Francesca da Rimini (Zandonai)

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Messaggioda MatMarazzi » sab 20 ott 2007, 10:52

Luca ha scritto:Beh, a mio avviso, una interessante Francesca sarebbe potuta essere la Crespin. Se non altro una visione più vicina alla Gencer che non alla Olivero. .


INTUIZIONE GENIALE!
Bravo Luca!
La giovane Crespin aveva proprio quella purezza peccaminosa, quella sensualità aristocratica ma consapevole che la parte richiede.
Inoltre il suo canto era proprio lineare e sontuoso.

Complimenti! :)
Mat
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Messaggioda fadecas » sab 20 ott 2007, 11:24

Le osservazioni di Matteo hanno toccato uno snodo interessantissimo di tutta l’interpretazione vocale del repertorio di primo ‘900 a cavallo tra scuola italiana e scuola tedesca, ed alla millimetrica precisione analitica della sua disamina sono in grado replicare ben poco, se non con qualche notazione a margine e qualche mera ipotesi controfattuale, ossia
- è probabilmente vero che le grandi interpreti straussiane avrebbero fatto difficoltà ad affermarsi come modelli veramente di riferimento in quel filone di repertorio paradannunziano in cui si colloca Francesca da Rimini. Così come, tutto sommato, hanno stentato a dire la loro anche nel filone pucciniano, dove pure la frase franta e disarticolata, specie nel secondo Puccini, ha maggiori affinità con la scrittura vocale di Strauss, laddove la prosodia dannunziana richiede una rotondità e una compattezza di emissione, oltre che una capacità di giocare sulle articolazioni del declamato e le astuzie del rubato, per le quali la padronanza dell’italiano da un lato e quella particolare natura “strumentale” del canto all’italiana costituiscono prerequisiti forse imprescindibili. Tra parentesi, leggendo quanto Matteo ha scritto, ho capito forse per la prima volta a fondo perché un’interprete wagneriano-straussiana dei nostri decenni che io ammiro ed amo molto, ossia Hildegard Behrens, mi deluda tanto quando si accosta al canto pucciniano (Tosca) …
- Osservo, però, che nella storia dell’interpretazione, talvolta, l’accostare repertori di impronta e di tradizione lontana da quella di provenienza, anche con criteri stilisticamente non pertinentissimi, mette in moto degli spunti di provocazione, evidenzia affinità sotterranee, esalta la circolarità trasversale delle esperienze musicali al di là delle barriere classificatorie di scuole nazionali, di geografia, di lingua … E questo vale soprattutto per i compositori come Zandonai tendenzialmente eclettici, sviluppatisi in aree di confine, anche in termini culturali, e particolarmente ricettivi di fronte ad ascendenze diverse da quelle della tradizione italiana, ancorché non sussunte con il marchio e lo spessore di una personalità inconfondibilmente propria.
- In questa osservazione io personalmente includo anche le suggestioni che possono provenire da una versione ritmica in lingua diversa da quella originale. Ne abbiamo parlato recentemente a proposito dell’interessantissima edizione della Rondine anni ’50 in tedesco Welitsch/Dermota, che pur nella sua poca ortodossia rivela dei germi latenti dell’opera che a tante edizioni italiane più consone alla tradizione sfuggono, e non vedo perché qualcosa d simile non avrebbe potuto, o non potrebbe ancora, riproporsi per Zandonai o altri.
- E’ vero che la “linearità di stampo quasi belcantistico” che Matteo cita quale requisito di una “grande”Francesca sia un addendo importante nella riuscita complessiva della caratterizzazione. Però, come entrambi concordiamo, non ne è il solo. Occorre anche esaltare e vivacizzare sia l’elemento “parola” sia la gamma dei colori. Quello che, puntualmente, non sono riuscite a fare tante Francesche di gusto italiano di ieri (e penso alla citata Ligabue) e di oggi (e ripropongo per esperienza la Dessì), nella loro edulcorazione uniforme e senza nerbo. Un antidoto di “straussismo”, pur sbilanciando l’equilibrio dell’interpretazione in direzione opposta, avrebbe apportato uno stimolo più risentito che non avrebbe sfigurato affatto, e non sfigurerebbe neppure oggi, in una fase in cui le interpreti a cui vengono raramente assegnati questi ruoli sono, come la Dessì, derivate da un filone di matrice tebaldiana che mi sembra debole e carente per le esigenze precipue di questo linguaggio.


MatMarazzi ha scritto:
E tu, Fabrizio, che giustamente affermi che la Gencer si è spesa poco su questo terreno, quali altri ruoli le avresti suggerito?
In quali altre opere di questa estetica pensi che la Gencer avrebbe rinnovato il miracolo (anzi il mistero) di questa Francesca?

Salutoni,
Matteo


Quanto ai “sogni non realizzati” su interpretazioni genceriane del repertorio a cavallo fra giovane scuola e generazione degli ’80, e premesso che la mancanza di grandi e continuativi modelli di riferimento ha costretto certi titoli ad affidare la loro sopravvivenza stentata ad occasioni, più o meno riuscite, ma affidate sempre ad un criterio di sporadicità irripetibile (la Fedra della Crespin ne è un esempio), penso anzitutto alle consorelle di Francesca in clima di dannunzianesimo stretto, ossia appunto Fedra di Pizzetti e Parisina di Mascagni, a cui aggiungerei volentieri anche Isabeau; ma anche a Silvana della Fiamma, che mi sembra una filiazione stretta del modello zandonaiano, e che poche volte ha trovato, negli ultimi cinquant’anni, una protagonista veramente adeguata – io almeno ne salvo una sola, e strettamente discografica, ossia Ilona Tokody.

E citerei, inoltre, visto che Matteo ha giustamente sottolineato i meriti della Gencer in Falena, le altre due protagoniste femminili dei titoli di Smareglia affidati alla scrittura di Silvio Benco, e quindi pienamente partecipi di un gusto tardosimbolista e ispirato al “Vate”, sia pure con tutti i distinguo del caso, ossia Oceana e – soprattutto – Abisso, figure entrambe caratterizzate da quel misto di languore e fierezza un po’ forastica che la Gencer infonde magnificamente a Francesca. Per inciso, ricordo che la prima Gisca di Abisso fu proprio Claudia Muzio …

Ma ipotizzare che la Gencer avesse potuto compiere nel repertorio del primo ‘900 italiano un’operazione di studio e di riscoperta analoga a quella che effettivamente fece in Donizetti dando vita ad un filone che poi non si è mai più fermato significa sognare che altre opere rimaste veramente sepolte dall’oblio e svanite dalla percezione esperienziale di generazioni intere di ascoltatori avrebbero potuto trovare la loro “voce” giusta. I nomi non li posso fare proprio per mancanza di riferimenti.

Su un compositore soltanto mi soffermo di più, perché credo che la congruenza di mezzi e di stile con la Gencer avrebbe potuto essere piena, ossia Pizzetti.
Confesso che, per pigrizia, non mi sono mai spinto ad ascoltare lo Straniero della Gencer, ma che intendo farlo prossimamente (Opershare aiuta anche in questo caso!). Ipotizzo, però, che una Debora e Jaele avente a coprotagonista la Gencer sarebbe stata assai più interessante della sola edizione discografica che io conosca, e che è affidata a quella che negli anni ’50 e ’60 fu, credo, l’unica cantante italiana capace di compiere con continuità una saldatura tra il filone verista e quello postverista, ossia la purtroppo ultradimenticata Clara Petrella, artista sicuramente dotata di “temperamento” drammaticissimo oltre che di teatralità, però un po’troppo stentoreamente unidimensionale, negata proprio a quelle gradazioni della dinamica vocale che Matteo ha giustamente esaltato nel filone Gencer/Olivero/Kabaivanska …
Fabrizio
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Messaggioda Luca » sab 20 ott 2007, 17:49

INTUIZIONE GENIALE!
Bravo Luca!
=====================
"Non merto tanti elogi". Ci sono arrivato per associazione d'idee pensando a Tosca e alla raffigurazione che ne ha dato la Crespin. Poi voglio dire qualcosa sull'intervento di Fabrizio: molto interessante e profondo. Però ... c'è sempre un però... Insomma Clara Petrella non la esalterei così tanto... Avrebbe offerto una Francesca piuttosto 'caniglieggiante' soprattutto se si tiene conto di certi moduli (a mio avviso eccessivi) che sapeva introdurre in personaggi come Giorgetta, Iris, e le altre creaturelle di poco nobile lignaggio. Francesca (e Zandonai che è dietro) è altro..... ecco perché è possibile pensare alla Crespin (una Francesca, magari vista attraverso la straussiana Marescialla) e, per altro verso, Pobbe....

Salutoni, Luca.
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Messaggioda fadecas » sab 20 ott 2007, 20:20

Luca ha scritto:Insomma Clara Petrella non la esalterei così tanto... Avrebbe offerto una Francesca piuttosto 'caniglieggiante' soprattutto se si tiene conto di certi moduli (a mio avviso eccessivi) che sapeva introdurre in personaggi come Giorgetta, Iris, e le altre creaturelle di poco nobile lignaggio. Francesca (e Zandonai che è dietro) è altro..... ecco perché è possibile pensare alla Crespin (una Francesca, magari vista attraverso la straussiana Marescialla) e, per altro verso, Pobbe....

Salutoni, Luca.


Per Luca: guarda che sui limiti di Clara Petrella siamo d'accordo, hai riformulato in parole forse più chiare delle mie la stessa riserva che avevo espresso su una certa stentoreità di gusto e tendenza alla forzatura. L'ho menzionata non certo per proporla come ipotetica Francesca di riferimento, ma in relazione al'assiduità della sue interpretazioni pizzettiane, visto che il discorso si era parzialmente dirottato su altri possibili "ponti" tra Zandonai e altri musicisti della generazione immediatmente successiva.

Sono scettico, invece, sulla Pobbe, pur non avendola mai ascoltata in Francesca; pur con solide doti vocali, condivideva appieno, a mio avviso, i limiti dei "lirici" italiani anni '50, a partire dalla genericità interpretativa, e in Francesca non l'avrei vista proprio.

Saluti a tutti, Fabrizio
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Messaggioda MatMarazzi » sab 20 ott 2007, 23:27

fadecas ha scritto:penso anzitutto alle consorelle di Francesca in clima di dannunzianesimo stretto, ossia appunto Fedra di Pizzetti e Parisina di Mascagni, a cui aggiungerei volentieri anche Isabeau; ma anche a Silvana della Fiamma, che mi sembra una filiazione stretta del modello zandonaiano


Caro Fabrizio,
intanto complimenti per le idee tutte interessantissime.
ci ho riflettuto a lungo e ti riporto le mie impressioni.

Mi riconosco assolutamente nell'idea di una Gencer come Jaèle, che forse le sarebbe pesata un po' vocalmente ma in cui tutte le sue migliori qualità drammtiche e musicali sarebbero emerse.

Concordo anche su Parisina (per quanto, D'Annunzio a parte, la scrittura mascagnana potrebbe apparire un po' troppo bruta ed esplicita per il fraseggio genceriano).

Per tornare a Zandonai, mi avrebbe incuriosito sentirla nel Giulietta e Romeo (ovviamente penso a una Gencer giovanissima).
(A proposito, tu sai nulla di un'opera di Zandonai che si chiama "Menelis"? Dovrebbe averla creata la Muzio, ma io non so nemmeno di cosa tratta.)

Al contrario penso che non mi spingerei a sottoscrivere (nonostante i tuoi argomenti siano validissimi) il rischio di una Fedra, di una Isabeau, di una Gisca e di una Silvana.
Ovviamente non parlo di questioni stilistiche e vocali (in questo, hai ragione, la Gencer sarebbe stata indicata).
Parlo della natura teatrale e psicologica di questi personaggi, che non vedo proprio ideale per le caratteristiche espressive della nostra artista.

A questo proposito ti sottopongo alcune mie riflessioni, senza alcuna pretesa che ti risutino convincenti.

Era davvero "forte" la Gencer?
Ossia riusciva davvero convincente in personaggi intimamente grandiosi e distruttivi, esplosivi come vulcani?
Io non lo credo.

Sì, è vero: sapeva comunicare un senso di forza spettacolare nelle reazioni, quando si issava sui troni e da lì lanciava invettive o quando, avvolta nei suoi pepli, malediceva consorti, eserciti o popoli.
Ma non era una forza interiore del personaggio, reale, come la musica che sgorga da Elektra: quella della Gencer era una forza "sociale", di apparenze, di doppiezze, di fierezza (appunto) di reazioni.
E questo vale (secondo me) anche per Lady Macbeth, che infatti è strepitosa proprio per l'incoerenza, il corto circuito fra la spietatezza (esibita e autoimpostasi) e la progressiva caduta nell'ombra, nel fallimento di quel sonnambulismo dal tono smarrito, dalle rabbrividenti dolcezze.

Secondo me, nessuna come la Gencer aveva tanto bisogno di piedistalli autorevoli per fingere i suoi sdegni e per maneggiare le sue sfumatissime contraddizioni. Per questo ritengo che i suoi maggiori personaggi fossero più autorevoli che forti, più contraddittori che tragici, magari multistratificati, alteri e intellettuali, dalle complessità non trasparenti e non confortanti e talora nemmeno confessabili.

Tutto questo però (se fosse vero) escluderebbe dal suo orizzonte eroine come Silvana e Gisca (a proposito, sicuro che l'abbia creata la Muzio? Non era la Poli Randaccio?).
La verità ruvida, la purezza giovane, l'autentica veemenza di Silvana credo debbano reclamare personalità davvero sincere ed esplosive, come una colata di lava, più che un'intellettualistica e destabilizzante regina della sofisticazione. Così come non ci vedo proprio la Gencer a scaraventare nel vuoto la sorella e a dar di matto sul cadavere dell'amato.

Oltretutto, la propensione ai grandi infingimenti, faceva sì che la Gencer riuscisse maldestra con i personaggi di bassa estrazione: persino la sua Gioconda ha l'incedere maestoso (e incongruo) di una duchessa veneziana..
L'unico personaggio borghese in cui mi pare credibile è la Charlotte triestina che tu citavi: chi più di Charlotte si nasconde dietro la sua maschera? Niente di simile nella sua Lisa della Dama di Picche, alla quale (per bene che canti) non si crede nemmeno un attimo.

Secondo me, proprio questa propensione della Gencer verso i ruoli aristocratici e ambigui, fatti - come diceva la Cella - di "implorazioni e invettive" l'ha condotta a prediligere epoche storiche che (nel nostro immaginario) ci appaiono più inclini alla doppiezza, al complotto, alla crisi di valori morali.
Se ci fai caso, tutti i suoi ruoli maggiori (da Lady Macbeth a Lida della Battaglia di Legnano, da Maria Stuarda ad Amelia Grimaldi, da Jerusalem a Roberto Devereux, da Trovatore all'Angelo di Fuoco, fino a questa Beatrice di Tenda) sono collocati tra il medioevo e il rinascimento.

Non mi pare sia riuscita altrettanto bene a rendere l'universo classico.
O per lo meno non a mio gusto.
Il classicismo mi pare troppo netto e penetrante per lei: affonda, è vero, negli abissi dell'anima ma senza sotterfugi o scappatoie. Anche l'orrore è ricomposto in serie euritmiche e proporzioni geometiche.

La sua Medea è per me un fallimento macroscopico, ma non ho alcuna simpatia nemmeno per Alceste e Giulia, Elettra (Idomeneo) e Saffo.
E poi sinceramente vogliamo paragonare (a parità di bravura) l'evidenza della Gencer come feudataria cornuta che confida le proprie umiliazioni alla statua del marito morto e tradito (Beatrice di Tenda) piuttosto che come sacerdotessa druidica (norma)?

Gli unici ruoli classici in cui la Gencer mi è piaciuta sono Ottavia della Poppea e Antonina del Belisario, ma... in fondo parliamo di una classicità molto particolare.
L'Impero putrescente dei Giulio-Claudi, tra sbandamenti morali e fumi di perversione, dove Ottavia recita, impaludata, i suoi monologhi come da un piedistallo... Perfetto per la Gencer!
E anche Belisario è "classico" per modo di dire: Costantinopoli è una corte di mollezze orientali e lei è la solita cortigiana superba, orditrice di complotti, dalle reazioni furenti ma attentamente sorvegliate negli effetti.

Come possiamo fidarci di lei in Fedra? :)
Non pensi che ci sarebbero volute icone "classicistiche" ben più autentiche(come la Callas o la Borkh, o come certamente fu la Kruscelnizcka)?

Attendo opinioni e non so come ringraziarti per questo dibattito.
Matteo
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Messaggioda dottorcajus » dom 21 ott 2007, 0:53

Controllato Gisca fu la Poli Randaccio mentre la Muzio fu Maria.
Roberto
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Messaggioda fadecas » lun 22 ott 2007, 0:25

Caro Matteo,
apprezzo la disamina sottilissima sulle caratteristiche interpretative della Gencer, e probabilmente hai ragione al cento per cento o quasi, dal tuo punto di vista, che è quello della ricerca analitica di una congruenza nativa fra ruolo e psicologia dell’interprete.
Ciononostante, il tuo discorso sposta ma non smentisce le mie considerazioni sui ruoli postveristi e novecenteschi in cui la Gencer avrebbe potuto lasciare il segno, considerazioni che partivano da una premessa diversa, compendiata nella tua ammissione

MatMarazzi ha scritto:[.)

Ovviamente non parlo di questioni stilistiche e vocali (in questo, hai ragione, la Gencer sarebbe stata indicata).
...
Matteo


Questa, che nella capillarità dei tuoi distinguo sembra diventare quasi una concessione di secondaria importanza, per me invece è un’argomentazione necessaria e sufficiente.
Rimango fondamentalmente, se non convinto, per lo meno fiducioso, dato che si tratta di ipotesi che purtroppo non possono essere né confermate né smentite dai fatti (inesistenti), che la Gencer avesse tutti i requisiti per rendere adeguatamente le peculiarità stilistiche di quel repertorio.
Avanzare questa ipotesi non equivale a dire, però, che sarebbe stata un’interprete ugualmente eccelsa di tutti quei ruoli, attinenti a psicologie femminili abbastanza diversificate. Questo, però, consentimi, è un particolare quasi secondario, in un panorama, come quello appunto dell’intepretazione postverista, che brilla da più di un cinquantennio per la sporadicità delle presenze veramente di rilievo.

Di quei ruoli la Gencer possedeva il peso e la gamma di colori vocali appropriati, ma soprattutto, vuoi per elezione vuoi per raffinata conquista, un tratto fondamentale, ossia quel senso ornato ed aulico , ma insieme sofferto, della parola risolta attraverso l’affondo timbrico, che sono, al di là delle diversità delle scritture, una peculiarità che accomuna Francesca di Zandonai, un certo – sottolineo – Mascagni sul crinale di aree a lui originariamente estranee, lo Smareglia benchiano, fino ad estendersi a Pizzetti, a Respighi, e ipotizzo ad altri operisti di quella generazione nata all’insegna dell’estetismo e della ricerca eclettica di orizzonti nuovi alla svolta del secolo, di cui purtroppo non ho esperienza diretta di ascolto. Il complesso di queste doti, al di là della elettività e congenialità psicologica, non mi pare poca cosa.

In quale altra interprete storica del pieno ‘900 individuare un’alternativa altrettanto valida? A scartare alcune ipotesi, escludo la Olivero, che non avrebbe potuto vantare, se non nel periodo centrale della sua carriera, da un lato quell’arcata sonora così piena, quella densità così ombrata, dall’altro quell’austerità espressiva che la avrebbe messa definitivamente al riparo da ogni “scoria verista” (come si suol dire…), passo necessario per la decantazione di eroine che nascevano, in buona parte, da un intendimento programmaticamente (più che nei risultati) “antiverista” .

Ipotizzare che la Callas avrebbe potuto dire una sua parola in questo campo è certo legittimo, però non suffragato, mi pare, dal minimo supporto. Il repertorio callasiano si ferma cronologicamente molto prima.
Sul possibile connubio con la scuola tedesca ci siamo già confrontati, e il nome della Crespin fatto da Luca, e che trova un riscontro di rilievo nella Fedra scaligera del 1959 è un’idea certo suggestiva, che non so quanto potrebbe estendersi a tutto quel filone – a prescindere dal fattore della padronanza del canto sulla parola, sulla cui importanza nel caso specifico ti sei già espresso in termini molto convincenti.

Se poniamo ipoteche troppo raffinate sulle credenziali di una cantante come la Gencer, alla luce appunto di quell’edizione della Francesca da cui il discorso ha preso le mosse, temo poi che dovremo inesorabilmente accontentarci e prendere come oro colato le poche e deboli tracce documentarie che la discografia, vuoi live vuoi in studio, ci ha tramandato in questi ruoli, e che sono troppo complessivamente sbiadite e insoddisfacenti per cogliere in mezzo a d essi l’impronta di una presenza storica duratura (sul Pizzetti di Clara Petrella mi sono già espresso, e per altri ruoli non saprei proprio a quale testimonianza di rilievo fare appello … a meno che non vogliamo accontentarci della volonterosa Parisina di Denia Mazzola o, peggio, della Isabeau della Strow Piccolo …

Qui, però, confesso volentieri i miei limiti, e faccio appello con speranza a qualcuno che possa smentirmi e citarmi dei casi interessanti che mi sfuggono (magari oggetto di un thread a parte, visto che stiamo travalicando la sola Francesca da cui siamo partiti?).

Un piccolo distinguo soltanto per quanto riguarda uno dei personaggi che hai sottoposto alla cartina al tornasole della Gencer, ossia Silvana della Fiamma.
Non concordo pienamente sulla definizione psicologica che ne hai dato come di una lava in eruzione, nel senso che, prima e più che l’esplosione liberatoria del finale, in cui la donna finalmente si affranca da un giogo fino a quel momento subito come ripiego, affermando per la prima volta con fierezza la sua forza, di lei mi colpisce soprattutto l’ambiguità iniziale, l’amara e decadente stanchezza con cui contempla lo sfiorire delle sue speranze giovanili, come nel primo monologo del I atto o nella frase a mezza voce scambiata nel primo incontro con Donello dopo la rievocazione del passato condiviso (Ora son vecchia; or sei mio figlio…”).
Questo ritratto di donna tutta avvolta e ripiegata sulle proprie contraddizioni, risolto in un eloquio atteggiato a paludata e grandiosa tristezza, riluce di una suggestione molto, ma molto “genceriana” (proprio alla luce delle tue indovinate considerazioni).

Come pure, a proposito dell’approccio non proprio autentico della Gencer all’universo della classicità, faccio presente che Fedra di D’Annunzio/Pizzetti è prima di tutto un’icona decadente, e quindi avvolta di manierismi che con la tradizione raciniana hanno relativamente poco da spartire.

Mi scuso, infine, per l’imprecisione in cui sono incorso nel mio ultimo messaggio. Come già rettificato, la prima scaligera del 14 di Abisso vide nel ruolo di Gisca la Poli Randaccio, mentre Claudia Muzio rivestì il ruolo, più lirico che drammatico, di Mariela.

Sperando che qualcuno avanzi qualche altra proposta in merito, saluti a tutti
Fabrizio
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Messaggioda MatMarazzi » mer 24 ott 2007, 11:41

fadecas ha scritto:
MatMarazzi ha scritto:Ovviamente non parlo di questioni stilistiche e vocali (in questo, hai ragione, la Gencer sarebbe stata indicata)


Questa, che nella capillarità dei tuoi distinguo sembra diventare quasi una concessione di secondaria importanza, per me invece è un’argomentazione necessaria e sufficiente.


Capisco bene la tua posizione.
Hai ragione: trattandosi di un settore dove (a livello di storia interpretativa) è in gioco qualcosa di grave, ossia la perdita di un linguaggio specifico, capisco che le questioni interpretative possano anche apparire di secondaria importanza.
Ma qui, temo, entra in ballo il nostro personale tipo di approccio a un'interpretazione e il piacere che ne traiamo: per me la costruzione di un personaggio vero e a tutto tondo è prioritaria.
Il disporre di una tecnica e di uno stile che (quali che siano) sappiano valorizzare la scrittura musicale è elemento necessario, ma non sufficiente perché io mi diverta.
Il fatto stesso di non divertirmi con la Violetta della Sutherland o con la Leonora della Caballé (ma nemmeno con il Rigoletto della Gencer) dimostra come per me il fatto di dominare un linguaggio e uno stile non sia purtroppo sufficiente.

In questo senso devo ribadire che vedere la Gencer alle prese con giovani donne forti e sensuali, di umile estrazione o, al contrario, di antropologiche lacerazioni (come Fedra e Medea) non mi sarebbe interessato.
Detto questo, quello che dici è molto interessante, specialmente per quanto riguarda l'analisi di Silvana, convincentissima e nella quale (da questo punto di vista) sarebbe stato possibilissimo - come tu dici - rintracciare le caratteristiche anche drammatiche e poetiche della Gencer dei primi anni '60.

In quale altra interprete storica del pieno ‘900 individuare un’alternativa altrettanto valida? A scartare alcune ipotesi, escludo la Olivero, che non avrebbe potuto vantare, se non nel periodo centrale della sua carriera, da un lato quell’arcata sonora così piena, quella densità così ombrata, dall’altro quell’austerità espressiva che la avrebbe messa definitivamente al riparo da ogni “scoria verista”


Qui concordo pienamente.
Con l'aggiunta che la Olivero aveva a sua volta caratteristiche molto singolari che potevano essere sfruttate altrove.
Ad esempio l'esasperazione persino manierista della dinamica, con gusto per nulla "moderno" anzi archeologico (al modo della Pandolfini e della Cervi Caroli) si contrapponeva alla ruvidezza verista, all'istintività del "far grande" e persino all'aggressività scomposta, rabbiosa, di certi slanci terrificanti.
Questo contrasto fra gusto verista e alessandrinismo di fraseggio creava un particolarissimo corto circuito, per lo meno per gli ascoltatori degli anni 50, che la rendeva in certi ruoli assolutamente sorprendente.
Quindi concordo: più che Francesca e altre eroine dannunziane, sarebbe forse stato meglio insistere su personaggi come Mere Marie (che io cito sempre come capolavoro Oliveriano) o Medium di Menotti e magari (perché tecnicamente non le avrebbe fatto alcuna paura, lei leggendaria Violetta) una Lucrezia Borgia di Donizetti, una Herodiade di Massenet e persino (a parte il registro grave sicuramente fragile) una Fides del profeta...
Ogni tanto mi perdo a sognare quel fraseggio caleidoscopico e di gusto persino vetusto, da vecchia signora in ritardo sui tempi, nei sussurri di "oh, mon fils", quella capacità di dar conto dell'ambiguità del personaggio, oscillante fra grandezza e popolanità, che invece sfuggì completamente alla Horne.
Scusa la digressione "oliveriana", ma trovavo troppo condivisibili le tue osservazioni.

Ipotizzare che la Callas avrebbe potuto dire una sua parola in questo campo è certo legittimo, però non suffragato, mi pare, dal minimo supporto.


Questo invece, secondo me, non è del tutto vero.
Se si ascolta attentamente il Parsifal della Callas si nota proprio quel tipo di fraseggio screziato eppure appoggiato sulla parola che stiamo invocando per questi personaggi.
Non è un canto "wagneriano" al modo delle declamatrici, bensì ancora affidato all'omogeneità dei colori, all'evidenza della parola e alla varietà agogica, proprio quel "wagner" all'italiana che era stato regolarmente praticato dalla Kruscelnizcka, prima Fedra, o dalla Tess, prima Jaele, o dalla Cobelli, prima Silvana.
E poi (per me, scusa se insisto, è importante) la Callas aveva la grandezza e la naturalezza, l'istintività possente senza filtri manieristici, che la predisponevano ai maggiori personaggi della tragedia classica, monoliti antropologici prima ancora che personaggi, grandi "moai" che ci fissano da millenni di distanza, anche se filtrati dal gusto di compositori a noi più vicini.

Sul possibile connubio con la scuola tedesca ci siamo già confrontati, e il nome della Crespin fatto da Luca, e che trova un riscontro di rilievo nella Fedra scaligera del 1959 è un’idea certo suggestiva, che non so quanto potrebbe estendersi a tutto quel filone – a prescindere dal fattore della padronanza del canto sulla parola, sulla cui importanza nel caso specifico ti sei già espresso in termini molto convincenti.


La Crespin non era una declamatrice alla tedesca.
All'epoca colpiva proprio per la sua diversità.
Era anzitutto un cultrice del suono e una fraseggiatrice addirittura edonistica: a parte le stridenze del registro acuto, dominava la frase musicale e le sue gradazioni di fraseggio con un'abilità non inferiore alla Gencer; quanto alla "parola" la assaporava con una voluttà assolutamente sconvolgente.
Ti consiglio di sentirla (e vederla) nello Spettro della Rosa di Berlioz per renderti conto di che razza di Francesca sarebbe stata.
http://www.youtube.com/watch?v=GfrpnrApA6c
Ma anche l'incanto dei suoi fraseggi in Fedra sono già un'efficiente riprova.

Quanto alla Borkh (che per me sarebbe stata a conti fatti la più interessante pizzettiana degli anni 50 e 60) anche lei offre un riscontro di rilievo nel successo (in italia e in italiano) della sua Silvana della Fiamma.
Purtroppo non ci restano tracce audio (almeno per ora) mentre si può intuire la notevole predisposizione del suo canto e della sua personalità in brani in qualche modo ...accostabili.

La sua Turandot, ad esempio, può anche non piacere a chi pensa che il personaggio sia solo una macchina per acuti...
e tuttavia vive di allusioni sonore, colori misterici, densità mitologica di legato, ombreggiature epiche che avrebbero potuto ben adattarsi (secondo me) alla particolare declamazione di Pizzetti o all'ampiezza di Smareglia.
Ma ancora più significativo secondo me è la sua Tove nei Gurrelieder di Schoenberg, dove il fluire melodico si esalta e si sostanzia nella sontuosità seduttiva (grandiosa e femminile) della cantante.

Non sarebbe stata un Francesca a livello delle Gencer, ne sono certo anche io, ma una Fedra di Pizzetti, una Jaele, una Mila... lì credo sarebbe stata fantastica.
Anche in questo caso mi permetterei un esempio da Youtube.
Il Macbeth di Bloch (che la Borkh ha cantato persino al San Carlo di Napoli in francese) presenta caratteristiche musicali assai prossime alla declamazione aulico-melodica di Pizzetti, con quell'ondeggiare modale e quel fluire avvolgente dell'orchestra.
Il sonambulismo di questa superba prestazione della Borkh ci può aiutare a immaginarla in Fedra.
Tra l'altro vi si coglie quel che, senza riuscirci, avevo tentato di comunicare quando parlavo di grandezza vera.
Tutto nel suo sguardo, nel suo canto, nel suo gestire evoca una vera forza interiore, una nobiltà di slanci, che mai, secondo me, la Gencer (ironica, intellettuale, artefatta, maestra di inganni... :)) avrebbe potuto rendere.

Prova a vedere questo spezzone, Fabrizio, e immaginarti una Fedra o la famosa Silvana fatta dalla Borkh.

Salutoni
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