Caro Rodrigo,
mi ero ripromesso di rispondere con calma a questo post, perché come ho detto io amo molto Serafin.
Lo amo come interprete, come uomo di teatro e soprattutto come direttore (tecnicamente parlando) e questo vorrei chiarirlo subito, perché alcuni lo amano perché in lui vogliono vedere solo un "battisolfa" di lusso, di quei direttori che si annullano pur di valorizzare l'interprete (cosa che per loro sarebbe un gran pregio).
Per me Serafin era un direttore di una autorevolezza tecnica e interpretativa strepitosa; ancora oggi ritengo che alcune sue letture siano insuperate.
E' pur sempre doveroso, secondo me, uno sforzo di contestualizzazione.
Non si può giudicare - come dicevamo in altro thread - sulla base dei criteri attuali, perché così facendo si prendono abbagli.
E' vero, infatti, che Galilei ne sapeva di fisica meno di uno studentello di oggi.
Ma sarebbe sbagliato prendere a Galilei a esempio di non conoscenza della fisica.
Il suo "poco" pesa un milione di volte di più di tutto quello che può sapere lo studentello universitario di oggi.
Vorrei pertanto ricordare ai lettori che negli anni '50 i direttori italiani erano piuttosto garibaldini: vi erano alcune grandi personalità (uno fra tutti: Cantelli, ma anche Gavazzeni, Gui, ovviamente l'ultimo De Sabata, per non parlare di Previtali che il nostro Bagnoli ci sta aiutando a riscoprire) ma quasi tutti non erano soverchiamente preoccupati di valorizzare il "suono", la ritmica, la precisione come invece avveniva oltr'alpe, con i direttori mitteleuropei.
Va anche detto che da noi la tradizione operistica era molto più frequentata di quella puramente sinfonica; e nel portare a casa un'opera il "mestieraccio" era ritenuto più importante che non l'infinitesima ricerca nel dettaglio timbrico o la cura ossessiva della precisione ritmica.
L'importanza di curare il dettaglio dell'esecuzione gli italiani cominciarono a capirla più tardi (da Giulini in poi) sollecitati dal confronto con le grandi bacchette austro-tedesche, la cui superiorità tecnica era stata posto sotto gli occhi di tutti attraverso il disco.
Ma negli anni '50 non era così: della grande lezione di Toscanini (che invece era tecnicamente una macchina da guerra) l'unica cosa che seppero cogliere era l'anti-edonismo; mentre non colsero il fatto che è solo grazie a un controllo disumano che Toscanini perveniva a tale secchezza.
E' in questa temperie che va collocato Serafin, il quale - zitto zitto, pur presentandosi sempre come direttore da "spedizioni punitive", senza darsi le arie di grande demiurgo della musica, come i coevi Krips, Kleiber, Boehm, (ma anche Gui e Gavazzeni) ecc... - si distaccava da tutti per la sua capacità di scendere oltre la superficie del suono e lavorare con ossessione analitica sulle partiture fino a creare atmosfere e psicologie di strordinaria profondità e modernità.
Solo un italiano, secondo me, poteva ai suoi anni lavorare di dettaglio come lui, ed era Antonino Votto.
Tuttora quando sento alcuni passaggi della Norma di Serafin (quella EMI del 1960) ho la sensazione che tecnicamente non sia possibile andare più in là.
Il preludio che precede il monologo dei figli (e tutta la gestione del monologo stesso) possiede una pregnanza sonora ed emotiva che non ho mai più sentito. Gli accompagnamenti sono talmente "giusti" come colori, equilibri, ritmi che dimostrano un lavorio accanito; con lui gli archi della Scala trovano timbri stupendi, di volta in volta aspri e primitivi (nelle sezioni belliche) oppure estenuati e mormoranti (nelle atmosfere pittoriche di certi squarci notturni); i ritmi sono sempre liberi (con un senso raffinatissimo del rubato) ma organizzati in solidissime architetture e con un rapporto con i cantanti (Corelli a parte) perfetto; le melodie respirano emozioni sfumate e proprio per questo prondissime. Ma è nei recitativi che si avverte ancora di più la sua genialità: un accordo... un semplice accordo (per esempio quello che precede "O rimembranze") dimostra una ricerca accanita.
Insomma, se non fosse che la Callas è distrutta e Corelli è quasi più singhiozzante del solito, la Norma di Serafin sarebbe la più grandiosa, romantica, anti-retorica e umana della discografia (secondo me).
Ma ancora più stupefacente è la sua Turandot, che fra l'altro è partitura tecnicamente assai difficile. A me pare che in tantissime pagine di quest'opera Serafin sia insuperabile, molto più in su di Karajan, benché questi faccia più impressione grazie a un'orchestra sfarzosissima ed effetti stereo cinematografici; e tuttavia il nitore ritmico di Serafin ad esempio nel coro dei Servi del Boia, il controllo del suono, l'effetto quasi jazzistico della parte finale a me pare ben più virtuosistico.
Se si pensa poi ai miracoli che riesce a costruire con la Callas nell'esecuzione di "In questa reggia" fra mormorii stranianti di archi, ipnotici e cullanti ondeggiamenti ritmici - rigorosissimi - alchimie di colori, ecc... !
Questi sono solo due esempi; poi è vero che vi sono letture più affrettate e chiassose (il live) ma tu devi anche considerare la scarsità di prove, la modestia delle orchestre, i limiti delle registrazioni...
E soprattutto i ritmi di lavoro estenuanti a cui un direttore come lui era sottoposto.
Rodrigo ha scritto:Però, però...
A distanza di mezzo secolo c'è qualcosa che non torna e proprio nel campo belcantistico.Ho infatti l'impressione che la fama di Serafin come restauratore delle partiture protoromantiche sia per certi versi impropria.
Capisco, però non credo che lo si consideri proprio un grande restauratore; un pioniere, magari... un curioso... uno che passava le giornate a studiare partiture di tutti i tipi, che contribuiva a renderle possibile...
E' più faticoso il mestiere del pioniere, rispetto a quello dello specialista!
In effetti il maestro ha sostanzialmente riproposto, sia pure ad un livello d'eccellenza, le opere che erano restate nel repertorio tardo ottocentesto e un'esegesi nel solco della medesima prassi.
E' abbastanza vero quel che dici, però anche qui - come nel dibattito sulla Russ - si tenda a valutare il contributo di un direttore con criteri posteriori.
Oggi noi siamo abituati (abbiamo dietro quarant'anni di Belcanto Renaissance) a considerare l'opera proto-romantica parte fondamentale del repertorio.
Negli anni '50 non era proprio così: era una curiosità da spiriti colti.
Ad allestire un'opera sconosciuta dell'800 si rischiava di avere il teatro semi-vuoto, le case discografiche non l'avrebbero incisa, ecc....
Inoltre mancavano le giuste vocalità (soprattutto in ambito maschile), mancavano le nozioni stilistiche su cui ancora nessuno studioso si era concentrato; non c'erano le nostre adorate "edizioni critiche" e talvolta (come nel caso del Devereux) mancavano persino le partituture.
Serafin va messo tra i "curiosi", tra i pionieri di questa rinascita (quelli che hanno reso possibile la rinascita), ma è chiaro che non poteva procedere con la consapevolezza specialistica che sarebbe emersa successivamente.
Personalmente più che guardare ciò che di superato si riscontra nelle letture serafiniane (che ci sono è vero), io guarderei quei tanti aspetti che le rendono moderne ancora oggi.
E' altrettanto vero che non poteva imbastire la sua carriera unicamente su "riscoperte" belcantistiche (cosa che non fece nemmeno la Sutherland: contiamo quante Violette e Lucia ha fatto e poi vediamo quante Beatrici).
Tu giustamente ti chiedi come è possibile che non abbia fatto la Borgia, per esempio!
Ma io, scusa se insisto, trovo più giusto chiedersi come è possibile che sia riuscito a imporre i titoli desueti che ha imposto (oltre ad Armida, pensa ai Due Foscari e a tanti altri)!
Ti immagini se fra cent'anni (quando opere come Alina regina di Golconda e Ugo conte di Parigi saranno diventate di repertorio corrente) qualcuno dicesse che i coniugi Bonynge in fondo non hanno fatto poi tanto per ripristinare il Belcanto... infatti non eseguirno l'Alina regina di Golconda e l'Ugo conte di Parigi!
Hai ragione, ovviamente, quando dici che Serafin - dirigendo questo repertorio - assecondò molte delle prassi allora in voga: un interprete non lavora per il pubblico di cinquant'anni dopo, ma per quello a cui si rivolge!
Fra queste la prassi dei tagli: anche qui rischiamo, come per la Russ, di vedere le cose con prospettiva sbagliata.
Anche Serafin tagliava, non c'è dubbio (tutti lo facevano: si DOVEVA tagliare), ma se vediamo i suoi tagli in rapporto alla sua epoca scopriamo che c'erano una logica infinitamente più meditata di quella di Gavazzeni.
Ancora negli anni 70 Gavazzeni tagliava le battute di chiusura del famoso coro di guerra della Norma (in modo da terminarlo con la sparata sulla tonica, con tutto il coro che fa l'acuto e il pubblico che applaude). Vent'anni prima Serafin aveva già riaprto quel taglio e faceva concludere il coro con la ripresa della dolcissima melodia dell'ouverture. E il pubblico non applaude...
Mi raccontava Angelo Mercuriali che avvenne quasi un incidente diplomatico alla EMI in occasione dei Puritani.
Serafin aveva infatti deciso di aprire un taglio di tradizione durante la Polacca; nessuno aveva avvertito Di Stefano (che infatti non era in grado di leggere la musica e quindi non si era accorto della cosa).
Panico! Non c'era il tempo per trovare un riptetiore che insegnasse a Di Stefano la parte! Risultato: chiesero a Mercuriali di farla lui. E infatti, se ascoltate la Polacca della EMI, sentirete la voce di Mercuriali!
Mi confermò Mercuriali che all'epoca furono tantissimi a bofonchiare (dirigenti della EMI compresi) contro questi direttori che vogliono "aprire i tagli"!
Certo, in un'epoca come la nostra in cui ogni taglio è considerato eresia, restiamo irritati di fronte a queste logiche.
Però Serafin non lavorava in un'epoca come la nostra.
Alla sua epoca era importante "far rivivere" non "restituire a verità filologica"...
Solo considerando le caratteristiche di quell'epoca si possono capire i pasticci operati da Gui: la sua ossessione era che la gente - di allora - uscisse da teatro ...amando la Beatrice di Tenda, risultato che era tutto da dimostrare...
Oggi sarebbe un risultato scontato: la genta ama già la Beatrice. Così si può puntare ad altro, come ripristinare le due battute tagliate in un recitativo... e considerare la cosa come un passo avanti per tutta l'umanità!
E poi sei sicuro che il pubblico avrebbe apprezzato allora queste opere nella loro integrità?
Ricordo un anziano signore (molto intelligente e colto) che rimase molto deluso quanto ascoltò entrambe le strofe di "Addio del passato" nell'edizione Sutherland.
Giudicava quest'aria così bella - mi disse - perché era abituato a non considerarla un'aria, quanto piuttosto un arioso, un monologo dell'anima, libero dalle scatole strofiche della "solita forma" (vedi dove andava a insinuarsi la mentalità post-wagneriana?); eseguendalo con le due strofe diventava invece la solita ariona, retorica e strutturata, con due climax incongrui psicologicamente.
Vedi a che pubblico ci si rivolgeva?
Sapessi quanti osservarono all'epoca che la cabaletta "Tu vedrai" (riscoperta da Erede, Karajan e Serafin) era un obbrobrio che tanto valeva tagliare!
E tutto questo da un direttore che era stato collaboratore di Toscanini!
Perché? Toscanini non tagliava? Hai sentito la sua Traviata?
Capitolo voci: so bene che criticare Serafin sulle scelte vocali è come parlare male di Garibaldi. Ma anche qui alcune considerazioni col senno di poi si possono fare. Infatti se è stato fondamentale il suo intervento nella carriera di Maria Callas, è un fatto che alcune tra le più rivoluzionarie interpretazioni di questa cantante siano legate ad altri "padrini": Gui per Medea, De Sabata per i Vespri e per il Macbeth (purtroppo mai incisi ufficialmente), Gavazzeni per Anna Bolena.
Anche questo per me non è del tutto vero, secondo me.
Lui la Callas non solo la scoprì materialmente, rese possibile la sua permanenza in Italia imponendola ai vari teatri, ma fece molto, molto di più.
Ne comprese e scatenò il potenziale, che forse nemmeno la stessa Callas aveva così chiaramente compreso.
Ho avuto in mano una lettera della Callas del 1947.
Si lamentava che Serafin la rimproverasse sempre perché aveva la voce troppo scura...
Tutta irritata diceva (cito a memoria) "Serafin mi fa sentire in colpa di avere una di quelle grandi voci drammatiche che non si trovano più".
Mentre leggevo queste cose... la mia mente andava agli incredibili schiarimenti, a quei sussurri in odore di "apertura" che la Callas avrebbe scoperto intorno al '54... (per esempio nel disco dedicato a Puccini, diretto appunto da Serafin).
Senza Serafin (fu lui a portarla da Siciliani) la Callas sarebbe forse rimasta alle Aide e alle Turandot.
Peraltro non sono molto d'accordo con te sull'interpretazioni rivoluzionarie che hai citato: la Medea della Callas a me pare molto sopra le righe (e temo che proprio l'imprinting con Gui e Bernstein ne sia la causa); nel Macbeth poi fatico a riconoscere la raffinatissima artista che era in quella strega di Biancaneva che ne viene fuori, tutta ruggiti e toni "cattivi (merito di De Sabata, considerando i miracoli di ricerca che la stessa Callas produsse poi in sala di incisione; quanto ai Vespri ti ricordo che la Callas li preparò per Kleiber); e relativamente ad Anna Bolena, la Callas è immensa, è vero, e non di meno vi ritrovo gli stessi meriti già ampiamente dimostrati; non credo che Gavazzeni abbia aggiunto molto.
Invece quando sento la Callas con Serafin (o con Karajan, per essere sinceri) la trovo infinitamente più profonda e rivoluzionaria. Mi basta sentire (ne parlavamo con Maugham) "l'altra notte in fondo al mar" per avere la sensazione degli abissi espressivi a cui poteva spingersi, quando trovava un direttore con cui poteva lavorare sul più infimo respiro.
Non è un fatto irrilevante che con Serafin la Callas abbia preparato e debuttato Norma, Lucia, Traviata...
Inoltre, ed è una pecca che serpeggia in diverse incisioni callasiane, gli altri cantanti non sembrano sempre in sintonia con il recupero delle ragioni preveristiche operato dal soprano. E' il caso ad esempio del Di Stefano nella Lucia (e a maggior ragione di Eugenio Fernandi, Edgardo in un live RAI) dove se il soprano canta Donizetti, il tenore risponde con... Mascagni! E' lecito chiedersi se non sia compito del direttore, per di più con fama di raffinato conoscitore della vocalità, intervenire con tutti gli interpreti e non solo con la prima donna.
Ma cosa poteva farci Serafin se Di Stefano, divo della EMI, non aveva nozioni di belcanto?
Come poteva intervenire su una tecnica vocale impostata per tutt'altro?
C'è forse riuscito Karajan a far diventare "belcantista" Di Stefano? (ammesso che gli interessasse davvero...)
Tutto questo non certo per affossare un interprete che -ripeto- sta coi grandi del Novecento. Ma forse è giusto, oltre che riconoscere i meriti di Serafin, fare i conti anche con i limiti della sua lezione e vederne la vicenda artistica come tappa, non come non plus ultra.
Su questo sono assolutamente d'accordo. Era all'avanguardia (in questo senso) allora.
E' una fortuna che settant'anni dopo Serafin non sia più avanguardia!
Vuol dire che si è continuato a camminare...
Salutoni,
Mat