da teo.emme » ven 09 ott 2015, 18:48
Colgo volentieri l'invito di Pietro a scrivere qualcosa sui quartetti per archi di Beethoven. Mi scuso anticipatamente per l'incompletezza e l'inevitabile genericità in una materia che ha prodotto una ricchissima riflessione musicologica e che merita, senz'altro, cure più specialistiche. Parlo da semplice appassionato.
Innanzitutto conviene distinguere le tre fasi dell'approccio beethoveniano al genere:
1) L'Opus 18 (1798-1800), costituita dai primi sei quartetti: si inserisce pienamente in un genere che a Vienna (dopo Mozart e Haydn) era giunto al suo massimo splendore sia nella forma che nel contenuto. Il quartetto viennese si distinse nettamente dalla scuola "occidentale" (dalla Madrid di Boccherini all'Italia del nord sino alla scuola francese) votata al lato più effimero e spettacolare del quartetto, visto come momento di esibizione virtuosistica nella sua forma di piacevolezza cortese e concertante e governato da rigidi formalismi uniti alla semplicità di scrittura, che si sostituivano alla sostanza dei contenuti (spesso superficiali o di puro intrattenimento). Quello che si sviluppa nella scuola austriaca è, invece, un quartetto in cui il contenuto musicale predomina sulla mera struttura, laddove la costruzione delle armonie si elabora in un virtuosismo che è concettuale e non solo esecutivo. Un genere, dunque, di estrema profondità musicale (Haydn, per esempio, rifiutava ogni cedimento alla piacevolezza ludica, mentre il genio di Mozart innestò nella complessità strutturale anche lo spazio di una leggerezza ripensata e intellettualizzata) che tendeva ad esprimere nelle dimensioni più minimali e astratte - due violini, una viola e un violoncello - il massimo valore musicale. I primi sei quartetti beethoveniani giungono dunque in questa situazione di compiutezza stilistica, ad un passo dallo stallo del manierismo, e si inseriscono nel tentativo di trovare una sintesi tra Mozart e Haydn;
2) L'Opus 59 (1805-1806) con i suoi tre quartetti "Rasumovsky" dal nome del committente (l'ambasciatore russo a Vienna); l'Opus 74 (1809) e l'Opus 95 (1810): costituiscono i cinque quartetti "centrali". I primi tre riflettono l'esperienza della produzione sinfonica (nello stesso periodo Beethoven compose la Terza, la Quarta, la Quinta e la Sesta sinfonia, oltre agli ultimi concerti per pianoforte e a quello per violino) e traducono nella struttura cameristica tutta la potenza dei contrasti e delle dinamiche delle sue grandi creazioni orchestrali. Gli altri due si pongono come in una fase di stallo, di pausa, di raccoglimento di idee, di recupero di simmetrie (un po' come l'Ottava sinfonia);
3) L'Opus 127, l'Opus 130, l'Opus 131, l'Opus 132, l'Opus 133 "Grande Fuga" e l'Opus 135, composti tra il 1825 e il 1826, costituiscono la summa del pensiero musicale beethoveniano (insieme alle Variazioni Diabelli, alle ultime Bagatelle). Qui Beethoven - ormai isolato dal mondo - reinventa un linguaggio smisurato nel porsi aldilà della sua epoca per uno sperimentalismo radicale nella forma (dilatata e libera) e nella sostanza. Musica che guarda al '900, ma che recupera - in aperta polemica col suo tempo - la polifonia di Bach e di Haendel (il suo compositore prediletto) in un salto temporale che non è né antico né moderno, ma oltre il tempo. Per questo la critica più formalistica e scolastica rimase e rimane ancora spiazzata di fronte a questi capolavori estremi e non inquadrabili nella sicurezze delle forme e nelle regole che si trovano nei manuali (in particolare la "Grande Fuga", ritenuta da molti un mostro). L'ultimo quartetto, l'Opus 135, che è anche l'ultimo lavoro di Beethoven di una certa compiutezza, è un beffardo ritorno al '700 (esattamente come la sua Ottava sinfonia): un '700 ripensato e trasfigurato, lo straniamento da un mondo con cui non può e non vuole comunicare, un rifugio intellettuale nel potere assoluto e metafisico della musica.
In un certo senso i quartetti sono la summa del pensiero e della parabola musicale beethoveniana. Così inattuale rispetto all'800 romantico e così unici.
Di edizioni ce ne sono tante...ma mi occorre pensarci su un po' di più, prima di dare qualche consiglio: che è difficile, estremamente difficile. Così su due piedi direi che è importante l'integrale (per il fatto che occorre in una parabola così personale e intima una lettura unitaria e fondata su un approccio ideale unico e che si sviluppi con l'evoluzione del pensiero beethoveniano). Qualche nome? Certamente l'Alban Berg, il Quartetto Italiano e il Quartetto Budapest.
Matteo Mantica
"Fuor del mar ho un mare in seno"