Le mie impressioni si riferiscono alla Prima di ieri, domenica 3 aprile.
Fin dalla mattinata, con la proiezione del film di Alessandro Blasetti, si percepiva intorno al Teatro un’atmosfera assai particolare, quell’aria che si respira quando qualcosa viene riportato alla luce o quando qualcosa di nuovo e atteso finalmente arriva.
Poche persone in coda per il tradizionale “loggione”, parecchi posti vuoti nei palchi, platea abbastanza piena e, come solito, gallerie molto affollate attendono l’apertura del sipario. Lo spettacolo si rappresenta con un lungo e inappropriato intervallo dopo i primi due atti.
Vediamo subito un palazzo, stile Litte Italy inizio Novecento che sarà poi il soffocante scenario di tutto lo spettacolo; un palazzo su tre piani, servito da una scala e ambienti di servizio: al piano centrale abbiamo il ristorante in cui il boss Tornaquinci imbandisce la cena riappacificatoria; al piano superiore abbiamo le stanze in cui si svolge il dramma intorno a Ginevra; nella cantina sotterranea abbiamo la prigione di Neri. Un marchingegno perfetto che viene ideato da Margherita Palli per assecondare la regia di Mario Martone: come descritto nel programma di sala, ma facilmente intuibile, il regista napoletano sposta la vicenza dalla Firenze medicea alle battaglie tra clan degli immigrati italiani a New York. Il gioco direi che funziona abbastanza, grazie appunto alle scenografie e ai bei costumi di Ursula Patzak. È una regia funzionale, anche molto attenta alle didascalie del libretto e alle dovute trasformazioni: la roncola diviene una mazza da baseball, la lucerna diviene una popolare lampada in stile liberty, la cena è a base di succulenti spaghetti rossi. Purtroppo però Martone commette due errori: 1) spreca il finale: mentre Neri delira invocando Lisetta, quest’ultima entra nel ristorante e fa una completa strage. Neri uccide quasi per sbaglio Ginevra e quindi gli unici superstiti rimangono Neri e Lisetta. Il finale di Giordano è molto rarefatto, etereo; nella visione di Martone cambia completamente senso. 2) personalmente trovo questa regia di Martone molto “dejà-vu”, ha lo stesso schema di fondo dell’Oberto visto alla Scala nel 2013; nulla da dire in generale ma mi pare continui semplicemente a ripetere se stesso senza cercare altre strade.
Passiamo al lato musicale. La direzione di Carlo Rizzi non ha sicuramente infiammato la partitura di Giordano, alcune volte ha dosato troppi decibel coprendo del tutto le voci. Altri momenti invece sono stati piuttosto buoni, soprattutto l’intermezzo che apre il terzo atto e alcune oasi liriche del secondo atto. L’orchestra ha suonato benino, meglio di altre prove nel repertorio italiano ma decisamente non raggiunge i vertici toccati con le due opere verdiane della stagione corrente. Per quanto riguarda le voci abbiamo avuto due prestazioni buone e due abbastanza da dimenticare. Ottima la prova di Nicola Alaimo che conferma ancora le doti di attore e eccellente cantante anche in titoli drammatici. Completamente centrata la sua prova musicale, mai fuori le righe, mai grezzo anche se il suo personaggio potrebbe indurlo ad esserlo. Un fraseggio molto elegante accompagnato da una recitazione esemplare. Jessica Nuccio è stata Lisabetta, una gran bella sorpresa! Stupenda voce da soprano lirico, ha domato Neri alla grande e giustamente ha avuto un meritato applausi del pubblico. Chi ha tradito la attese son stati Marco Berti e Kristin Lewis. Nell’impervio ruolo di Giannetto, il tenore comasco è mancato di incisività nei vari estremi che la partitura richiede: vuoto e afono in basso; slegato in alto. Kristin Lewis ha dato ancora una volta prova di avere una voce abbastanza insolita: a tratti a volume torrenziale, altre volte priva di mezzi; la bellezza del mezzo è discreta ma non sempre accompagnata da una tecnica e una dizione perfetta. Buono il resto del cast, tra cui vi è da segnalare il ruolo cammeo di Bruno de Simone nel ruolo del dottore e la prova sempre in crescita di Chiara Isotton quale Cintia (era già stata molto buona nel ruolo della Pisana nei recenti “Due Foscari”).
Applausi incondizionati a tutto il cast, con punte di preferenza per Alaimo, Nuccio; ovazione per Rizzi e Martone.
Uno spettacolo che sicuramente merita di essere visto più per il ruolo di riscoperta storica che ha che per le qualità dello stesso. Probabilmente era di maggior auspicio essa venisse operata con mezzi più adeguati tali da giustificare una riproposizione in un teatro importante quale La Scala. Ha però il pregevole compito di inserirsi in una politica dei teatri musicali italiani di quest’anno di riscoprire alcuni titoli del repertorio italiano del primo Novecento (“La campana sommersa” a Cagliari; “La leggenda di Sakuntala” a Catania). Bisognerà attendere per vedere gli esiti futuri.