vocali di certe canzoni ("Le ragazze di Trieste...", per esempio), ma si tratta di due modi di cantare diversi nell'opera non per come emettono la voce, ma per altre ragioni di stile, di musicalità, di solfeggio: sicuramente c'era una differenza di dizione, Caruso tendeva ancora ad ammorbidire molte consonanti e ad omogeneizzare a volte le vocali, e quando non legava faceva i suoi bei portamentoni, ma in alcuni aspetti trovo la sua "dizione" vicina a quella di Domingo -altro caso diverso- e lontanissima da quella di Vickers o di Tamagno.
E Tamagno, con le sue vocali apertissime, che cos'era? E De Lucia e Bonci con il loro vibrato che cos'erano? vocalisti o altro? non vedo molto in comune fra la loro tecnica vocale e quella di Kraus (che dovrebbe rientrare nella categoria dei vocalisti).
E De Lucia che canta "Che gelida manina" secondo me mette in crisi tutte le possibili classificazioni...
Delle donne antiche si potrebbe dire molto, ma basta l'accenno alla Melba, altra diva secondo me rappresentata molto bene dal disco (fino al 1926 dal vivo!): che cosa può avere in comune la sua tecnica vocale con quella di una Sutherland o di una Devia (perfetta "vocalista") o di una Magda Olivero che ha sempre detto di essere la perfetta incarnazione su questa terra del canto appoggiato sul fiato?

Ultima osservazione, per ora: ho l'impressione che il parlare di colori possa generare qualche incomprensione, perchè mi è capitato di sentire critici "tradizionali" che parlavano dei "meravigliosi colori" delle interpretazioni di Bergonzi o di altri cantanti dalla tecnica "tradizionale": e cito questo esempio perché mi pare che il "vocalista" Bergonzi sia esattamente l'opposto di ciò che qui si intende per "colorismo".
Enrico B.
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