da fadecas » sab 06 ott 2007, 13:45
Incomincio con un flash autobiografico, pur con tutto il beneficio di inventario dovuto alla “rivoluzione copernicana” nel modo di accostarsi all’opera intervenuto nel trascorrere di tanti decenni …
La Scotto, alla metà dei ’60, fu la mia prima Lucia dal vivo. E qui devo confermare in pieno le riserve espresse sul talento scenico della cantante. Probabilmente allineata agli stilemi della maggior parte delle sue colleghe d’allora, ma favorita da un fisico particolarmente infelice, la sua Lucia era veramente un bambolotto di insostenibile – almeno oggi , ma anche allora – ridicolaggine. Quando, circa 8 anni dopo, la rividi per la seconda e ultima volta all’Arena in Bohème (a fianco di Pavarotti) , sia pure penalizzata dagli spazi enormi di Verona, l’impressione sulla fisiologica “debolezza” dell’attrice rimase sostanzialmente la stessa.
Ben diverso, però, l’impatto emozionale creato dal suo modo di porgere il canto. Pur nella mia inesperienza, avevo ben impressi fin d’allora, per Lucia, i modelli discografici della Callas e della Sutherland; però mi rendevo conto che la Scotto era un’altra cosa ancora, che partendo da un corpo vocale più esile e diafano sapeva creare dei trasalimenti emotivi tutti suoi giocando – con gli occhi del poi, molto smaliziatamene – sulle tensioni del rubato, sul valore delle pause e dei ritardi, sul raddoppio delle consonanti, in un modo personalissimo e mai scontato. Non c’era la perentoria drammaticità della Callas né la fluidità siderale della Sutherland, ma il risultato, nel vivo della rappresentazione tetrale, era comunque trascinante
Quella stessa dicotomia fra l’attrice e la cantante mi è stata confermata da altri video. Ad es., la citata Francesca degli anni ’80 ricordata da alcuni mi convince poco sotto il profilo strettamente attoriale. Rivela, certo, uno studio oculato, però si sente la mancanza di una qualsivoglia intuizione spontanea e risolutiva, e chi abbia avuto la fortuna di assistere dal vivo alla Francesca della Kabaivanska (regia di Samaritani) sa come la sua stilizzazione liberty riuscisse a conquistare anche con poche allusioni gestuali e a trasportarci su un pianeta molto più pertinente alle atmosfere screziate, al simbolismo tra preraffaellita e klimtiano in cui è immerso il clima dell’opera di Zandonai. Rispetto a questa, la Francesca della “Scotto- attrice” sembra una scolaretta.
Di contro, ritornando alla Scotto cantante, ben diverso mi pare il risultato delle sue “costruzioni” interpretative sotto il profilo dell’espressività vocale, in cui le intuizioni e gli approfondimenti di fraseggio, la ricerca di colori e di accenti, esulano sempre dal prevedibile.
Proprio questa sfasatura fra la resa dell’interprete vocale e quella dell’attrice scenica mi porta a ridimensionare la preoccupazione che ho sentito spesso aleggiare a proposito del talento troppo intenzionale e “costruito” di Renata Scotto. Certo che le sue interpretazioni scaturivano da scelte minuziosamente calcolate, ma questo non era poi sinonimo di resa sicura. Infatti, così come il risultato dal punto di vista dell’attrice rimane secondo me quasi sempre impari agli obiettivi perseguiti, pure ambiziosi e minuziosamente studiati, al contrario la fantasia e l’applicazione della cantante danno molto spesso luogo a traguardi vocali capaci di illuminare risvolti interessanti e inediti dei ruoli, e la mancanza di spontaneità è riscattata da quella superiore intelligenza capace di distillare l’emozione che alla fine lascia il segno, qualunque sia il percorso seguito – probabilmente “a freddo” anziché per abbandono all’intuizione – .
Di esempi potrei citarne tanti, mi fermo a due pucciniani.
Bohème al Met (Pavarotti/Levine), ad es. Certo non è la Mimì più “sorgiva” della storia dell’opera, ed è lontanissima dal naturalismo della crestaia, però l’amarezza lucida e il disincanto che traspaiono dal suo modo di fraseggiare con sprezzatura nell’aria del terzo atto rende un inedito sapore di incomunicabilità moderna al distacco sentimentale ormai pienamente consumato nel rapporto fra i due amanti, e che numerose altre Mimì più volte verso il patetico non riescono a restituire altrettanto bene. Una Mimì “borghese” che guarda, più che alla giovinezza cantata da Murger, ai doleceamari ritratti del Giacosa di Tristi amori e di Come le foglie …
Sempre in Puccini, sentire cosa è la sua Giorgetta (sempre Met), riscattata dal retroterra proletario e trasformata in una Bovary piccolo borghese catapultata nella banlieu parigina – certo, soluzione arbitraria, ma quanto originale e in fondo più consona al milieu sentimentale di Puccini …
Ma questi sono dettagli, benché la grandezza della Scotto vada cercata forse soprattutto nei risvolti inediti del capillare anzichè nella sintesi d’insieme a tutto tondo.
Per passare, invece, ad un inquadramento globale della sua posizione, io la reputo, nella prima parte della sua carriera, la più convincente fra le sue coeve in tutte le sue interpretazioni belliniane, all’infuori di Norma (in cui la mancanza di peso vocale adeguato ha compromesso irrimediabilmente il risultato).
Trovo che nessun altra cantante a cavallo fra i ’60 e i ’70 ha saputo rendere con tanta sostenutezza il pathos del legato belliniano, lo struggimento malinconico che percorre e sostiene quelle lunghe frasi (Sonnambula, Straniera, Capuleti …) senza scadere un attimo soltanto nel letargo interpretativo. Qui ha saputo far valere la sua matrice di soprano leggero, con un retrogusto mai del tutto accantonato derivato dagli esempi di una Pagliughi o di una Carosio, ma confrontandosi però con la lezione di tragedienne della Callas e declinandola a modo suo, su un corpo vocale più lieve ma con una capacità emozionale altrettanto vincente.
Nella seconda metà della sua carriera, invece, allorcheè, e quasi in modo direttamente proporzionale alla crescente problematicità dell’assetto vocale specie in zona acuta, ha affrontato soprattutto la galleria di personaggi fine ‘800, avverto in lei un sistematico confronto assimilatore con la lezione di fraseggiatrice della Olivero, riportata ad un gusto più scarno e riscattata da alcune intemperanze ma tenuta costantemente sott’occhio, tanto da configurare un nesso di filiazione – anche se probabilmente non riconosciuto dalla Scotto donna che in alcune interviste ha preso sempre le distanze dal “modello”oliveriano. Il nesso, però, secondo me si impone in sede storica.
Così come, pur non avendole purtroppo mai sentite, non mi stupiscono le sue tarde incursioni in ambito straussiano (Marschallin) e l’approdo a Voix humaine. Percorso coerentissimo con gli stimoli e la fantasia di una cantante che, pur di matrice schiettamente “italiana”, abbia vissuto sulla propria pelle con tanta personale inquietudine, forse accentuata ed esaltata da una precoce usura del mezzo dal punto di vista strettamente eufonico, i rovelli e le difficoltà del canto novecentesco, in un arco nel quale Puccini, Strauss e Poulenc costituiscono i passaggi concatenati di uno stesso iter.
Mi fermo qui, saluti a tutti
Fabrizio
Fabrizio