PARIGI 2012
Punta di diamante della stagione dello Chatelet, Nixon in China è stato un gran bello spettacolo.
Tale da meritare il solito "avercene" tanto caro ai delusi operomani italiani, abituati a ben altri livelli (in peggio, ovviamente).
La regia del celebre Chen Shi-Zeng si è rivelata perfettamente funzionale, oliata, sapientemente animata, leggibile, divertente ed estremamente mossa.
L'insieme ha garantito un caloroso successo di pubblico (accorso ovviamente numerosissimo) e fragorosi applausi.
Dando per scontata l'altissima qualità del prodotto (tanto che non ha senso insisterci troppo) passo direttamente ai miei dubbi...
dubbi non tali da inficiare la soddisfazione, ma degni almeno di essere espressi.
Il primo dubbio riguarda la scelta di mantenere un solo intervallo e unificare secondo e terzo atto.
Già in teoria mi lascia perplesso la prassi di alterare il taglio azione-pausa penato da librettista e compositore, perché l'architettura del loro lavoro ne risente: ad esempio, se hanno posto una lunga scena meditativa e introspettiva all'inizio di un terzo atto (dopo l'intervallo) significa che contavano sul fatto che il pubblico riposato avesse recuperato attenzione e freschezza. Se si elimina l'intervallo la scena meditativa sarà accolta con maggiore distrazione: sapendolo probabilmente gli autori non l'avrebbero piazzata lì o l'avrebbero scritta diversamente.
E' vero che sono cambiate le convenzioni anche nella fruizione, rispetto - ad esempio - a due secoli fa...
Il pubblico è diversamente coinvolto, più o meno abituato alla lunghezza degli atti, meno distratto dalle attività para-teatrali (da "Teatro alla moda")...
Tutto ciò giustifica una diversa ripartizione degli atti...
Ma Nixon in China non è di due secoli fa: è del 1987. I tre atti e due intervalli non furono pensati da Adams, la Goodman e Sellars per un pubblico tanto diverso da noi. Non si vede quindi il senso di modificarli.
Per di più è la stessa distribuzione del materiale drammatico (evidendemente simbolica) a giustificare la ripartizione operata dagli autori; non a caso il primo atto è in tre scene, il secondo in due, il terzo in una sola. Il percorso è a "forcella"
Se uniamo il secondo e il terzo atto l'evoluzione simbolica 3 - 2 - 1 (scene) diventa 3 - 3. la direttrice è spezzata a fronte di un ben più prosaico (e fuorviante) equilibrio.
Ogni atto poi descrive una giornata (21 febbraio 1972, 22 febbraio, 23 febbraio), articolazione temporale-narrativa importantissima che viene meno se si uniscono gli ultimi due.
Infine (ed è la cosa più importante) l'ultima scena di ogni atto - che nel caso del terzo è anche l'unica scena - si svolge di sera, alla fine della giornata, quando i personaggi - tolti gli abiti formali dei loro pubblici doveri - rientrano in contatto con loro stessi, le loro nostalgie, la loro paura di invecchiare.
Unire il secondo al terzo atto stravolge quindi anche questa fondamentale tensione che dall'arroganza politica del giorno porta all'introspezione della sera.
Altro snaturamento ancora...
Il secondo dubbio riguarda la realizzazione che, sì, era bellissima e trascinante (luci affidate a un grande come Koppelmann, scene carine e semplici di Shilpa Gupta), ma che non si distingueva affatto, nel suo simbolismo facilissimo e un po' astratto, da un normale allestimento d'opera da cucina internazionale, di quelli che si vedono dappertutto: per intendersi in stile giovane Carsen.
E poiché sulla carta era carina l'idea di interpellare per il Nixon in China - dopo tanti registi americani - uno cinese... sarebbe stato simpatico trovare un po' di specificità in più.
Il mio ultimo dubbio (quello un po' più grave) riguarda invece l'idea del regista di spingere verso una logica blandamente satiricheggiante nei confronti dei personaggi; così - ad esempio - un Nixon pare non possa essere rappresentato che con le solite buffonate della tipica e stra-vista macchietta repubblicana, machista e bambinone, che sfodera sorrisi a 500 denti per i giornalisti, e lancia gesti vittoriosi come a una partita di calcio.
Io capisco che al pubblico francese faccia piacere essere rassicurato da un Nixon come lo vuole vedere: il brutto, cattivo, sudaticcio e mangia-comunisti del Watergate; il problema è che questa immagine (ottima per Futurama e per le vignette satiriche) non è quella che ci hanno presentato Adams e la Goodman.
La loro forza, semmai, sta nel non aver sposato facili preconcetti ideologici, ma di aver cercato (proprio come nei soggetti storici dell'operismo ottocentesco a cui si sono ispirati) di descrivere la tragedia dell'uomo pubblico, in contrasto fra bontà dei valori e amarezza della realizzazione; tutti i personaggi di quest'opera, quale che sia la loro parte, sono umanamente positivi e tragici, ingranaggi incolpevoli e malinconici di logiche che non possono gestire.
Pur nutrendosi del loro credo, non riescono a sentirsene sazi. La loro impossibilità di credere nel futuro li fa volgere indietro, ai sogni infranti, alle gioventù idalizzate, come se ormai il loro unico punto fermo restasse solo la memoria.
Nixon è, in quest'opera, un personaggio che deborda di tenerezza, di idealismo e di umanità.
Esattamente come il suo nemico-interlocutore Mao, che viene rappresentato in modo, certo, sinistro e plateale, ma anche terribilmente tragico.
Nel grandioso colloquio fra i due presidenti del primo atto, Mao, vecchio e fragile, elude ogni domanda politica, svicola continuamente dalle sollecitazioni degli interlocutori e si rifugia nella filosofia, nell'astrazione. Come se non bastasse, le sue tre segretarie non solo commentano e amplificano ogni suo "pensiero", ma lo anticipano addirittura; l'effetto - spettacolare - è quello di un povero vecchio monumentalizzato, che ha terrore di vedere ciò che ha fatto, la disperazione prodotta su milioni di cinesi e che, quindi, si rifiuta di discutere e non fa altro che auto-citarsi.
Ben poco da ridere, come si vede...
Idem per le due first-lady, qui affidate a star della statura di June Anderson e Sumi Jo.
Entrambi i personaggi, sia pure in modo opposto, sono tutt'altro che caricature... entrambe debordano di umanità e dolore.
Perfetta esponente della sana etica americana, Patricia Nixon è come una bambina che non sa accettare la durezza e i compromessi della realtà.
Si chiude in un universo di valori semplici, di operosità, cura e virtù, e chiude gli occhi sul fatto che quei valori sono solo strumenti.
Quanto alla moglie di Mao, non è l'ambizione e la violenza a dominarla, quanto il dolore del suo passato, cristallizzato in durezza, in negazione e chiusura di ogni umana comprensione (anche di sè stessa).
Anche in questo caso c'è ben poco da ridere...
Infine i due consiglieri.
Kissinger è l'unico personaggio a cui la Goodman riserva un'evidente ironia. E' descritto come sciocco e triviale e nemmeno tanto acuto nel capire i meccanismi della diplomazia. All'opposto il primo ministro cinese Chou Enlai è personaggio di tale dolcezza, amarezza, calore che solo nel suo caso nessuno (nemmeno in questo allestimento) potrebbe scherzarci sopra.
Detto questo, è ovvio che se facciamo di Nixon un cattivone da fumetti, di Mao un vecchio rimbambito che agita le mani per salutare non si sa chi, di Pat una specie di Minnie Mouse e di Chian Quing una piccola virago... la gente riderà e si sentirà al sicuro nelle proprie confortevoli certezze.
In compenso tutto il terzo atto (una lunga, interminabile riflessione dei quattro personaggi sulla malinconia della vita, sul fallimento dei propri sogni, sulla vanità delle gesta storiche) non starà più in piedi.
Inoltre Kissinger (che dovrebbe essere l'unico personaggio dai contorni' satirici) dovrà - per adeguarsi - diventare una macchietta impresentabile, una specie di clown privo di senso.
Insomma, ci troveremo di fronte a una simpatica vignetta (che all'ultimo atto diviene un poco noiosa), ma i significati universali del testo finiscono per venir meno.
Il taglio discutibile si riflette purtroppo sulla resa dei cantanti, che pure sono stati i trionfatori della serata: il cast era veramente spettacolare.
Come Nixon il giovane baritono Franco Pomponi (che avevo già sentito come Pentheus delle Bassarids di Henze) potrebbe avere le caratteristiche giuste.
Vitale e incisivo come cantante, dal bel timbro solare e dal vigoroso declamato, sarebbe potuto risultare più umano e credibile dell'onnipresente James Maddalena.
Purtroppo la recitazione sempre sovraccarica e da cow boy tirato a lucido lo rendono presto stucchevole.
Anche la Anderson inizia piuttosto male. E dire che l'idea di ricorrere a lei per rappresentare questo modello della virtuosa madre e moglie americana, ciecament convinta di sapere dove è il bene e dove è il male, era potenzialmente allettante.
Ma quando appare in scena scodinzolante, col completino rosso, la pettinatura platino e le smorfiette da mogliettina anni '50... cascano le braccia, tanto più che - sia pure dotata di buon carisma - la Anderson non è un'attrice tale da sopravvivere al macchiettismo.
Inoltre, se vocalmente è in forma più che ammirevole, considerati i sessant'anni, tecnicamente non appare molto a suo agio: la formazione vocalistico-bellinana non le consente di articolare parole e colori, tanto che alla platea arriva un suono indistinto, disperatamente omogeneo.
Per fortuna nella sua grande scena del secondo atto trova il modo di riscattare il personaggio, strappandolo alle banalizzazioni del regista e restituendogli quella dignità nella compassione che dovrebbe avere.
Sumi Jo è ancora più efficace: a parte - anche nel suo caso - una tenuta vocale straordinaria, la cantante si distingue per una fierezza altera, sprezzante, che, nel terzo atto, saprà evolvere persino in femminilità.
Ma il vero trionfatore della serata è stato Alfred Kim, non a caso uno dei maggiori Calaf e Manrico dei nostri anni, nel ruolo del presidente Mao.
Al vecchio dittatore egli presta una mimica contenuta e una presenza di straordinaria efficacia, ma soprattutto una vocalità possente, stentorea, scintillante, screziata da mezzevoci e pianissimi acrobatici.
Meno incisivi il baritono Kyung Chun Kim (Chou Enlai tuttavia toccante per la sua dolcezza) e il basso Peter Sidhom, dozzinale Kissinger.
La direzione d'orchestra di Alexander Briger mi è parsa solida e sicura, ma non troppo varia e rifinita. Le sonorità tendevano a stancare per la loro retorica e gli equilibri timbrici troppo spesso risultavano favorevoli agli ottoni.
Nel complesso però bene.
Ecco un frammento tratte dalle prove col pianoforte.
Salutoni e ...a domani con la Muette de Portici alla Sale Favart.
Mat