Der Ring des Nibelungen (Wagner)

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Re: Der Ring des Nibelungen (Wagner)

Messaggioda teo.emme » mer 26 gen 2011, 15:18

Affatto, Riccardo, affatto...

Innanzitutto non è mia intenzione fare una "classifica" o un elenco di buoni e cattivi musicisti. Sarebbe operazione inutile, sterile e antistorica.

Semplicemente riflettere su certe peculiari differenze tra il melodramma italico e la realtà europea coeva. Differenze che derivano - non mi sembra uno scandalo - anche da arretratezza culturale. Non vuole, naturalmente, essere un giudizio di merito, né dire che l'incapacità di Bellini di utilizzare la "forma sonata", pregiudica il gradimento o la grandezza delle sue creazioni. Assolutamente no: si tratta solo di constatare alcuni fatti e metterli tra loro in correlazione. Del resto non sono certo l'unico a sostenere queste tesi, né dipende da inesistenti (nel mio caso) suggestioni romantiche (che, anzi, paiono la solita accusa, buona per tutte le stagioni e le occasioni, per criticare senza approfondire): anche studiosi rinomati - sostenitori e amanti del melodramma italiano - la cui autorevolezza non può essere certo liquidata come mitizzazione, affermano i medesimi concetti (Budden, Ashbrook e Gossett). Credimi, poi, dell'arte - in genere - non ho alcuna visione "metafisica", né amo "cincischiarmi" tra idee di purezza e sublimazioni creative. L'arte è un prodotto di una determinata cultura e società (e risente, nel suo sviluppo, di influenze eterogenee o, per dirla marxianamente, di condizionamenti sovrastrutturali), e come tale è valutabile anche in relazione ad altre esperienze storiche e culturali.

Al contrario penso proprio sia una semplificazione l'affermare che l'arte è comunque "bella": questa sì è una suggestione romantica e antistorica. E infine ideologica poiché tende a non indagare le ragioni, quanto accontentarsi nei meri effetti "sentimentali" ed estetici.

Ma veniamo al merito.

1) l'artigianato musicale del melodramma è un dato di fatto difficilmente contestabile: l'opera italiana viveva - nella prima metà dell'800 - di convenzioni, codificate anni prima e ripetute identiche per decenni. Questo permetteva ai compositori di "produrre" velocemente una mole smisurata di titoli: e questo significava commercio. Permetteva anche un linguaggio omogeneo, privo della necessità di prove approfondite o preparazione impegnativa: i cantanti di grido imparavano le parti in poco tempo, facilitati dall'uso di queste convenzioni. Ciò dipendeva dalla dimensione cantante-centrica del melodramma. I divi erano il fulcro attorno a cui girava tutto il resto. L'orchestra e il trattamento orchestrale era l'ultimo dei problemi: si pensi al fatto che l'Italia fu l'ultimo paese in cui si diffuse la figura del direttore d'orchestra! Il compositore/artigiano, dunque limitava la sua creatività a produrre pezzi di bravura per i divi di cui disponeva ed effetti di raccordo: l'orchestrazione era poco curata per esigenze pratiche...le prove iniziavano sullo spartito, quando l'autore ancora non aveva iniziato la strumentazione (succede pure con Verdi: Rigoletto e Traviata vengono provate mentre l'orchestrazione non era stata stesa). L'orchestra, dunque, imparava le parti in una manciata di giorni o di ore. E del resto producendo 5 o 6 titoli all'anno, l'autore non poteva agire diversamente: era un industria, anche redditizia. Ovvio che il genio, talvolta, emerge...ma è un numero infinitamente più basso rispetto alla mole di chi praticava la professione.
2) tali convenzioni - dovute anche alle esigenze profondamente conservatrici di un pubblico che storceva il naso di fronte alla novità (che poteva essere, magari, l'assenza di una cabaletta o la strutturazione anomala di un mero concertato) - hanno permesso, oltre ad una rapida produzione di titoli, anche - bisogna ammetterlo - un livello medio discreto: le forme codificate garantivano una innegabile tenuta all'insieme, tant'è che anche oggi si può fruire piacevolmente di composizioni di Pacini o Mercadante, pure considerandone la scarsa fantasia, ma ammettendone la tenuta; al contrario non sono molti i casi in cui ci si soffermi sui contemporanei minori di Mendelssohn o Schumann (case discografiche importanti, con divi "moderni" incidono Pacini o il Meyerbeer italiano - musica non certo indimenticabile - non mi risulta che i Berliner abbiano mai inciso le sinfonie di Czerny o di Raff). Tali convenzioni, però, rimaste sclerotizzate sino al 1860, hanno impedito uno sviluppo analogo a quello europeo della musica italiana: si dice, giustamente, che l'Italia dell'epoca avesse ancora entrambi i piedi nella tradizione musicale precedente. Verissimo: il romanticismo in Italia penetra tardi e a fatica, la musica strumentale e sinfonica non è praticata affatto, le orchestre sono semidilettantesche e il direttore d'orchestra inizia a comparire stabilmente solo negli anni '70 del secolo. Si pensi che solo intorno a quegli anni si inizia a conoscere Wagner (e il Wagner di Lohengrin...di molto precedente, quindi). Le sinfonie di Beethoven poi, ci mettono 30 anni ad attraversare le Alpi!
3) proprio i grandi compositori che, tutto sommato, emergono dall'artigianato locale, testimoniano il disagio: emigrano in Francia o in Austria per affrancarsi dalla morsa di una tradizione che ancora nel 1850 imponeva i ruoli en travesti dell'amoroso e i recitativi al cembalo! Rossini va in Francia, Donizetti pure (andrà anche a Vienna), Bellini realizza la sua opera più avanzata a Parigi, Verdi raggiunge lo stile maturo in suolo francese (e, in precedenza, scelsero la stessa strada Spontini e Cherubini: si osservi la differenza tra le rispettive produzioni italiane - dimenticabilissime - e i capolavori francesi e tedeschi). Ma anche gli stessi autori stranieri che, per lavorare in Italia, devono seguire regole e codici assolutamente superati (Mayr, Meyerbeer, NIcolai).
4) ciò che balza all'occhio - e all'orecchio - nel confronto tra realtà italiana e civiltà europea, è la sostanziale autonomia del compositore in Francia, Germania e Austria: autonomia rispetto all'impresario e all'interprete. Il musicista non è semplicemente lo strumento che prepara il veicolo affinché i divi ottengano il successo che il pubblico e la sua proverbiale pigrizia non si stancava di tributare (non volendo arrischiarsi mai nell'esplorazione di linguaggi che uscissero - anche solo in parte - dai ristretti confini delle convezioni ccon cui erano cresciuti). Neppure è un artigiano (più o meno talentuoso) al servizio dell'esibizione dell'interprete: pronto, cioè a soddisfare capricci e voglie. Nel resto d'Europa l'oggetto principale della composizione musicale era la composizione stessa - ovviamente commissionata e pagata e rivolta ad un pubblico che doveva gradirla per garantire gli utili necessari alla sopravvivenza dell'artista e alla convenienza del committente . In ciò risiede la differenza - anche nell'ambito della formazione tecnica (conservatori e accademie) - rispetto alla realtà italica, dove si insegnava più che altro a gestire il linguaggio delle convenzioni, piuttosto che un bagaglio completo di insegnamenti: anche per il fatto che, se pure si fosse approfondito l'aspetto orchestrale, o l'arte del contrappunto, o la forma sonata del sinfonismo classico, a nulla sarebbero serviti nell'ambito ristretto dell'estetica italiana dell'epoca (a che serve scrivere una sinfonia con fugati e elaborazioni classiche, se l'orchestra che la dovrà suonare è raccogliticcia e dovrà apprendere le parti in tre o quattro giorni, magari con il tempo tenuto dall'archetto del primo violino e il compositore seduto al cembalo senza suonare).
5) questo significa che l'opera italiana è musica di serie B? Assolutamente no, è cosa diversa. E' espressione artistica legata ad un mondo altrove già superato. Fatta di esigenze diverse in cui la coerenza musicale era valutata meno del capriccio del divo.
6) Bellini resta orchestratore inferiore a Mozart o a Haydn, anche per il fatto che a Bellini non interessava l'orchestra. Non era nelle convenzioni d'epoca. Non è suggestione romantica: è lettura di una partitura. Non è una colpa o un merito, intendiamoci, ma non è scandaloso ammetterlo.
7) il caso di Rossini è curioso: passato per "tedeschino" (in virtù di una maggiore dimestichezza con l'orchestra e una migliore fantasia strumentale) in realtà non ha nulla che possa richiamare lo stile sinfonico praticato - in quei tempi - nell'Europa musicale. In Italia, l'ignoranza in materia, faceva sì che tutto ciò che esulasse dal mero accompagnamento a "quartetto d'archi" e basso continuo, venisse bollato come "sinfonico" o "alla tedesca"; bastava un andamento a canone (anche elementare, stile "fra Martino campanaro") per titolare il compositore di "maestro del contrappunto" (così passava il buon Mercadante....ad esempio, pur non avendo, di esso, concetto alcuno). Rossini, in realtà, non si distacca mai dal trattamento orchestrale locale, certo lo raffina, lo rinnova, lo tratta con maestria...ma non compie grandi innovazioni: archi d'accompagnamento con ottoni in chiave ritmica, legni in funzione solistica. Punto. Certo Rossini era un genio musicale e da questi elementi ha saputo trarre capolavori assoluti. Ma non c'è nulla che richiami la forma sonata (ABC del sinfonismo tedesco), né la costruzione armonica delle composizioni, o la cura della struttura tonale attraverso passaggi a tonalità vicine e coerenti ad un disegno espressivo. Gli strumenti seguono ancora una logica di addizione, non di amalgama. L'arretratezza, però, la si misura nei tanti epigoni...e così, mentre in Europa operano Mendelssohn o Berlioz, in Italia Pacini scrive 70 opere una uguale all'altra, in stile rossiniano, con largo uso della banda interna, e i recitativi al cembalo! Da una parte Wagner, dall'altra Mercadante o Cagnoni o Faccio che, per apparir moderni, riempiono le partiture di strumenti, peggiorando se possibile la situazione: appesantendo le linee musicali di effetti rozzi (orrendo ad esempio, il vezzo di doppiare le voci con le trombe).
8 ) in tutto ciò, certamente, emergono figure che cercano di guardare altrove...ma ci si renda conto che erano eccezioni: si prenda a riprova quel documento interessantissimo che è la Messa per Rossini, che idealmente doveva racchiudere il "meglio" della musica italiana dell'epoca. Anno Domini 1869!!!! Verdi a parte (di cui si comprende ancor meglio la grandezza) si avrà idea di come ancora la musica italiana fosse impelagata in convenzioni e in goffaggini: tra Buzzolla, Bazzini, Coccia, Cagnoni, Mabellini etc... e i contemporanei europei (Austria, Germania, Francia e Russia persino), non ci sono solo distanze esprimibili in chilometri e in spazio, ma in anni! L'Italia ancora nel 1870 si dibatteva nelle convenzioni rossiniane, non comprendeva Wagner e viveva l'opera come all'epoca di Barbaja. In Europa Wagner ultimava Siegfried e Meistersinger; Mussorgsky preaparava la revisione del Boris, Saint-Saens si accingeva a comporre il Samson et Dalila, e Bizet la Carmen...in Italia si cominciava, invece, a eliminare la cabaletta!

Ma qui mi fermo per non allargare troppo il discorso...

Ripeto, però: ciò non toglie nulla al valore storico e musicale del melodramma. E' necessario, però, capirne il profilo...
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Re: Der Ring des Nibelungen (Wagner)

Messaggioda beckmesser » mer 26 gen 2011, 19:39

teo.emme ha scritto:Semplicemente riflettere su certe peculiari differenze tra il melodramma italico e la realtà europea coeva.


Confesso però che non mi sono chiarissimi i termini del confronto: intendi confrontare il melodramma italiano con ciò che, in ambito teatrale, si faceva negli altri paesi, o con la produzione sinfonica d’oltralpe? Nel secondo caso, è evidente che l’orchestrazione di una sinfonia di Mendelssohn o l’armonia di un pezzo per pianoforte di Schumann sono più progredite e raffinate degli arpeggi della Sonnambula, ma mi sembra che si confrontino elementi in realtà non confrontabili… Nella scrittura operistica, fin dalle origini, il successo si è sempre giocato sulla capacità di piegare i ferri del mestiere della scrittura musicale (architettura delle forme, armonia, orchestrazione, contrappunto) alle esigenze specifiche di creare organismi teatralmente efficaci. In questo senso, mi sembra che, nella prima metà dell’800, la sintesi raggiunta dagli operisti maggiori del melodramma italiano sia di una raffinatezza insuperata in qualsiasi altro paese. Proprio gli autori che citi mi sembra evidenzino l’impotenza in cui si era impelagata l’opera tedesca: Mendelssohn provò tutta la vita a scrivere un’opera ma, a parte le robette giovanili, non cavò un ragno dal buco; Schumann lanciò improperi su quasi tutti gli operisti contemporanei, ma non andò oltre a Genoveva (opera molto interessante, ma che esiterei a mettere fra i risultati sommi della storia dell’opera). È risibile leggere (come spesso si legge) che il loro fallimento sarebbe dovuto a scarso temperamento teatrale o roba simile: è solo un problema di linguaggio; lo stile che avevano elaborato, per quanto raffinato e progredito fosse, non furono in grado di adattarlo alle esigenze specifiche richieste dalla scrittura teatrale. Se guardiamo alla produzione operistica tedesca fra Mozart e Wagner (escludendo l’unicum del Fidelio, che del resto ha caratteristiche peculiari) non direi che ci fosse un livello di raffinatezza o “progresso” superiore a ciò che si sentiva in Italia. L’orchestrazione di Marschner, Spohr o dello stesso Weber è forse più appariscente, ma non direi affatto più raffinata di quella degli operisti italiani…

In sintesi, mi sembra forzato confrontare singoli elementi della scrittura in contesti diversi: l’orchestrazione di una sinfonia di Mendelssohn è certamente di per sé più raffinata di quella di un’aria di Bellini e una forma sonata beethoveniana ha elementi di complessità che una cavatina di Rossini di certo non ha. Ma resta il fatto che questi singoli elementi, per quanto raffinati, non riuscirono ad essere applicati al monto dell’opera. Laddove in Italia, nella prima metà dell’800, si riuscì ad elaborare un linguaggio tanto raffinato da non avere in sostanza alcuna alternativa…

Sarebbe un po’ come dire che la tecnologia di una Ferrari è più raffinata o evoluta di quella di un TIR: sarà forse vero sotto uno specifico punto di vista (la velocità), ma completamente ribaltabile da un altro (la potenza). E il motore di una Ferrari, per quanto evolutissimo, non servirebbe a nulla se usato per spostare tonnellate di merce, così come l’armonia di Schumann, per quanto raffinata, si è dimostrata inutile a risolvere i problemi specifici della scrittura teatrale…

Purtroppo, di Mozart (ossia di sintesi assoluta fra linguaggio musicale e struttura teatrale) ce n’è stato uno soltanto…

Saluti,

Beck
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Re: Der Ring des Nibelungen (Wagner)

Messaggioda teo.emme » mer 26 gen 2011, 20:04

beckmesser ha scritto:
teo.emme ha scritto:Semplicemente riflettere su certe peculiari differenze tra il melodramma italico e la realtà europea coeva.


Confesso ...


Ti confesso che, in effetti, il discorso ha preso una via del tutto imprevista...scostandosi dal tema principale. Si trattava di rispondere a certe osservazioni sul perché si preferisca riscoprire opere del periodo barocco. I sostenevo che spesso si trovano più sorprese piacevoli in quel repertorio, piuttosto che nell'esplorazione dell'epoca del melodramma, dove vi era più mestiere che arte e dove persino nei lavori di repertorio, a volte, di vero ingegno ve ne sia poco (rispetto all'abilità di organizzare la routine). Da qui il tema si è dilatao.

Io non voglio fare alcuna graduatoria, semplicemente suggerire alcune considerazioni confrontando non le mele con i bulloni, bensì autori coevi di generi identici: l'opera.

Dici che da Mozart a Wagner, in realtà, non si vedono così tante differenze. Io ne vedo eccome. Weber, Marschner, Lortzing, Spohr, ma anche Hoffmann, Nicolai, von Winter, Cornelius, o le stesse esperienze teatrali di Schubert e Schumann, rivelano un uso diversissimo dell'orchestra, una libertà formale maggiore e una maggior fantasia. Non c'era la gabbia delle convenzioni né il divo di turno faceva girare attorno a sé tutto quanto: al centro vi era il compositore e l'opera. Questo aspetto ha i suoi pro e i suoi contro. Li ho esposti.

Ripeto, l'arretratezza musicale italiana (nell'epoca del melodramma) è un dato di fatto difficilmente contestabile (basta prendere in mano una partitura). Tale arretratezza - pur permettendo la produzione di capolavori - ha perpetuato un "sistema" sclerotizzato che ha fatto sì che in Italia la figura del direttore d'orchestra arrivasse con 50 anni di ritardo, così come il ruolo delle orchestre stabili.

Sarà un discorso ozioso, ma non più di tanti altri...

Del resto mai come in questi ultimi tempi, mi sento di condividere la provocazione di Berio su Verdi.
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Re: Der Ring des Nibelungen (Wagner)

Messaggioda Rodrigo » mer 26 gen 2011, 20:37

beckmesser ha scritto:Nella scrittura operistica, fin dalle origini, il successo si è sempre giocato sulla capacità di piegare i ferri del mestiere della scrittura musicale (architettura delle forme, armonia, orchestrazione, contrappunto) alle esigenze specifiche di creare organismi teatralmente efficaci.
[...]
Purtroppo, di Mozart (ossia di sintesi assoluta fra linguaggio musicale e struttura teatrale) ce n’è stato uno soltanto…

Saluti,

Beck


Anzittutto complimenti per l'intervento molto brillante!
MI sento di aggiungere due considerazioni facili facili.
Teo ha citato la fuga a Parigi dei nostri operisti maggiori spiegandola come l'approdo a un "sistema" più progredito e libero dalle consuetudini che bloccavano l'evoluzione musicale del melodramma italiano. Sarà anche vero, ma è un fatto che il teatro musicale francese, a sua volta, era dominato da convenzioni altrettanto ferree di quello italiano. Basti pensare alla dicotomia (che si prolunga per tutto il XIX secolo) tra Opéra e Opéra-comique, dicotomia non solo di teatri ma anche di soggetti, di forme musicali, di cast e di strumentazione. Oppure alle rigidissime regole del grand-opéra che non si esauriscono solo nell'arcinoto obbligo delle danze al II atto (e basta leggere la corrispondenza verdiana ai tempi del Don Carlos per avere un'idea della questione). Io non ci vedo tanta più libertà rispetto alla scena italiana, semmai ci vedo più mezzi (finanziari e orchestrali), semmai ci vedo convenzioni diverse rispetto a quelle imperanti da noi. E poi trovatemi un genere che non ha le sue leggi: dal concerto, alla sinfonia, alla sonata, al quartetto, all'oratorio. Il punto è che fino a quando sono linguaggio comune, gusto, stile né i compositori, né il pubblico le percepiscono come angustie. Quando si staccano dall'evoluzione del gusto le consuetudini... diventano consunte, superate, fruste e poi... le abbandonano proprio tutti e si guarda con commiserazione al passato in cui si era schiavi di formulette insulse. :D
Quanto a Mozart, operista e sinfonista mi sembra un caso veramente paradigmatico. A me pare evidente che fra il trattamento dell'orchestra nelle sue opere e nella sua musica strumentale ci sia una bella differenza. Non perché curasse meno lo strumentale quando doveva scrivere per il teatro ma, come è stato detto da Beckmesser, perché il teatro esigeva un'altra forma mentis nell'orchestrazione. Basti notare, e non vuol certo essere una critica, che l'ouverture mozartiana non segue la rigorosa forma-sonata con due temi e sviluppo, ma si avvicina molto a quel modello bitematico senza sviluppo che compare di frequente nelle sinfonie di Paisiello e poi in quelle rossiniane. Ritengo che strutturamente l'ouverture delle Nozze di Figaro sia molto più vicina a quella, che so, della Pietra del paragone rispetto al primo tempo della Juppiter. Vuoi vedere che il tedeschino era davvero tale? :) :) :-)
Saluti.
Saluti.
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Re: Der Ring des Nibelungen (Wagner)

Messaggioda Riccardo » mer 26 gen 2011, 20:52

La risposta di Beckmesser centra esattamente il nocciolo della questione!

Secondo me il concetto di arretratezza non è pertinente per come lo usi Teo.
Perché Bellini sarebbe più arretrato di Weber? Perché scrive meno note ed un'orchestrazione più leggera?
Dal punto di vista dell'inventiva melodica si potrebbe sostenere l'esatto opposto.

E poi: in un'ottica del genere non è tantopiù arretrata la musica della opere di Handel? Dovrebbe sparire rispetto a certe composizioni bachiane.
E pure le opere di Mozart per qualcuno sono arretrate rispetto a certe conquiste contrappuntistiche di Josquin per non parlare del solito Bach.

Insomma mi pare che questa idea di progresso nell'arte sia da prendere con le pinze e soprattutto non le vanno attribuiti parametri di merito. Ogni linguaggio ha le sue caratteristiche specifiche, i propri elementi di conservazione ed innovazione e va dunque valutato nell'ottica complessiva della composizione e non isolandone alcuni aspetti.

Rossini, giusto per fare un esempio, il contrappunto lo conosceva benissimo ed era grande estimatore di Bach ma sapeva bene quando e come utilizzarlo.
La celeberrima cavatina di Figaro non fa uso del contrappunto ma è semplicemente rivoluzionaria nello stile e nella scrittura. E non certo soltanto a giudizio - mi spiace Teo - delle 'ignoranti' orecchie italiane visto il successo universale e durevole di quest'opera.

L'esempio di Rodrigo su Mozart è perfetto, anche se va detto che pure nella scrittura vocale l'austriaco fa uso di dialoghi di natura strumentale tra le voci e i soli d'orchestra innovativi rispetto alle convenzioni italiane. Ma pure rispetto a quelle della musica vocale in Austria. Non a caso è questa una delle più straordinarie peculiarità mozartiane.

Salutoni,
Riccardo
Ultima modifica di Riccardo il gio 27 gen 2011, 0:59, modificato 2 volte in totale.
Ich habe eine italienische Technik von meiner Mutter bekommen.
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Re: Der Ring des Nibelungen (Wagner)

Messaggioda pbagnoli » mer 26 gen 2011, 22:17

Bella discussione, ragazzi.
Non mi vergogno di dire che sto imparando molte cosucce interessanti, del che non posso che ringraziarvi.
Vi leggo un po' a spizzichi e bocconi per impegni lavorativi, ma vi leggo.
Come diceva Fra Giuseppe Cionfoli, solo grazie
"Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!"
(Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra)
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Re: Der Ring des Nibelungen (Wagner)

Messaggioda teo.emme » ven 28 gen 2011, 17:31

Ribadisco che il mio non è un discorso di merito o di “classifica”, né l’ansia di mettere un voto a compositori di diverse aree culturali.

Semplicemente: si tratta di considerazioni su fatti e dati riscontrabili oggettivamente.

Di nuovo: l’arretratezza musicale non è – di per sé – un pregio o un difetto, semplicemente un fatto difficilmente contestabile che segna l’evoluzione dell’opera in Italia. Un fatto di cui tener conto nel ragionare in merito ai motivi di riscoperta (o di scomparsa) di una produzione tanto vasta, quanto qualitativamente discontinua (con una larghissima preponderanza di prodotti di largo consumo).

E’ un dato storico che in Italia, a differenza del resto d’Europa, l’opera, nell’800, diviene l’attività principale, se non l’unica, di tutti i compositori (residuava un piccolo spazio per la musica sacra, ma restava marginalissima – anche a causa di certe restrizioni imposte dalla liturgia cattolica). In Austria, Francia, Germania, e pure in Russia, l’opera era parte soltanto del lavoro del musicista, che si divideva tra musica da camera (moltissima), concerti per strumenti solisti, sinfonie…l’opera, anzi, era un “lusso” che solo pochi committenti potevano permettersi (i prezzi dei divi italiani del palco erano proibitivi: almeno quanto i loro capricci). In tale varietà di generi e funzioni, la tecnica strumentale si evolve in un certo modo, strettamente connesso all’evoluzione delle orchestre, al livello elevato dei solisti, alla presenza del direttore d’orchestra (non più il mero primo violino). In Italia la situazione è differente: mentre per tutto il ‘700 i grandi compositori (Paisiello e Cimarosa, ad esempio, la scuola napoletana, quella veneziana etc…) affrontavano con eguale impegno il teatro e la musica strumentale (con inevitabili travasi di stili e tecniche), nell’800 la musica strumentale semplicemente non è più praticata. I diplomati dei conservatori – dopo aver ricevuto una formazione classica, ma non finalizzata a padroneggiare tecniche che mai avrebbero utilizzato – presto si “scordano” dei precetti appresi e si dedicano alla produzione (redditizia) di opere, opere e opere…si specializzano nel mestiere di utilizzare le convenzioni dell’epoca in modo da scrivere il maggior numero di titoli possibile. Si preoccupano esclusivamente di essere veicoli dell’esibizione canora dei divi dell’epoca: più fornivano effetti finalizzati alla possibilità di virtuosismi (che comportavano l’ingombro in ogni partitura, di scale e scalettine, ornamentazioni, roulades, cadenze, acuti etc..), meglio era, con tanti saluti alla coerenza musicale, all’ispirazione, alle ragioni dell’arte (caso emblematico è la Lucrezia Borgia di Donizetti: il finale originale – nuovo e splendido nella sua essenzialità – mancava del rondò della primadonna…INACCETTABILE, così che l’autore fu costretto a fornirne uno per compiacere il capriccio della diva…fa nulla se il nuovo brano fosse alquanto convenzionale e inutile: le convenzioni andavano rispettate, pena l’insuccesso o l’abbandono da parte dello strapagato interprete – e se questo se ne andava succedeva un pasticcio). Portava soldi, portava successo: c’era mercato per questo artigianato locale (in Italia c’erano tante “capitali” e ciascuna voleva un teatro d’opera, dove esibire i divi…gli stessi divi che sul palco facevano quel che volevano)! Gli operisti italiani si barcamenavano con 4 o 5 titoli all’anno, su libretti sempre uguali, con gli stessi interpreti, con le stesse strutture drammatiche e musicali. Ognuno, nella sua carriera produce 60, 70, 80 opere…numeri elevatissimi. A cui corrisponde qualità spesso scadente: e comunque scarsa fantasia. Mestiere, talento – forse – nient’altro! In Italia oltre l’opera non c’erano spazi. E nell’opera regnavano le convenzioni (ovviamente: orchestre e cantanti dovevano aver semplificato il più possibile il loro impegno, per fornire al pubblico titoli sempre nuovi). Titoli “nuovi”: in un certo senso erano sempre gli stessi. Stessa struttura drammatica, stessa forma musicale, stesso utilizzo degli strumenti, stessa forma del canto…ma la musica, in sé, aveva valore inferiore all’esibizione del virtuosisimo, l’orchestra era solo un sottofondo.

Lettura sempre consigliabile, in merito alla situazione del teatro musicale nell’Italia dell’800, sono le “Memorie artistiche” di Pacini (suo vero e unico capolavoro: la sola “cosa” uscita dalla sua penna che varrebbe la pena di essere tramandata e conosciuta): in esse vi è la testimonianza diretta di quel che ho scritto, a dimostrazione del fatto che non si tratta di suggestioni o semplificazioni romantiche.

Questo accade nella maggior parte della produzione. Davvero sterminata. Emergono in pochi. Pochi che cercano di dire qualcosa di diverso. Si inizia a mettere in discussione la struttura, ma timidamente e senza risultati lusinghieri – il pubblico non apprezza – ecco perché i grandi se ne vanno all’estero. Non credo sia un caso che Donizetti, Verdi, Rossini, Bellini, Spontini, Cherubini (ossia il meglio della nostra produzione operistica), per motivi vari, se ne vadano oltr’alpe per presentare i loro titoli più rivoluzionari (con la sola eccezione del Rossini napoletano: ma Napoli era un caso a parte in Europa). Ma aldilà di questi grandi nomi, le cose in Italia non mutano: ancora a metà del secolo ci sono opere con il protagonista maschile interpretato da un contralto (in ossequio all’ormai bollita e stantita tradizione dei castrati), il padre o l’antagonista affidato al tenore, e il basso in ruoli di confidenti o vesti talari…oppure c’è ancora la banda (banda doppia nei più chiassosi esperimenti di Pacini o Mercadante), e ancora si trovano (nel 1860!!!!) opere buffe con i recitativi al cembalo. Altro che retroguardia

Si dice che anche il teatro musicale francese fosse rinchiuso in regole rigide: non è esatto, o meglio non nel senso delle convenzioni del melodramma. Il teatro francese viveva di divisioni di genere (e non solo quello musicale), ma all’interno del genere non vi era una struttura rigida da seguire, pena i fischi del pubblico. Neppure, nel teatro francese, i cantanti avevano il potere che incontravano in Italia (certo capricci e peretese ve n’erano sempre), ma non esisteva, insomma, quell’industria, quella produzione di opere che a centinaia inflazionavano i tanti teatri e teatrini della penisola. Certo dipende anche dal centralismo culturale e dall’importanza nazionale riservata alla musica. Basta comunque analizzare le revisioni francesi di opere italiane (Rossini e Verdi) per apprezzare la maggior complessità di tali rielaborazioni! Prendiamo I Lombardi e Jerusalem, Mosé in Egitto e Moise et Pharaon: cambia l’approccio, lo stile vocale (non più infestato da vuoti esibizionismi), l’apporto strumentale. Non credo sia un caso.

Qualcuno dice che forse Rossini fosse davvero “tedeschino”, ecco, questo è uno dei maggiori fraintendimenti che una certa vulgata belcanto-centrica ha imposto: nello stile compositivo e nel trattamento orchestrale di Rossini non c’è nulla, ma proprio nulla che richiami la coeva musica tedesca. Non è un difetto, intendiamoci, semplicemente una considerazione. E non c’entra lo studio e l’ammirazione di Bach e Haydn (anche Pacini li aveva studiati e li ammirava), rileva il modus di utilizzare gli strumenti e la loro combinazione. Completamente diverso dalla tradizione austro-tedesca. Il fatto che Rossini, poi, padroneggiasse uno stile personale e sortisse effetti raffinatissimi e avanzatissimi, non significa nulla (cioè non rileva ai fini di individuare una tecnica più o meno avanzata). Che poi abbia prodotto capolavori non si discute. L’orchestra rossiniana, ad esempio, procede per accrescimento e addizione strumentale, non vi è l’uso amalgamato dei timbri, ma una rigida suddivisione di ruoli e modalità: gli archi (in formazione a quartetto) di sfondo con il pulsare ritmico degli ottoni e i legni trattati come solisti (si pensi allo scambio tra flauto e oboe: tipico dell’orchestra rossiniana). L’uso dell’orchestra in area austriaca, invece, è completamente diverso. Scusate, non lo dico io, è un fatto oggettivo di tecnica strumentale. Mozart, non si sarebbe mai sognato di scrivere un’overture come quella del Barbiere. Non è, però, un merito o un demerito. Certo che il linguaggio mozartiano muta da sinfonia a teatro, i generi sono diversi. Ma la tecnica strumentale, la funzione dei vari gruppi, le particelle musicali, l’organizzazione delle frasi, la gestione della materia sul pentagramma, la coerenza tonale (argomento SCONOSCIUTO in Italia fino a Puccini!!!) restano peculiari di un modus per nulla assimilabile alle convenzioni italiche (peraltro successive). L’overture del Ratto del Serraglio o delle Nozze di Figaro non ha nulla a che vedere con quella della Pietra di Paragone! E questo aldilà dell’uso della forma sonata (peculiare della sinfonia, invero).

In questo discorso, però, il fatto che il Barbiere di Siviglia avesse successo universale e la cavatina di Figaro sia brano straordinario, davvero non c’entra nulla! E chi lo mette in dubbio?
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Odio dar ragione a Matteo, ma...

Messaggioda pbagnoli » sab 19 feb 2011, 12:55

...quello che è giusto è giusto.
Mi spiego meglio: in questo periodo mi sto riascoltando il Ring di Bayreuth 1953, probabilmente una delle migliori rappresentazioni wagneriane di sempre.
Io sono un appassionato di Windgassen nel personaggio di Siegfried, Matteo no. Per me la sensazione di gioventù e poesia che Windgassen comunica in questo ruolo, soprattutto nelle prime rappresentazioni, è pressoché inarrivabile; per Matteo invece nemmeno a pensarci, anzi, gli comunica l'idea di un signore quarantenne con il doppio mento e la calvizie incipiente. Ma soprattutto, per Matteo in Windgassen manca completamente la quadratura ritmica.
Quando mi disse questa frase, rimasi interdetto: era un po' che non lo sentivo, e soprattutto nel Ring del 1953.
Cercai di ignorare quello che aveva detto, sino a questi giorni in cui, proseguendo con l'ascolto, sono arrivato proprio alla scena della forgiatura della spada.
E' terribile: non ne imbrocca mezza. Sbaglia clamorosamente tutte le entrate ignorando Krauss che, per parte sua, si deve arrabattare come un matto per star dietro alle sue allegre scampagnate!
Poi, per tutto il resto è meraviglioso e, a mio gusto, assolutamente perfetto; ma in questo contesto è un disastro.
Aveva ragione lui, sono costretto ad ammetterlo.
E mi pesa, o se mi pesa... :(
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Re: Odio dar ragione a Matteo, ma...

Messaggioda Luca » sab 19 feb 2011, 17:08

Non conosco il Ring a cui fa riferimento Pietro, ma aggiungo qualcosa su Windgassen in generale: non mi ha mai fatto emozionare. Nello stesso Lohengrin, come vedrete, il suo più alto rendimento è formulabile con l'aggettivo 'discreto'. Si fa valere per certa onestà e solidità di fondo, ma - per me - non lascia il segno.

Saluti e tra poco arriva la seconda puntata della discografia...
Luca.
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Re: Odio dar ragione a Matteo, ma...

Messaggioda MatMarazzi » sab 19 feb 2011, 17:16

Luca ha scritto:Non conosco il Ring a cui fa riferimento Pietro, ma aggiungo qualcosa su Windgassen in generale: non mi ha mai fatto emozionare. Nello stesso Lohengrin, come vedrete, il suo più alto rendimento è formulabile con l'aggettivo 'discreto'. Si fa valere per certa onestà e solidità di fondo, ma - per me - non lascia il segno.

Saluti e tra poco arriva la seconda puntata della discografia...
Luca.


Siamo tutti in attesa, Luca! :)
E tuttavia su Windgassen io non mi sono mai spinto a dire che non mi piace. Mi piace moltissimo.
Anzi, proprio sul suo Lohengrin mi troverò in disaccordo con il tuo giudizio.
Posso dirlo..? alla fine secondo me Windgassen è il più grande Lohengrin che abbia mai sentito.
Non c'è più nessun eroismo e nessuna sensualità: è solo un sacerdote che prega avvolto di luce.
Il suo Fernem Land è il più emozionante e ieratico, il più profondo e sublime che ricordi, specie diretto da Jochum.

E' vero, semmai, che non mi piace il suo Siegfried, perchè Windgassen (checché ne dica il nostro amico Bàgnol) ha l'irruenza, l'adolescenza, la forza e l'eroismo di un travet di 55 anni, bianchiccio, con il doppio mento.
Quanto alla quadratura ritmica, windgassen non c'è. Le sue frasi sono una sequela di suoni dalle durate più o meno casuali... Ciò che si chiama "marmellata".
Lì nella forgia sbaglia proprio, ma anche quando non sbaglia... è sempre un melodizzare informe, un po' smidollato.
In certi casi (penso al concertato di Tannhauser) funziona proprio per questo.

Salutoni,
Mat
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Re:

Messaggioda knap57 » mer 20 lug 2011, 13:29

MatMarazzi ha scritto:
VGobbi ha scritto:.
Ti confermo che l'Alberich di Mazura, per quanto ne sappia, non esiste un'incisione discografica, figurarsi il video, che sia una. Mazura nel Ring diretto da Boulez ricopre il ruolo di Gunther e lo fa con la consueta classe impareggiabile che la contraddistingue.


Eppure secondo me è infinitamente più adatto come Alberich che come Gunther.
E' un cantante avvincente nei personaggi isterici e tenebrosi: nei ruoli aulici o lirici o borghesi lo trovo troppo caricato.
Sinceramente non lo amo nemmeno nel Mosé e nel Dottor Schoen.

Salutoni,
Matteo


Mazura è un'artista notevole.....anche se spesso ho dei dubbi sulla sua emissione, ciò non toglie che le sue interpretazioni siano magistrali! Mi riferisco al suo Gunther nel Ring di Chereau/Boulez, che segue la lezione di Fischer-Dieskau del Ring Soltiano(Gunther/Gutrune, un dramma familiare 8) ) e al suo Klingsor nel Parsifal al Met.
Per quanto riguarda il suo Alberich, purtroppo abbiamo solo poche testimonianze da registrazioni pirata o introvabili da Bayreuth(regie di Wolfgang Wagner degli anni '70)...ma...un piccolo pezzetto video può essere trovato nel famoso documentario "The making of the Ring", dove trasmettono alcuni estratti di prove e di recite del Ring di W. Wagner che precedeva il rivoluzionario spettacolo di Chereau.
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Walkure Bayreuth 1955: secondo ciclo

Messaggioda pbagnoli » gio 23 feb 2012, 19:08

Quell'anno a Bayreuth la Decca registrò intero il ciclo di Keilberth con i soliti Varnay, Hotter ecc.
Il ciclo, recentemente rieditato in stereo dalla Testament con suono semplicemente spettacolare, merita per gli interpreti e, beninteso, anche per Keilberth che qui in Italia molti considerano il fratello scemo di Knappertsbusch e Kraus solo perché lo dicono i critici, mentre invece è bravo vero.
E' un'integrale molto bella: merita di essere conosciuta dagli appassionati. Tra l'altro io amo molto la scansione bruciante di Keilberth in cui fatico a riconoscere le zavorre denunciate dai critici togati italiani.
Parallelamente fu registrato il "secondo" ciclo, ed è questo il motivo di interesse odierno.

Come tutti sanno, dal 1953 al 1956 Martha Moedl si alternò nei cast a Astrid Varnay come Brunnhilde.
Curiosamente sinora la documentazione di quelle serate non era mai emersa, per cui - per ascoltare la Brunnhilde della Moedl - dovevamo accontentarci della registrazione di Furtwaengler di Roma 1953, a mio giudizio complessivamente modesta (come cast) e di suono assai precario.
Sì, è vero: Brunnhilde non era il suo ruolo. Troppo acuto, lungo e massacrante per la vocalità di un mezzosoprano quale fondamentalmente la Moedl era.
E tuttavia - Matteo lo sa bene - il tarlo di poterla ascoltare in questo ruolo a Bayreuth mi era rimasto, tanto che quando andammo al Colle nel 2008 cercai freneticamente testimonianze audio, ahimè non disponibili.
Bene: la Testament sta pubblicando proprio il secondo ciclo di quel magico 1955, e sempre ripreso dai microfoni Decca, quindi con suono eccezionale!
Del Crepuscolo sapevo l'esistenza: l'acquisto mi aveva tentato, ma in Italia lo vendevano nei negozi a circa 90 Euro, il che mi scoraggiò.
Adesso c'è anche la Walkiria, per di più ripresa nella sera in cui Astrid Varnay assunse il ruolo di Sieglinde.
Ed è un ascolto eccezionale.
Li ho presi tutt'e due su Internet, approfittando di un prezzo assolutamente vantaggioso.

Siamo d'accordo: la Moedl fa fatica.
Anzi, di più: una fatica infernale già nell'Hojotoho, per cui vi lascio immaginare cosa venga fuori dalla scena dell'immolazione.
Eppure, nondimeno è straordinaria.
Il suono è favoloso e aiuta moltissimo a capire che forza della Natura dovesse essere su quel palcoscenico; e perché una cantante così lontana dall'estetica di Furtwaengler, ne divenne la Musa negli ultimi anni della sua vita. E per di più dopo una Flagstad, che ne rappresenta l'antitesi.
Non c'è una frase, un inciso, un respiro che non sia vissuto con immenso impatto emozionale
Al suo fianco, sentire la Varnay come Sieglinde è un'esperienza incredibile.
E poi: il miglior Hotter che abbiamo mai sentito, grazie anche allo straordinario suono Decca.
Adoro il Colle!
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Re: Walkure Bayreuth 1955: secondo ciclo

Messaggioda VGobbi » gio 23 feb 2012, 21:26

Grazie mille per la segnalazione. Alcuni chiarimenti d'obbligo. E' uscita o meno l'integrale di questo Ring o solo la prima giornata e l'epilogo?

E' dato comunque sapere il cast completo delle opere in circolazione? Cambia solo il ruolo di Brunhilde, in cui appunto si alternava la Modl e la Varnay?
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Re: Walkure Bayreuth 1955: secondo ciclo

Messaggioda pbagnoli » gio 23 feb 2012, 23:12

VGobbi ha scritto:Grazie mille per la segnalazione. Alcuni chiarimenti d'obbligo. E' uscita o meno l'integrale di questo Ring o solo la prima giornata e l'epilogo?

Per adesso solo queste due giornate

VGobbi ha scritto:E' dato comunque sapere il cast completo delle opere in circolazione? Cambia solo il ruolo di Brunhilde, in cui appunto si alternava la Modl e la Varnay?

Sostanzialmente lo stesso cast del Ring 55 di Bayreuth.
Cast peraltro tipico di quegli anni sul Colle
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Re: Walkure Bayreuth 1955: secondo ciclo

Messaggioda VGobbi » gio 23 feb 2012, 23:19

Grazie mille, Pietro. Io aspettero' che esca fuori il Ring completo. D'altronde merita sentire la Modl da Bayreuth, che ripeto resta per me la mia Brunhilde dei miei sogni (ho il live da Roma, pur con tutti i problemi che gli riserva la tessitura). : Love 2 :
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