
Forse ho esagerato, ma ti espongo brevemente (spero) i punti di disaccordo. E ti dico subito, onde evitare fraintendimenti, che si tratta delle premesse solamente (ossia lo svolgimento del tema), in quanto condivido pienamente, invece, il giudizio circa l’esito complessivo dell’incisione, che rimane – a mio sindacabilissimo parere – alquanto deludente.
Innanzitutto contesto la definizione di “restauratori parziali” relativa a quei direttori che applicano – in modo autonomo e personale – le conquiste della filologia esecutiva a compagini differenti da quelle su strumenti autentici (o copie degli stessi). In realtà non trovo nulla di restaurativo e neppure mi appare come tentativo (disperato?) di recuperare certa lutulenza sonora: mi sembra, invece, un approccio al barocco, moderno e interessante. A partire dall’idea che sottende, ossia che la mera riproduzione di modalità esecutive passate sia una soluzione palliativa, e in fondo arbitraria o illusoria: difficile riprodurre uno scorcio di XVIII secolo nel mondo di oggi, quando è cambiato tutto ciò che gli sta intorno (orecchie ed aspettative del pubblico, luoghi ove eseguire quei lavori, fruizione e fruibilità, contesto culturale, mercato discografico e, soprattutto, modo stesso di eseguire il genere da parte di interpreti che nell’ugola e nella mente – o nella bacchetta – hanno anche repertori successive e sensibilità differenti…). Del resto anche le orchestre “autentiche” hanno modificato il loro approccio – rispetto alle prime esperienze pioneristiche – arricchendo il suono, concedendo suggestioni differenti. E credo che questa via moderna al recupero dell’antico – evitando falsificazioni romantiche, ma trattenendo quelle migliorie tecniche che gli strumenti di oggi permettono, ad esempio ciò che concerne l’intonazione (non credo sia necessario l'uso di legni stonati o archi che richiedono di essere accordati ogni 10 minuti per trovare un suono meno "romantico") - non possa liquidarsi come “restaurazione”. Già ne abbiamo parlato in occasione di una disamina delle diverse scuole dei barocchisti: non credo che Gardiner o Minkovski (quando utilizzano orchestre moderne), o l’interessantissimo Fey, o Fischer, o il Mozart di De Billy e Harding, o l'ultimo Chailly, o – soprattutto – il nuovo Abbado (hai ascoltato le sue ultime incisioni di Pergolesi, Bach e Beethoven?) siano dei restauratori, seppur parziali, con l’intenzione di recuperare vecchie modalità esecutive. Al contrario trovo questa tendenza una evoluzione della prassi autentica (e – sotto, sotto – una grande conquista degli specialisti del barocco, che hanno posto un problema evidentemente sentito e reale). C’è una sorta, cioè, di comunicazione tra le diverse modalità espressive.
Questa la premessa, ma veniamo al merito.
Tu individui talune ragioni per cui l’esperimento di Mackerras non sia del tutto riuscito: ecco in particolare su queste non concordo:
1)
inadeguatezza di Bostridge: ti do ragione nella sostanza, non nei motivi. Infatti a me sembra che ciò che manca al tenore inglese sia proprio la perizia tecnica e la padronanza del canto di coloratura (le agilità di "Fuor del mar" sono un autentico disastro). Se a ciò si aggiunge la fantasiosa pronuncia italiana, si comprendono appieno le ragioni di tale inadeguatezza. Bostridge ricalca il modello del tenore mozartiano di matrice anglosassone, dall’emissione slavata, innocua, bianchiccia: un Mozart educato e femmineo che caratterizza da sempre l’approccio inglese al genere (anche Rolfe-Johnson e Langridge sono riconducibili allo stesso modello). Un Idomeneo piagnucoloso e immobile, composto e asettico (allo stesso modo dei vari Tito, Don Ottavio e Ferrando della medesima tradizione esecutiva), stilisticamente inappropriato e molto, molto noioso (confronta il pur problematico Araiza o anche Pavarotti per ascoltare un mondo sonoro e un personaggio del tutto diverso, più vivo e solare). Sono 60 anni che gli inglesi ci propinano questo modello di canto tenorile mozartiano (con il plauso dei loro critici e il "favoreggiamento" delle loro case discografiche), che oggi - quando bene o male, molte rivoluzioni si son fatte e, soprattutto in un certo repertorio si sono scritte parole nuove e inedite - si riproponga ancora questo tipo di canto (e lo fanno sia gli specialisti del barocco, sia i tradizionalisti), mi sembra semplicemente inaccettabile. E' l'equivalente della Rosina soprano coccodé (stile Tetrazzini) che ha infestato le esecuzioni rossiniane almeno fino agli anni '50: riproporla oggi sarebbe operazione ridicola e scombinata...purtroppo riproporre tenori alla candeggina in Mozart non sortisce la stessa riprovazione. Peccato.
2)
Lentezza esasperante e mancanza di tensione drammatica: se posso concordare sulla mancanza di tensione (ma è cifra identificativa di tutto il Mozart in salsa inglese, a cominciare dal sempre sopravvalutatissimo Beecham), non condivido il giudizio sui tempi. Mackerras, infatti, non indugia più di tanto in compiacimenti acustici, anzi, talvolta pare molto sbrigativo. Più o meno sono i medesimi tempi scelti da Gardiner. Piuttosto gli imputerei una mancanza di approfondimento, un accontentarsi di un Mozart dalla pura bellezza e pulizia neoclassica: rassicurante via di fuga che copre ogni mancanza di idee (e proprio con Mozart, che scardina, invece, quella compostezza e ragionevolezza fatta di dei, semidei, eroi e leggende). Un po’ come il Mozart di Muti: hai presente, invece, quel che è riuscito a trarre Harding dalla stessa opera? L’intensità, la vitalità, la tragedia, senza alcuna forzatura romantica.
3)
Il recupero completo di tutto il materiale predisposto da Mozart. Premesso che non credo si possa imputare ad un’esecuzione, VIVADDIO, integrale la colpa di un fallimento (spesso, anzi, capita il contrario: intervenendo su struttura e forma – con tagli e aggiusti – si compromettono determinati equilibri, col risultato che l’intento di alleggerire si trasforma in appesantimento), quella di Mackerras non recupera affatto tutta la musica scritta per Idomeneo (più completa, anche se non completissima, era quella di Gardiner: che presentava alcuni brani in appendice). Il direttore opera, invece, alcune importanti scelte nell’utilizzo dei recitativi (scegliendo tra diverse redazioni e accorciandone taluni) e nella versione dell’intervento della voce (una versione intermedia tra l’originale e la più breve, cantata nella prima). Certo reintegra i brani espunti da Mozart nella prima esecuzione a Monaco, ma questa è ormai prassi consolidata e irrinunciabile. Omette però – in un’appendice che sarebbe risultata graditissima – i nuovi brani predisposti per la ripresa di Vienna, con l’Idamante tenore...in particolare quella meraviglia che è l’aria
“Non temer amato bene”, oltre al duetto
“Spiegarti non poss’io”.
Circa l’Arbace di Rolfe-Johnson: il cantante fa come ha sempre fatto, la pronuncia è la solita, il fraseggio è lo stesso. Da Orfeo a Idomeneo, da Tito ad Arbace. La sua presenza è sintomatica del modo di pensare questo repertorio da parte del mondo anglosassone. Affidargli poi questa parte – in un momento di declino vocale – significa fraintenderne la vocalità: Arbace richiede voce calda e pastosa, una sorta di violoncello. Le due arie sono splendide – se ben eseguite – in particolare la seconda.
Il problema complessivo di questa edizione: la mancanza di vita e l’asetticità, accompagnata da palesi carenze tecniche da parte di molti interpreti. Ennesimo esempio di Mozart all’inglese di cui francamente nessuno sentiva più il bisogno. Meglio l’
Idomeneo di Jacobs (che presenta, però, altri problemi: a proposito, la prossima tappa del suo ciclo mozartiano è
La Finta Giardiniera...), almeno c’è della vita teatrale. Io continuo a consigliarti l’incisione di Fischer (già ne ho accennato): splendida lettura orchestrale (trasparente, agile, intensa, mobilissima) e cast di tutto rispetto (con un protagonista dalla voce quasi baritonale), equilibratissimo e affiatatissimo.
Se invece devo fare confronti col passato – e li faccio volentieri perché
“historia magistra vitae” – confesso di avere un debole per la direzione di Bohm con la Staatskapelle di Dresda (è l’incisione in studio DGG): il cast è decisamente censurabile, ma quella direzione (con quell’orchestra) merita da sola il prezzo: paradigmatica l’overture...che ti fa sentire davvero in mezzo al mare, solo in balia delle onde (o del destino). Un capolavoro.
Ecco: come al solito ho scritto troppo....
