Tucidide ha scritto:Interessante. Quel che dici di Michieletto è verissimo e l'ho notato anche io. Alla luce di quel che dici si potrebbe dire che Michieletto è un regista di grande tecnica ma contenuti variabili, mentre Herheim sia più orientato sui contenuti, ma lasci a desiderare dal punto di vista tecnico? Oppure è un aspetto che non gli interessa, quindi non lo cura?
Be' Tuc non ho detto proprio così.
Da un lato, concordo che sul piano dei contenuti un confronto fra Herheim e Michieletto è semplicemente improponibile.
I pazzeschi edifici simbolici che Herheim elabora nelle sue regie sono un caso unico fra i registi attuali.
Il simbolo in lui diventa un delirio visionario ma con ambizioni "algebriche"... una folie organisée a cui spesso è difficile stare dietro.
Non dico che questo sia sempre un pregio
Intanto perché un simile approccio risulta spesso troppo intellettualistico. E il pubblico di oggi (cosa che i tedeschi e i nordici faticano a capire) non ama più gli approcci troppo intellettualistici.
E poi perché non di rado (persino nel Parsifal tanto amato da Mattioli) il regista stesso ne resta vittima e l'ossessione di far quadrare il cerchio lo spinge ad avvitamenti che sono troppo abili (se va bene) per essere persuasivi.
Di tutte le regie di Herheim che ho visto, solo una volta ho avuto la sensazione che davvero tutto quadrasse in modo perfetto: nella Salome a Salisburgo.
In tutti gli altri casi mi è capitato a tratti di pensare che il troppo stroppiasse... e che alla fine lo sforzo di far star tutto dentro l'assunto superasse il piacere del risultato.
Anche con queste riserve... siamo comunque anni luce (contenutisticamente parlando) dai piacevoli e semplici prodotti di Michieletto, che stanno a Herheim come Muccino sta a Bergman.
Le storie di Michieletto sono facili, alla portata di tutti, così come i valori innocui e condivisi che portano avanti. Gli americani direbbero "familiar".
Intendiamoci: nulla di male in questo! Purché funzioni, uno spettacolo non deve essere per forza un trattato di filosofia per essere bello.
E tuttavia ribadisco che un confronto tra i contenuti di Michieletto e quelli di Herheim è improponibile.
La superiorità contenutistica non ci autorizza però - almeno per me - a sottoscrivere la tesi che tra i due si crei come una compensazione ...chiasmatica, ossia che:
Michieletto è un regista di grande tecnica ma contenuti variabili, mentre Herheim sia più orientato sui contenuti, ma lasci a desiderare dal punto di vista tecnico?
Se il dislivello contenutistico è enorme, non minore è quello tecnico, e ancora tutto a vantaggio di Herheim.
Tecnicamente parlando, Herheim è uno dei più incredibili virtuosi che conosca!
Il pubblico finisce per amare anche i suoi polpettoni vetero-filosofici anni '70 proprio grazie all'incredibile impatto della gestione visiva e visivo-musicale.
Esclusi i soliti Carsen e Jones, pochissimi sanno usare il palcoscenico e la scenografia in modo tanto immaginifico! Meno ancora riescono a illuminare la relazione musica-gesto con tanta perfezione.
Il prodigioso vocabolario tecnico di cui dispone... conquista anche lo spettatore che, magari, non ha capito nulla dei contenuti!
Ne ho avuto la prova con la sua Salome: fra gli entusiasti ce n'erano molti che pure non ne avevano afferrato gli innumerevoli simboli.
Anche da un punto di vista tecnico, sarebbe ingiusto paragonargli un buon artigiano (ed è già qualcosa) come Michieletto.
Tanti segnali (a voler essere un po' troppo occhiuti) ci confermano anche in questa Bohème come la sua tecnica è buona, promettente, ma ancora molto perfettibile.
Come dice Maugham, al secondo atto Michieletto va in crisi proprio nell'aspetto chiave - per un regista - che è la differenziazione dei registri musicali. Uno sguardo alla Bohème di Jones ci fa capire bene a quali livelli possa giungere - in questo atto - un regista davvero dotato di tecnica.
E' poi vero che Michieletto è capace di ricontestualizzare con una certa proprietà (anche se ormai la formuletta del giovanilismo cinematografico è un po' abusata) ma talvolta non riesce ad andare al fondo delle sue scelte; ad esempio il primo obbligo di un ricontestualizzatore è conferire un nuovo senso a oggetti simbolici che nel contesto originale avevano un forte signigicato. Tanto per dire, non ti aspetteresti cuffiette e manicotti fra coattoni metropolitani e prostitute; qui invece ricompaiono come niente fosse. Inoltre c'è sempre qualcosa di tirato via anche nell'elaborazione del contesto, come se - una volta che il pubblico ha capito dove siamo - non ci fosse bisogno d'altro; eh no! Il contesto va tenuto vivo sempre, affinché la storia funzioni.
Il solito Maugahm notava che se in scena metti uno in T-shirt, un'altra in pelliccia, un altro con la giacca di pelle e un'altra ancora con un maglione di lana (usando i costumi per differenziare i caratteri, vecchia scappatoia), come minimo non farai capire al pubblico se ...è freddo o caldo! E nella Bohème non è un problema da poco....
Personalmente poi ho riscontrato limiti anche nella gestione narrativa, i cui snodi (temporali, spaziali, logici) non sono sempre chiari e illuminanti (la Gazza Ladra funzionava meglio). Infine i momenti "topici" della musica (e qui ce ne sono da impazzire, Puccini è un mostro) non sono sfruttati come farebbe un regista veramente "tecnico": Herheim ad esempio non si fa scappare la minima modulazione, il minimo indugio ritmico, la minima allusione melodica. A tratti (penso all'incredibile finale secondo) tirandone fuori cose allucinanti.
Con tutto questo, non direi che la Bohème di Michieletto è malvagia: è uno prodotto di buon livello, di uno standard abbastanza alto, specie per Salisurgo.
Dico solo che non è tecnicamente paragonabile né a Herheim, né ai veri virtuosi di oggi.
L'unico aspetto su cui mi pare funzioni meglio (rispetto a Herheim) è quello del dettaglio della recitazione.
Il "fucking genius" norvegese non considera abbastanza l'importanza del cantante-attore.
Lo usa come un semplice strumento necessario (come un motore della scenografia o un faro) alla sua architettura.
Una volta che fa tutti i gesti "giusti"... non si aspetta altro da lui; e che al posto della Magee ci sia la Denoke o che invece di un tenore bello e giovane ce ne sia uno brutto e vecchio... per Herheim è irrilevante.
E qui secondo me sbaglia.
Questa è una vecchia mentalità da "intellettuali tedeschi" (il cantante? ma per carità... roba da cassetta).
Il cantante-attore nell'opera non è solo uno strumento; è il centro gravitazionale dello spettacolo.
Il pubblico ha bisogno di credergli, di riconoscercisi. La sua individualità va scoperta e scatenata dal regista e dal direttore, e non piegata a principi preconcetti.
Se così non è (specialmente in video) lo spettatore non si lascia coinvolgere.
Era quello che diceva Mylady a proposito del Parsifal: la capisco benissimo se, dopo aver visto un tenore grasso e cinquantenne vestito da bambino con pantaloncini e casacca da marinaretto, le passa la voglia di andare avanti! E' esattamente così!
Ecco: quello che Herheim deve capire è che il cantante (parlo proprio di lui, dell'artista) non è solo "un personaggio", ma anche il veicolo per arrivare al cuore dello spettatore.
Dovrebbe cominciare a lavorare di più sulla recitazione, sulla mimica, sulla naturalezza del gesto.
La grande lezione di Carsen è stata questa. Oggi è la grande lezione di Mc Vicar (ma anche di un Cherniakov).
Michieletto, pur senza essere un genio, l'ha capito! E infatti i suoi spettacoli sono tanto piacevoli e popolari anche perché si crede ai suoi personaggi, più che al rigore dell'allestimento (quando non esagara col macchietismo modernista).
E' solo in questa aspetto che ho rilevato una certa "superiorità".
Scusate l'ennesima lenzuolata.
Mat