Ancora e... sempre TURANDOT

opere, compositori, librettisti e il loro mondo

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Messaggioda MatMarazzi » gio 12 apr 2007, 12:44

Luca ha scritto:La simbologia del nemero 3 va oltre in quest'opera ed è generalmente di portata universale (pensiamo alla Commedia di Dante).


Non necessariamente!
Se il numero 3 è così insistito in Turandot ci sarà una ragione che non sia semplicemente quella che il numero "ha portata universale".
Proviamo a riflettere a quali sono i contesti in cui - nella Turandot - ricorre il numero tre e quindi a sintetizzarne un significato.

Ma devo dire che mi sono dirvertito molto (non fraintendetemi, non è una critica) a leggere i vostri tentativi di dare una spiegazione "storica" e narrativa alle parole del monologo di Turandot. :)
I risultati sono davvero buffi.

Luca ha scritto:Quanto al ricordo dell'ava uccisa ci sarà stata anche una tradizione orale che, magari, sotto forma di racconto privato degli aspetti più cruenti sarà arrivato alle orecchie di Turandot.


Luca ha scritto:se l'ava è trascinata via nella notte atroce come si fa poi a dire che da secoli il corpo riposa nella sua tomba enorme ? Come ha fatto un popolo vinto a recuperare la salma, a custodirla e a costruirgli un mausoleo dopo aver recuperato la patria ?


pbagnoli ha scritto:Anch'io mi sono chiesto spesso come faccia ciascuno a ricordarsi un tempo risalente a mille e mille anni fa.
Ma soprattutto mi chiedo come faccia una ragazzotta quindicenne o giù di lì a farsi invasare dallo spirito di un'ava dolce e serena così lontana nel tempo, e come mai decida di vendicarne lo stupro.


IL mausoleo... la tradizione orale... la ragazzotta quindicenne invasata...
Tutto questo non sta in piedi, ne conveniamo.
I vostri sforzi sono stati generosi e i ragionamente sottili, ma è evidente che in questo modo non si arriva da nessuna parte.

Luca suggerisce che il povero Puccini sia morto prima che l'opera avesse un senso (ipotesi che io escluderei totalmente, perché il travaglio è stato comunque lunghissimo e perché - a parte il finale - Turandot era già bella che finita molti mesi prima della morte del Compositore)
Oppure, sempre come dice Luca, poiché Turandot è una fiaba non dovremmo fissarci molto sulle incongruenze.
Ma io non credo nemmeno a questo: se tu facessi una fiaba, Luca, non scriveresti delle assurdità, perché tanto è una fiaba.
Ci sarebbe comunque un pensiero, un percorso, una logica, una simbologia. Non sarebbe tutto a caso.
E questo vale anche per Adami e Simoni, i quali non saranno stati dei geni, ma nemmeno dei cretini.
Se scrivono "mille anni e mille" oppure "il tempo che ciascun ricorda" ci sarà una ragione.
Se usano il numero tre in determinati contesti e il numero uno in altri ci sarà una ragione.

Il punto è proprio questo: non dobbiamo deporre le armi dicendo "sono tutte sciocchezze"; ma non dobbiamo nemmeno prendere i concetti alla lettera (inventandoci mausolei, ragazzotte quindicenni, traumi infantili e tradizioni orali); dobbiamo capire, invece, che di simboli si tratta.
Simboli da decifrare.

Per ora non riesco ad aggiungere altro, ma mi riservo di dirvi - se vi interessa - quali simboli leggo nel monologo di Turandot e come ho tentato di interpretarli.
Nel frattempo, sarei felicissimo se qualcuno avesse qualcosa da aggiungere in merito.

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Messaggioda MagdaO » mer 18 apr 2007, 23:13

Salve a tutti.
Turandot è una fiaba e come tutte le fiabe è crudele e spietata ma VERA. E Turandot è il filo che porta al verismo, a Mascagni.
La crudezza delle immagini di Cavalleria ben si sposa alla crudezza delle immagini poste in Turandot, almeno questo è quello che io amo pensare.
Da un punti di vista interpretativo non vedo perchè no la Ricciarelli che riesce a coniugare la dolcezza della interpretazione con la sensualità e la crudeltà del personaggio.
Saluti!
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Messaggioda MatMarazzi » gio 12 lug 2007, 23:07

Scusate se riapro questo vecchissimo thread ma poiché siamo arrivati a parlare (grazie a Minnie) di eroine pucciniane, mi piacerebbe che tornassimo a discutere di quella più strana ed eslege: Turandot.

Qualcuno ha qualcosa da dire?
Fabrizio ad esempio? :)

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Messaggioda fadecas » sab 14 lug 2007, 1:24

Accolgo, sia pure con un po’ di imbarazzo, l’invito cortese di Matteo a stendere qualche pensiero su Turandot., anche se trovo molto arduo dire qualcosa sull’opera più tormentata di Puccini, che è anche su quella che più di ogni altra è stata setacciata da un surplus di esegesi critiche le più sofisticate e talvolta intellettualisticamente arrovellate, lo riprova la ricchezza di stimoli di varia cultura che sono emersi da questa stessa, pur non lunga, discussione.
Il carattere astratto, il procedere ad emblemi favolistici, legittima certamente questa complessità di stratificazioni. Per paradosso, trovo più interessante cercare di scavare nei nuclei di verità sottili che si nascondono sotto la scorza falsamente naturalistica e talora bozzettistica che costituisce la facciata di tutto il teatro pucciniano precedente – solo apparentemente più “semplice”- che non districarmi nella complessità di quello che non si finge diverso da quel che è, cioè inestricabile.
Faccio mio, inoltre, il disagio per il senso di effettiva incompiutezza, non solo di realizzazione, ma anche di concezione, che percepisco aleggiare in Turandot, nella sua sospesa e inconclusa parabola che sembra anticipare una svolta decisiva che invece non c’è , s’interrompe a mezza strada, e nessuno sa se ci sarebbe stata effettivamente e in quale modo, con la conseguenza di lasciare la partita terribilmente aperta a tutte le soluzioni possibili.
Questo per far capire che non è l’opera di Puccini che amo di più, anche se ammiro lo sforzo di realizzare un discorso drammaturgico molto diverso da quello precedente, e sicuramente debitore di altre realizzazioni contemporanee.

Innegabile che “Donna senz’ombra “ costituisca un precedente imprescindibile di Turandot, sembra quasi precostituirne e plasmarne lo schema e finanche il linguaggio, e soprattutto il dualismo di fondo dei due risvolti della femminilità su cui l’opera si struttura, ossia lo scontro tra la freddezza egoistica della donna “astrale” e la concretezza della donna “terrestre” che accetta il carico della propria ombra , e quindi elabora attraverso un percorso di maturazione la propria “natura” nei risvolti di coniugalità e di procreazione.

Anche la drammaturgia pucciniana in Turandot si fonda sulla scissione del femminile in due “figure” – direi “personae” proprio nel senso paradigmatico dei sei personaggi pirandelliani, ad es. - che procedono in parallelo, e sono l’una l’alter ego rispetto all’altra.
Da un lato, Turandot, ossia la voce della sfida contro la legge dell’eros, l’estremo e accanito rifiuto dell’impulso amoroso e delle conseguenti asimmetrie nelle relazioni di potere fra i sessi, che nasce dalla fobia e dalla nevrosi, ossia da una disperata coazione infantilistica contro il principio di maturazione e di realtà – che nella mentalità borghese di Puccini non può non identificarsi nell’imprint primario dell’eros, nell’accettazione della sua legge apparentemente atemporale che essa sola sembra definire gli orizzonti della civiltà esistente ed esistibile (e questi spunti sono già emersi ampiamente negli accenni di chi mi ha preceduto al radicarsi, a cavallo dei primi decenni del ‘900, di una sensibilità in senso lato freudiana a concepire sotto specie sessuale il disagio della civiltà.)
Dall’altro lato, Liù, ossia la voce che di quel principio di naturalità si erge a paladina e ne agisce la parabola apparentemente immutabile, ovvero una storia di rinuncia, sottomissione e immolazione (il paradigma della femminilità che accetta sé stessa, però condannandosi alla sconfitta rispetto al potere maschile).
Entrambe percorrono con coerenza strade a fondo cieco, dividendosi equamente il proprio carico di pulsioni saodmasochistiche , dato che la crudeltà non è solo di chi decapita le teste per ripetere perenne mente il gesto della castrazione, ma anche di chi proietta in forma vittimistica e ricattatoria la propria frustrazione di donna condannata ad amare inappagata senza essere riamata. .

A differenza di quanti avviene per Strauss che, nell’opera gemella, alla fine riesce a ricompone in modo conciliativo la dicotomia fra le due versioni del femminile, muovendosi nel solco di una cultura in cui si è stratificata la capacità di elaborare in forma simbolica e astratta certi risvolti che attingono dalla psiche del profondo, Puccini, più inquieto nella sua nevrosi , e incapace di trovare negli orizzonti della forma mentis nazionale in cui è radicato un puntello attraverso cui elaborare un tentativo di sublimazione, secondo me, alla fine, non sa che pesci pigliare.

La prima delle due facce della femminilità appare la più destabilizzante e anarchica, e senz’altro la più ardita e linguisticamente nuova, anche se sono persuaso che parecchi embrioni della sfida e della ribellione di Turandot si trovino già in altre creature pucciniane, ad es. nel gioco di competitività e di paura insieme a confrontarsi con la propria specificità femminile con cui Minnie si tiene in guardia dall’universo maschile che la circonda ostinandosi a mantenersi “sorella” in mezzo ai minatori, oppure nei fremiti inappagati con cui Giorgetta (“è ben altro io mio sogno!”) anela a dare un calcio a tutta la catena di menzogne di cui è intrisa la sua vita sentimentale (coniugale ed extraconiugale) per realizzare un proprio sogno di autonomia esistenziale , o ancora nel sottrarsi improvviso di Magda al più ovvio approdo di una storia sentimentale che potrebbe essere coronata anche dai crismi più rassicuranti.
La seconda, ovvero Liù, è invece l’epitome che condensa e sintetizza la faccia più tipica di quanto Puccini abbia rappresentato della donna soprattutto nella prima metà della sua produzione.

In mezzo, ci dovrebbe essere una polarità maschile concentrata su Calaf , che invece è a mio avviso il vero elemento debole di Turandot, troppo morbido per essere mediatore attivo e convincente di un conflitto di una tale portata, incapace di configurarsi come eroe o anche semplicemente come partner attivo ed equilibrato di una qualsivoglia coppia, pago soltanto dell’inerzia del suo vagheggiamento estetizzante e frigido della bellezza di Turandot – altra differenza rispetto a Donna senz’ombra, nella quale la dialettica tra i due poli conosce una sua evoluzione ed una maturazione interna proprio perché è giocata sul confronto fra due coppie paritetiche, e non fra due fantasmi solitari di una stessa identità femminile mai comunque appaiata ad una propria metà.

Laddove trovo gustosissimo ed inedito l’altro versante maschile di quest’opera di cui curiosamente nessuno ancora ha parlato negli interventi precedenti, quello parodico e sarcastico delle tre maschere, che nel loro cinismo grottesco e misoginiaco, corroso come da una sorta di “buonsenso” piccolo borghese stravolto e deformato in chiave livida e funerea, sono forse gli elementi in cui l’uomo Puccini, in questa fase di ripiegamento e di difficoltà di scelta, finisce con l’identificarsi veramente, e a cui affida una sorta di crepuscolare dissacrazione sia dell’ostinata algidità della principessa che della coazione al sacrificio di Liù.

Il gioco al massacro, dunque, rimane sospeso nel contrappunto fra l’una e l’altra metà del femminile, e non accenna ad una soluzione che non sia comunque negativa.

Molta è la mia incertezza sugli orizzonti interpretativi di Turandot, specie volendo indicare dei modelli a cui guardare per l'oggi. Per quanto riguarda la principessa, accolgo pienamente il suo essere “altra” - lei soltanto - rispetto a tutta la storia della vocalità pucciniana; tutta ascensionale e perentoria, nessuna concessione neanche apparente all’ammiccamento del cantabile. Mi associo nel riconoscere nella Sutherland, proprio per la sua estraneità ad ogni gusto pucciniano, l’esempio storicamente più riuscito di una Turandot tutta chiusa nella fissità altera della propria corazza di negazione e di frigidità, ma vorrei un’interprete che rendesse con maggiore fragilità nevrotica l’ostinazione indomita di chi si nega.
Comunque, deve essere una creatura astrale e intellettualistica, senza alcuna seduttività né preziosismi di timbro e di colori, quindi ben venga una straussiana di gusto moderno, agra e tagliente (non me la sento però di fare dei nomi).
Liù, invece, deve rappresentare non una figura eroica, ma il lato più carnale e vibratile di quanto si è ascoltato in Manon, in Bohème, in Butterfly. Nulla di angelicato, ma una creatura di risentita emotività terrestre e sensuale, una forza di natura fiera della sua dedizione cieca fino all’autoimmolazione. Qui il ricatto emotivo può essere giocato, ovviamente con le carte giuste.e quindi mi sono andate bene alcune grandi del passato (Scotto, Chiara, Freni), e al presente mi pare più che accettabile la vibrazione sensuale ma affilata di una Cristina Gallardo.

… E qui mi fermo, convinto di non aver detto nulla di nuovo, ma sperando almeno di avere almeno gettato qualche spunto per rilanciare il dibattito ad altri livelli di approfondimento che mi attendo da Matteo e dagli altri interlocutori.

Saluti a tutti, Fabrizio
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Messaggioda Luca » sab 14 lug 2007, 12:09

Comunque, deve essere una creatura astrale e intellettualistica, senza alcuna seduttività né preziosismi di timbro e di colori, quindi ben venga una straussiana di gusto moderno, agra e tagliente (non me la sento però di fare dei nomi).
=============================================
Mah, caro Fabrizio, io proverei a citare J. Baird che ha cantato tanto Minnie quanto Turandot, oltre a Giorgetta (e lo Strauss e Wagner che le sono propri).

Un caro saluto.
Luca.
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Messaggioda MatMarazzi » gio 19 lug 2007, 15:35

fadecas ha scritto: Innegabile che “Donna senz’ombra “ costituisca un precedente imprescindibile di Turandot


Io credo solo in parte al rapporto fra Turandot e Frau ohne Schatten.
Trovo più rispondente il rapporto con Salome, sul duplice aspetto della struttura drammatico-narrativa e del semplice simbolismo.
L'uso della simbologia numerica (l'uno contrapposto al sette, il tre come terreno della mediazione maschile-femminile) e cromatica (il rosso contrapposto al bianco, il sole del giorno contro la luce avvolta di oscurità della luna) è assolutamente identico.
Non mi stupisce.
E' vero che Puccini ascoltò la Donna senz'Ombra (senza, come pare, apprezzarla particolarmente) ma molto di più e meglio doveva conoscere Salome, dal momento che si trattava di opera ormai di grande repertorio anche in Italia e ampiamente divulgata in traduzione italiana.

In particolare, ben oltre il tema della "maternità", è quello della virginità distruttiva che impregna Turandot, esattamente come aveva impregnato Salome.
La verginità come immagine (tutta maschile) della negazione della vita e come rivolta estrema della donna e conseguentemente minaccia di sovvertimento a tutto l'ordine naturale e civile.

La donna contro l'uomo è la stasi contro il divenire (ossia la notte contro il giorno, tanto in Turandot come in Salome, che condividono la durata del plot nel corso di una notte).
Tutto è espresso con tale chiarezza e semplcità nella Turandot di Puccini (e dei suoi librettisti) che non riesco proprio, come voi, a invocare sensazioni di incompiutezza che, in tutta sincerità, non ravviso.

Entrambe percorrono con coerenza strade a fondo cieco


A me pare che la strada di Liù a fondo cieco non sia.
E' la strada che alla fine, col sacrificio del "proprio" sangue, imporrà anche a Turandot di seguire.
L'accettazione della sottomissione (che non è solo accettazione, ma gioiosa accettazione: eccolo il mistero dell'eros) è la strada che anche Turandot alla fine percorrerà.
Il mondo è salvo, la notte finisce, il sole trionfa sulla luna.
E questo avviene perché la luna non solo è schiava del giorno, ma anzi desidera, reclama questa schiavitù, ne è felice.
Essere schiava è "amare".
Condivisibile o meno, questa lettura è angosciosa.
E soprattutto ben poco "piccolo borghese", nel senso che normalmente si dà a questa espressione.

A differenza di quanti avviene per Strauss che, nell’opera gemella, alla fine riesce a ricompone in modo conciliativo la dicotomia fra le due versioni del femminile, muovendosi nel solco di una cultura in cui si è stratificata la capacità di elaborare in forma simbolica e astratta certi risvolti che attingono dalla psiche del profondo, Puccini, più inquieto nella sua nevrosi , e incapace di trovare negli orizzonti della forma mentis nazionale in cui è radicato un puntello attraverso cui elaborare un tentativo di sublimazione, secondo me, alla fine, non sa che pesci pigliare.


Secodo me Puccini alla fine prende pesci grandi come una casa, ed erano proprio i pesci che, insieme ai suoi librettisti, si era prefisso di pigliare.
Turandot mi pare l'opera più compiuta ed organica di tutta la sua carriera.
Francamente ritengo che questa differenza di giudizio si spieghi proprio col voler vedere in Frau ohne Schatten l'opera gemella di Turandot.
In questa chiave però temo che si fraintenda il disegno dell'ultimo capolavoro di Puccini.

Il finale di Turandot a me pare perfettamente coerente, esattamente come il finale di Salome.
Tutto diventa chiaro nell'oscuramento di quella luna che rappresenta la minaccia della verginità.
Il sangue che scorre, il rosso che intacca il cereo pallore lunare, equivale alla ricomposizione del mondo e dei suoi equilibri.
E, ovviamente, la distruzione di colei che aveva rifiutato l'assiomatica (ed ancestrale) equivalenza: amore è schiavitù, sottomissione, felicità di essere "preda".

La seconda, ovvero Liù, è invece l’epitome che condensa e sintetizza la faccia più tipica di quanto Puccini abbia rappresentato della donna soprattutto nella prima metà della sua produzione.


Scusami, ma anche su questo non sono d'accordo.
Liù è a mio parere lontanissima dalla precedente produzione pucciniana.
Le altre eroine (almeno così mi pare) traggono la loro complessità da una precisa e volonterosa indagine psicologica, mentre Liù (esattamente come Turandot e come Salome) non è personaggio psicologicamente elaborato, quanto semplice megafono di un principio para-filosofico.
Non riesco proprio a vedere Tosca o Minnie sottoscrivere - come espressione d'amore - la masochistica umiliazione individuale, la sofferenza anche fisica della sottomissione "felice".
Le interpreti tradizionali (proprio la Scotto, la Freni, ecc...) per quel bisogno di "sentimentalizzare" Liù come se fosse una cugina di Mimì, falliscono l'obbiettivo.
Liù dovrebbe essere, proprio come Turandot, un'astrazione più argomentativa che psicologicamente atteggiata, come dire... ultra-umana.
Se i due personaggi non si incontrassero... mi verrebbe voglia di affidarli alla stessa voce, proprio come spesso avviene con Venus ed Elisabeth.

Laddove trovo gustosissimo ed inedito l’altro versante maschile di quest’opera di cui curiosamente nessuno ancora ha parlato negli interventi precedenti


Be' condivido moltissimo questa osservazione, tanto che ti faccio notare che io di Ping, Pong, Pang ho parlato eccome. Addirittura usando epigraficamente una loro frase a conclusione di un post.
Certo... Calaf è uno, mentre loro sono tre.
E questo non a caso: il tre (in Turandot come in Salome) è il numero del compromesso; il terreno dove i due universi in lotta (quello maschile e quello femminile si incontrano).
Ping, Pong e Pang sono i politici del compromesso: vedono come stanno le cose ma non hanno la forza di opporvisi; servono il dominio di Turandot pur invocando la sua disfatta.

Un salutone e grazie, come sempre, dei bellissimi spunti.
Matteo[/quote]
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Messaggioda fadecas » gio 19 lug 2007, 20:52

MatMarazzi ha scritto:Liù è a mio parere lontanissima dalla precedente produzione pucciniana.
Le altre eroine (almeno così mi pare) traggono la loro complessità da una precisa e volonterosa indagine psicologica, mentre Liù (esattamente come Turandot e come Salome) non è personaggio psicologicamente elaborato, quanto semplice megafono di un principio para-filosofico.
Non riesco proprio a vedere Tosca o Minnie sottoscrivere - come espressione d'amore - la masochistica umiliazione individuale, la sofferenza anche fisica della sottomissione "felice".


Forse non mi sono espresso bene nell’intervento precedente.
Che Liù sia figura astratta ed emblematica sono perfettamente d’accordo, ma la quintessenza del suo essere personaggio è proprio nella proiezione in chiave di paradigma della stessa parabola che le altre protagoniste pucciniane hanno tracciato incarnandola in una narrazione incardinata in una sequenza spazio-temporale naturalistica.
E faccio osservare che quella “masochistica umiliazione individuale” che Liù elegge consapevole a proprio destino contrapponendola alla negazione di Turandot le altre consorelle l’hanno di fatto incarnata, rappresentata e vissuta atto per atto “in corpore vili” sotto gli occhi degli spettatori, nella “naturalità” della loro storia, ossia nel loro essere punite nell’eros come agente di malattia, perturbamento, sconfitta.
La sottomissione “felice” non è tale in apparenza in Tosca e in Minnie, ma lo è certo nella sostanza della loro vicenda, negli snodi della loro traiettoria di personaggi femminili innamorati e in quanto tali destinati alla sofferenza ed alla morte (chi ha vissuto per amore, per amore si morì …., e magari, nel caso di Minnie, si muore semplicemente allontanandosi per sempre). Facendo serpeggiare nei loro spettatori quegli stessi brividi sadomasochistici che Turandot e Liù si palleggiano nel loro scontro, che rimane ad esito dubbio, in quanto la morte del compositore ha lasciato in sospeso quale svolta linguistica avrebbe dovuto siglare il voltafaccia di Turandot, o meglio la sua ipotetica sconfitta o rovesciamento nel punto di vista dell’”altra”.

Con l'aggiunta che, mentre nel congegno drammaturgicamente quasi sempre perfetto delle opere precedenti il messaggio pucciniano sembra colpire infallibilmente il suo bersaglio, in questo sforzo di astrazione e di pluristratificazione simbolica, anche e soprattutto dal punto di vista del linguaggio musicale, il compositore sembra, a mio avviso, prendere a poco a poco – a suo modo molto novecentescamente – la via del distanziamento e dell’estraneazione da entrambe le polarità, da cui il risalto dell’insolito controcanto grottesco e parodistico delle maschere, intuizione veramente vicinissima a quella di musicisti di un’altra generazione, come Malipiero nell’Orfeide e nel Torneo notturno.

E’ in questa sospensione di giudizio, che è anche una scelta di stile musicale, oltre che nell’oggettivamente mancata conclusione musicale, che risiede secondo me la natura “incompiuta” del messaggio di Turandot - il che, si badi bene, non è per me affatto una connotazione negativa - Per questo non mi convince del tutto la lettura, sia pure molto coerente nella sua accuratezza, in chiave di apologia sacrificale che Matteo ha elaborato.

Ringrazio in ogni caso per il riscontro e le controproposte sempre stimolanti ed arricchenti.
Saluti, Fabrizio
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Messaggioda Luca » mer 10 ott 2007, 19:39

Riprendo qui questo vecchio thread da me iniziato su quest'opera di Puccini. Mi stavo ri-ascoltando l'edizione con il finale di Berio: ma quanto è brutto e soprattutto quanto è anti-vitale, per non dire pessimistico ! Mi chiedo è necessario ancora plaudire ad iniziative come questa ed eventualmente bruciare incensi oppure riprendere l'antico finale di Alfano oltretutto non affetto da certa deteriore ideologia ?

Saluti, Luca.
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Messaggioda MatMarazzi » mer 10 ott 2007, 20:20

Luca ha scritto:Riprendo qui questo vecchio thread da me iniziato su quest'opera di Puccini. Mi stavo ri-ascoltando l'edizione con il finale di Berio: ma quanto è brutto e soprattutto quanto è anti-vitale, per non dire pessimistico ! Mi chiedo è necessario ancora plaudire ad iniziative come questa ed eventualmente bruciare incensi oppure riprendere l'antico finale di Alfano oltretutto non affetto da certa deteriore ideologia ?
.


Io sono assolutamente (ma proprio assolutamente) d'accordo con te.
Berio ha fatto anche delle belle cose (per lo meno a mio gusto), ma il finale di Turandot non è fra queste.
E' stata un'operazione gratuita che mi auguro nessun teatro riprenda.

Quello che auspico invece è che il magnifico finale di Alfano venga sempre eseguito senza i tagli inflittigli da Toscanini: è tutto un'altra cosa.

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Messaggioda teo.emme » mer 10 ott 2007, 21:00

Sono anch'io d'accordo sul vostro giudizio in merito a Berio e al suo sciagurato finale di Turandot. Davvero non trovo abbia un senso incensare certe operazioni. Molto fastidiosa è poi la solita, trita, premessa ideologica su cui si basa l'operazione! A parte questo poi, lo trovo molto brutto, inefficacie e, soprattutto, inutile: il finale di Turandot è quello di Alfano, inutile rifarlo, con la presunzione di far meglio, tagliando molte parti del libretto poi in nome di una presunta lettura ideologica del testo... Mah...

Ps: sul finale di Alfano, credo di non aver mai ascoltato quello integrale, ma solo la versione approvata da Toscanini. Qualcuno sa indicarmi qualche incisione in cui è presentata la versione originale?
Ultima modifica di teo.emme il mer 10 ott 2007, 21:04, modificato 1 volta in totale.
teo.emme
 

Messaggioda pbagnoli » mer 10 ott 2007, 21:02

teo.emme ha scritto: Ps: sul finale di Alfano, credo di non aver mai ascoltato quello integrale, ma solo la versione approvata da Toscanini. Qualcuno sa indicarmi qualche incisione in cui è presentata la versione originale?

Accidenti!
Io l'ho ascoltato, e anche abbastanza recentemente, ma non ricordo dove.
Dovrebbe essere reperibile con relativa facilità.
Dai, spremete tutti le meningi! :D
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Messaggioda Luca » mer 10 ott 2007, 22:00

Pietro, esiste un CD in cui esso viene eseguito dalla Barstow e da Bartolini sotto la direzione, se non vado errato, di J. Mauceri. Non ricordo però la casa discografica.
A me il finale di Alfano integrale piace moltissimo, ma accidenti per chi lo deve cantare !!! Quanto è acuto per i due solisti !

Saluti, Luca
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Messaggioda MatMarazzi » mer 10 ott 2007, 22:18

Luca ha scritto:Non ricordo però la casa discografica.


E' la DECCA. E quello è uno dei dischi più straordinari di quella straordinaria artista che è la Barstow.
E' dedicato a grandi finali d'opera. C'è il finale della Salome, dell'affare Makropulos, questo finale (finalmente vero) della Turandot e persino il finale della Medée di Cherubini, nell'originale francese.

...Pensa Pietro che mi pare che qualche tempo fa tu avessi messo il brano on line, nella sezione audio.

Matteo

PS: hai ragione Luca! E' un duo difficlissimo e impestato... sai, in teoria alla Scala sarebbero dovuti esserci la Jeritza e Lauri Volpi :)
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Messaggioda Luca » mer 10 ott 2007, 23:05

PS: hai ragione Luca! E' un duo difficilissimo e impestato... sai, in teoria alla Scala sarebbero dovuti esserci la Jeritza e Lauri Volpi
==========================================
Scusa, ma sapevo di avere ragione :lol: e dirò che Toscanini si oppose alla loro presenza. Ad ogni modo, Turandot resta la mia opera preferita e davvero non si comprende che Nilsson e Corelli, ma soprattutto Sutherland e Pavarotti dell'edizione DECCA - avendo quel grande direttore che è Mehta - non ci abbiano pensato. A ciò si aggiunga che anni orsono, in una trasmissione radiofonica, la stessa Sutherland dichiarò che quella sua incisione di Turandot non "le è risultata troppo difficile per le sue possibilità". Se fosse venuto in mente a Karajan con quella protagonista che aveva..... :twisted: Ma questa è un'altra faccenda....
Tornando alla Barstow anche a me piace: ricordo di un suo Macbeth con Paskalis e diretto da Pritchard.

Salutoni, Luca.
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Messaggioda MatMarazzi » gio 11 ott 2007, 18:11

Luca ha scritto: Toscanini si oppose alla loro presenza.


Alla fine, se dobbiamo fare un bilancio onesto, quel Toscanini ha fatto più danno alla Turandot che onore! :)
Comunque...

non si comprende che Nilsson e Corelli, ma soprattutto Sutherland e Pavarotti dell'edizione DECCA - avendo quel grande direttore che è Mehta - non ci abbiano pensato.


Soprattutto mi sorprende Mehta: la Sutherland sarebbe stata favolosa in quel finale tutto acuti e ripiegamenti eterei.
Ma anche la Nilsson non avrebbe scherzato! :)

Tornando alla Barstow anche a me piace: ricordo di un suo Macbeth con Paskalis e diretto da Pritchard.


Io sinceramente non stravedo per quel Macbeth.
Però, se vuoi sentire una Bastow divina, puoi ascoltare la sua Gloriana di Britten.
Tempo fa abbiamo confrontato in associazione la preghiera del primo atto fatta dalla Barstow e quella incisa dalla Leontyne Price.
La povera Price usciva con tutte le ossa rotte.

...Pensa che la prima americana di Gloriana la fece proprio la Borkh!

Salutoni
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