Avevo promesso una risposta sulla plurivocità tecnica del canto classico attuale. Ci provo....
I cantanti che oggi praticano la musica e il teatro musicale cosiddetti “classici” si appoggiano a tecniche di emissione sonora non omogenee, basate su scuole fiorite in epoche e contesti diversi.
Sulla scorta di alcune macroscopiche differenze di emissione sonora, si può affermare che i cantanti classici oggi attivi si possono ricondurre a tre principali famiglie: i vocalisti (che si fondano su una tecnica di emissione le cui radici pratiche e teoriche risalgono al ‘700), i declamatori (la cui tecnica fu ideata nella seconda metà dell’’800) e infine i coloristi (le cui rivoluzioni tecniche si giustificano, dal secondo dopoguerra a oggi, come fenomeno emulativo verso le impressionanti conquiste del canto "non classico" novecentesco).
E' ovvio (e non dimeno necessario) il sottolineare che, seppure forgiate su principi tecnici differenti e orientate a differenti obbiettivi artistici (cosa che sta conducendo a specializzazioni e competenze sempre più nette in seno al repertorio), le tre scuole hanno impostato fra loro sinergie e contaminazioni di estremo interesse: infatti la feroce contrapposizione estetica portata avanti (ancora oggi) dagli "incondizionali" dell'una e dell'altra tecnica (l'odio fra i declamatori e i vocalisti, ad esempio, risalente addirittura alla fine dell'800) non ha impedito che le tre scuole si contaminassero pesantemente, come se gli esponenti dell'una "invidiassero" all'altra le rispettive specificità.
E così vocalisti egregi hanno subito il fascino dei declamatori, molti declamatori hanno "ammorbidito" il proprio declamato per assomigliare ai vocalisti.
L'attualità poi è largamente dominata dai "coloristi", i quali hanno sedotto tanto i vocalisti (il caso più estremo è quello di Cecilia Bartoli), quanto i declamatori (come Kaufmann).
Le contaminazioni fra scuole poi hanno condotto a veri e propri sottogruppi: vi sono declamatori "morbidi", ad esempio, tanto in area italiana (si pensi a Del Monaco o a Bastianini), quanto in area wagneriana (da Melchior alla Nilsson).
Il confine tra vocalisti e coloristi è labilissimo se consideriamo la quasi totalità di specialisti odierni del barocco.
E questi sono solo esempi.
Ma al di là delle possibili classificazioni e varie ibridazioni (la cui analisi ci porterebbe molto lontano), resta il fatto che il modello originale di queste tre scuole, il loro presupposto tecnico fondamentale è chiaramente distinguibile e principale causa dei limiti e dei pregi propri ad ogni scuola.
I VOCALISTI
Definiamo vocalisti i cantanti classici che, per formazione tecnica, si appoggiano alle antiche regole elaborate in età barocca: quel complesso di regole che impropriamente chiamiamo “Belcanto”.
Per capire le particolarità di questa tecnica, occorre per prima cosa individuare gli obbiettivi che con essa i cantanti intendevano conseguire.
L’obbiettivo principale era l’esaltazione della potenzialità
strumentali del canto.
Il canto, come è noto, fonde due espressioni artistiche diverse (e virtualmente autonome): la parola e il suono.
Proprio per il culto della strumentalità canora (e sull'esempio del grande virtuosismo strumentale del 700) i cantanti barocchi fecero la loro scelta: il canto avrebbe anche potuto ridurre l'importanza della "parola", trascurarla persino, purché il suono ne fosse esaltato in maniera trascendentale, e con il suono anche le specificità "strumentali" della musica: in particolare il FRASEGGIO (inteso come gestione ritmico-dinamica della frase musicale) o il VIRTUOSISMO (capacità di produrre suoni eccezionali per estensione, ampiezza di arcata e velocità di esecuzione).
Fraseggio e virtuosismo erano proprio ciò su cui si esercitavano i grandi strumentisti... per cui la "parola" non era un problema.
Sempre per l'imitazione degli strumentisti (e con l'obbiettivo di conseguire effetti "ultra-umani", come era proprio in quell'estetica) i "belcantisti" avevano fra i loro obiettivi anche l'omogeneità del suono nei diversi registri (come un violoncello non deve far sentire il passaggio da una corda all'altra, così il cantante deve "mascherare" il passaggio da un registro all'altro) e la risonanza (come un violoncello dispone di una cassa lignea per amplificare gli armonici superiori di ogni suono e farlo così penetrare nello spazio di un teatro, così il cantante sfrutterà le cavità facciali).
Alla base di questa tecnica c'erano e ci sono ancora due principi tecnici di grandissima importanza: l’immascheramento del suono e la singolare gestione del fiato.
Partiamo da quest'ultima.
Per conseguire il cosiddetto "canto sul fiato", il vocalista addotta una particolare forma di respirazione (sulla quale circolano i nomi più strani, ma che possiamo chiamare, per intenderci, costale-diafframatica) che permetteva di governare l’intensità del flusso del suono.
E' una forma davvero straordinaria di gestione del fiato: la dinamica della frase musicale veniva così affidata al fiato, alla sua maggiore o minore intensità (e non, come avviene in quasi ogni altra forma di canto, classico e non, alle tensioni dei muscoli della gola).
Il termine di "canto in maschera" descrive invece la capacità di far risuonare gli armonici della voce in determinate cavità craniche (in particolare nei seni frontali e palatali).
I vocalisti non sono gli unici in grado di usare le cavità del corpo come risuonatori: lo fanno anche moltissimi cantanti pop; lo fanno anche i declamatori.
E' però inconfondibile la tecnica dei vocalisti (detta appunto "immascheramento") che non solo consente di aumentare il volume del suono e la sua capacità di propagazione in grandi spazi (chiusi), ma anche di omogeneizzarne il timbro e di nascondere le naturali diversità fra i registri vocali.
Per il repertorio barocco la tecnica "vocalistica" era quello che ci voleva; era inoltre perfetta per i particolari spazi acustici dell'epoca (i teatri lignei e ovali, che esaltano gli armonici) e per il tipo di supporto orchestrale allora richiesto.
Il suo grande limite (ma non ha senso parlare di limite in questo caso) era che le vocali - ossia i "colori" della voce - risultavano come omogeneizzati in un suono indistinto, rendendo molto difficile la valorizzazione e persino la comprensione della parola cantata.
Ma, ripeto, non si trattava affatto di un limite per le estetiche barocche, che sottoscrissero, come abbiamo detto, il predominio della musica sulla poesia, del suono sulla parola.
Persino la gestione del fiato (quel famoso "cantare sul fiato", quella famosa "respirazione" di cui i belcantisti andavano così fieri) nuoceva alla valorizzazione della singola parola - o della singola sillaba - pur di esaltare la melodia nel suo lineare dispiegarsi; la sillaba, nel canto belcantistico, veniva come diluita in un percorso senza soluzioni di continuità (mentre, come vedremo, la respirazione dei declamatori è propulsiva e pertanto discontinua: si concentra sulla pressione e quindi esaltazione di ogni sillaba a discapito della linea melodica).
Altro grande limite dei vocalisti era la scarsissima umanità che questo suono profondamente artefatto e manipolato poteva comunicare: ciò che il canto trae dall'espressione umana (sentimenti, paure, asprezze, sensualità, rabbia) veniva infatti ridimensionato e quasi smaterializzato in suoni troppo omogenei e irreali per comunicare profonde emozioni, le quali semmai erano affidate al mero linguaggio musicale (ritmico, armonico, melodico) col risultato che un'aria di furore, ad esempio, sarebbe risultata altrettanto "furiosa" se eseguita da un oboe.
Ma anche questo non sarebbe giusto considerarlo un limite: ogni tecnica canora va commisurata infatti agli obiettivi che intende perseguire; e l'estetica barocca, di cui il Belcanto era espressione diretta, non aveva fra i propri obbiettivi il realismo, né la comunicazione di sentimenti particolarmente espliciti.
C'è da chiedersi una scuola così particolare, così funzionale a un'estetica precisa (e con i limiti che abbiamo detto) sia potuta sopravvivere tanto a lungo, sostenendo i colpi del Romanticismo e mantenendosi (pur fra tante evoluzioni) fino ai giorni nostri.
Le risposte sono due: la prima è la più ovvia. Su un certo versante (quello appunto "musicale" legato alla valorizzazione del fraseggio e al virtuosismo) i risultati conseguiti dalla scuola belcantistica sono semplicemente sensazionali e vanno annoverati fra le opere dell'ingegno più alte della nostra civiltà.
Non esiste altra forma di canto che renda possibili tali e tante meraviglie.
Rinunciarvi è dura: anche quando il Barocco tramontava e le nuove estetiche ottocentesche reclamavano una "rivoluzione della parola", i compositori stentavano a prescindere dalle possibilità musicalmente sconfinate che il canto vocalistico permetteva.
E anche quando l'esplosione wagneriana (e il nuovo canto declamatorio che su essa si forgiò) inferse un colpo mortale alla tradizione vocalistica, la scuola rimase tuttavia attiva per tutto il '900; e lo è ancora.
I declamatori infatti, con le caratteristiche che poi evidenzieremo, potevano sbaragliare i "vecchi" vocalisti solo nelle nuove musiche, quelle scritte appositamente per loro (praticamente tutto ciò che fu composto dopo Wagner), ma non potevano far fronte alle specifiche difficoltà di tutto il repertorio antico, pensato espressamente per cantanti vocalisti e le cui difficoltà sono insormontabili per qualsiasi altro tipo di tecnica vocale.
Questo spiega anche perché (a oltre tre secoli di distanza) molte delle conquiste del Belcanto siano ancora insegnate e praticate ai nostri giorni; lo ripetiamo: la musica composta per gli antichi “belcantisti” è talmente ardua e "specifica" che nessun altro tipo di tecnica ne permetterebbe l’esecuzione.
Finché si eseguirà il repertorio "per vocalisti" il vocalismo non potrà tramontare: tutt'al più (come vediamo da una trentina d'anni) si contaminerà con altre scuole.
I DECLAMATORI
I primi colpi al vocalismo furono inferti (almeno in linea teorica) fin dai primi dell'800. Sulla scorta delle riflessioni romantiche, del nuovo peso che andava assumendo l'espressione del sentimento, delle prime riscoperte "nazionalistiche" delle arti popolari, il monocromatismo indecifrabile e astratto del Belcanto cominciò a essere avvertito come una prigione da cantanti, compositori e pubblico.
Ci vollero molti decenni perché ci si rendesse conto di poter fare a meno di una tecnica che comunque era praticata da secoli e che consentiva autentiche meraviglie. La conversione ai "prolegomena" del futuro declamato fu quindi un processo molto lungo e difficile da investigare (e tuttavia evidente, come dimostra l'evoluzione della scrittura verdiana dalle opere giovanili a quelle della maturità).
Fu però il successo planetario che arrise all’opera di Richard Wagner, le cui opere della maturità prescindono totalmente dalle possibilità del vocalismo e ambiscono al contrario a una nettissima preminenza della parola, a costringere ai cantanti classici a muovere i primi passi FUORI del tracciato vocalistico e ad esplorare differenti possibilità sonore.
Si andò così articolando (a partire dal 1870 circa) una nuova tecnica, che definiamo “declamatoria”.
Tale tecnica continuava a sfruttare le cavità craniche per amplificare i suoni, ma non più puntando – come i vocalisti – sull’omogeneità dei colori, bensì esasperando i contrasti vocalici e le rotture di registro In modo da valorizzare la sillaba sulla melodia).
Il canto in maschera (nell'accezione belcantistica) venne abolito perché ai declamatori non interessava più conferire un senso di omogeneità alla linea: la linea wagneriana infatti è franta e discontinua e altrettanto pretende dai suoi esecutori.
Proprio il concetto di "omogeneità timbrica" (alto obbiettivo per i vocalisti) divenne per i declamatori uno spauracchio da evitare a tutti i costi: mezz'ora di monologo wagneriano tutto "omogeneo" è una contraddizione in termini.
Il declamatore - non aprendo i suoni, ma proiettandoli diversamente - deve lavorare sull'autonomia di ogni sillaba, sulla sua singolare pregnanza, a costo di rinunciare a virtuosismo e brillantezza che, d'altronde, né Wagner, né i compositori a lui successivi (anche italiani, francesi, russi, cechi) non richiedevano più.
La stessa respirazione smarrì l'antico ruolo di mantice di dinamica (attraverso la belcantistica gradazione del fiato) per divenire strumento di propulsione o “affondo” delle singole sillabe.
L'impatto estetico e culturale del canto "declamatorio"fu violentissimo.
E non solo in Germania, ma in ogni paese: persino in Italia già ai primi del '900 (vedere Caruso o Ruffo) erano nati i primi emuli, tanto che molto del repertorio allora in voga (il cosiddetto verismo) si forgiò sulle loro caratteristiche.
In quegli anni i declamatori tentarono anche di impossessarsi dell'antico repertorio per "vocalisti" dove però incontrarono difficoltà insormontabili (a cui si tentò per anni di sopperire con riscritture delle parti, alterazioni di tonalità, taglio delle battute più scabrose, eliminazione di ogni sospetto di virtuosismo).
E tuttavia proprio l'insormontabile difficoltà del repertorio pensato per vocalisti ha permesso la sopravvivenza di questi ultimi in numero sufficiente per tenere in piedi una tradizione fortunatamente vitale anche ai giorni nostri.
Oggi, fortunatamente, è diventato più raro che vocalisti e declamatori combattano per la conquista del repertorio: gli ambiti sono stati ragionevolmente divisi e questo anche per merito (almeno in Italia) dello spesso citato Celletti, il cui più grande contributo è consistito proprio nel combattere per decenni affinché ai declamatori venisse sottratto il repertorio concepito sulle caratteristiche e sulle particolarità dei vocalisti.
Normalmente i vocalisti odierni esercitano la loro egemonia incontrastata sul repertorio pre-wagneriano, mentre i declamatori hanno il controllo di Wagner, Strauss e compositori coevi (Mussorgskij e Janacek ad esempio, ma anche molto del cosiddetto Verismo).
Solo nell’ultimo Verdi e in altre opere del secondo Ottocento è ancora praticata una compresenza delle due scuole
I COLORISTI
A partire dal secondo dopoguerra, un'altra rivoluzione ha scosso il mondo del canto classico.
Una nuova tecnica, con caratteristiche singolarissime, ha affiancato le due scuole storiche; la principale particolarità del nuovo canto (che chiamiamo "colorista") è quello di fondare molti dei suoi effetti sulla cosiddetta "apertura del suono".
Se c'è una cosa che vocalisti e declamatori avevano in comune era l'esigenza di farsi sentire in spazi acustici più o meno vasti.
Lo sfruttamento delle cavità facciali come "risuonatori" (sia pure condotto in modo completamente diverso) era dunque indispensabile agli uni come agli altri.
Staccandosi nettamente da entrambi, i primi “coloristi” cominciarono - negli anni '50 del '900 - a mettere in discussione l’idea stessa dell’amplificazione facciale del suono.
Cominciarono cioé a emettere alcune vocali "di gola", ossia liberandole dall’alone degli armonici e rivelandole, spogliandole fino alla loro essenza più "parlata".
Non più raccolti nella maschera, non più librati nello spazio sulle ali della risonanza, questi suoni perdevano quella morbidezza e quello squillo che da sempre si associa al canto classico; in compenso rivelarono - con autentica stupefazione del pubblico - i colori originari della voce umana.
Ma le sillabe erano risultate tanto espressive, tanto intelleggibili, tanto poetiche ed emozionanti; mai la carnalità di un suono, la sua verità umana si era rivelata con tanto fulgore.
Ovviamente il contrappasso era severo...
Persa la sua risonanza, il suono faticava a fendere gli spazi, diventava non solo più piccolo, ma soprattutto più sordo. La difficoltà di farsi "sentire" costringeva il colorista a sforzare lo strumento (lo spettacolare e miserevole crollo vocale di uno dei primi pionieri del canto "colorato" - Giuseppe di Stefano - insegna che il repertorio pesante dovrebbe essere precluso ai coloristi).
Omogeneità, morbidezza, squillo, potenza erano persi per sempre per chi osasse la scelta del colorismo.
Ma allora perché osarlo?
Cosa spinse molti degli artisti dell'epoca a muoversi su questo terreno fascinoso e impervio, che permette un'espressività infinitamente maggiore, compromettendo tutto il resto?
Le ragioni sono due.
La prima è la concorrenza del canto "non classico", in particolare jazz, rock e altra musica pop di matrice negro-americana.
La diaspora apertasi fra canto classico e canto non-classico, nel corso del '900, non era più confinabile in una gerarchizzazione estetica: canto di serie A e canto di serie B.
Il canto non classico aveva preso una strada imprevedibile, buttandosi tutte le tradizioni tecniche alle spalle, esplorando sonorità inaudite, nuovissime, stupefacenti (perfino ringhi, suoni spezzati, stimbrati, effetti growl) e naturalmente aprendo i suoni all'inverosimile, creando di fatto il "colorismo".
Di fronte allo sperimentalismo geniale e incontenibile del canto non-classico novecentesco, i cantanti classici (vocalisti o declamatori non importa) dovettero sentirsi dei dinosauri, incatenati a possibilità espressive infinitamente meno vaste.
Fu certo l'esempio (se non l'imitazione) del canto non classico a spingere pionieri come la De los Angeles, Fischer-Dieskau, Martha Moedl, la stessa seconda Callas ad avventurarsi, un po' alla volta, nell'incredibile mondo del canto "colorato".
La seconda ragione fu l'affermarsi, proprio in quegli anni, della fonografia (del 1925 è l'incisione elettrica, dell'immediato dopo guerra è il trionfo dell'LP).
Il microfono era infatti uno strumento traditore per il cantante classico (vocalista e declamatore): non permetteva infatti l'espansione nello spazio a un suono che nasce proprio per espandersi. Il colorista (con le sue aperture) è invece perfetto per il microfono. I suoni che produce si perdono negli spazi, ma si esaltano nel microfono
Dopo le fondamentali sperimentazioni degli anni ’50 (con risultati alterni e discussi nell’opera italiana e in quella tedesca, ma con successo indiscusso in Mozart e nella Liederistica), i coloristi hanno progressivamente conquistato diverse fette di repertorio, vincendo con la modernità del loro canto molte (più o meno fondate) reticenze da parte del pubblico.
Gli ambiti più congeniali ai coloristi "puri" restano quelli in cui non è richiesta una particolare potenza sonora (la musica da camera, il Seicento, il Novecento più sperimentale). Non di meno assistiamo al loro inarrestabile affermarsi anche in terreni che sembrerebbero preclusi alle loro delicate vocalità: ad esempio proprio il Barocco (che dovrebbe essere il regno dei più puri belcantisti) è oggi largamente dominato dai coloristi (specie nella variante “filologica” e contestatrice emersa negli anni ’70). Il loro canto ricco di sprezzature, seduzioni, contrasti è in sintonia con l'orientamento verso un'umanizzazione" di questa drammaturgia.
Ma dove meglio si può misurare l'enorme influenza dei coloristi è nelle contaminazioni con le scuole di canto storiche.
Ormai il colore è divenuto un'esigenza tanto per i vocalisti, quanto per i declamatori.
Specialiste del repertorio vocalistico come Cecilia Bartoli e Anna Caterina Antonacci si sono talmente convertite al colore che oggi è arduo definirle "vocaliste".
Ma ben prima di loro i grandi rossiniani della Renaissance (dalla Horne, a Ramey, Blake, Merritt, Kunde) avevano scoperto le stupefacenti possibilità del colorismo a contatto col repertorio pre-romantico. ù
Non sono da meno i più moderni declamatori (Terfel, Kaufmann), che - sull'esempio dei pionieri americani come Vickers e Thomass, hanno imparato a screziare il loro Wagner di sfumature cromatiche di suggestione semplicemente diabolica.
Non solo l'onnipresenza del colorismo fa apparire "antichi" quei cantanti che ancora praticano un vocalismo o un declamato puri, ma apre le porte a quella che sarà la maggiore conquista dell'Opera nei prossimi anni: l'inglobamento - in seno al proprio repertorio - del Musical classico, nel quale i coloristi (e non da oggi) eccellono.
Scusate la lunghezza e salutoni,
Matteo