Finalmente ho visto anche io il video della rappresentazione.
Ok, ok... non è il Giulio Cesare del secolo... eppure il confronto che le inimmaginabili atrocità del Giulio Cesare che proprio in questi giorni sta ammorbando il Comunale di Ferrara mi impone di ammettere che in tutti i casi Pelly e la Haim - anche quando non siano al meglio - sanno il fatto loro.
E vero che la Haim è sbrigativa e tendenzialmente superficiale come profondità interpretativa.
E' vero che di questa musica sa valorizzare soprattutto la patina (invariabilmente fatta di sensualità sofisticata e banale esuberanza emotiva).
E' pure vero che non sa gestire gli equilibri drammaturgici della partitura tanto che, nonostante i tagli non indifferenti, l'impressione di un certo squilibrio si avverte (e quindi noia) specie nei delicati interventi di Cornelia col figlio.
Non si potranno trovare in lei le prospettive potenti di Minkovksy e Christie e tuttavia il ritmo e l'entusiasmo che sa imprimere a molte arie conquista, sarà anche solo per la capacità di azzeccare l'atmosfera e il giusto colore di ogni pezzo. C'è convinzione ed energia nelle sue letture.
C'è una profonda conoscenza di questo repertorio.
E infine la sua è un'orchestra ammirevole, con ottoni che riescono a sortire indenni persino dalla terrorizzante sinfonia finale.
Pelly... Idem.
C'è chi ha lamentato la scarsa "profondità" della lettura di Pelly.
Quando mai Pelly è stato "profondo"?
E' un regista del tipo "pifferaio magico"... di quelli che sanno (questo sì) emozionare ed emozionarsi!
Ha senso del gioco, della poesia, del divertimento teatrale... Imbrocca sempre il movimento giusto, il giusto cambio luci, la giusta espressione sulla musica e così facendo non permette al suo pubblico di distrarsi o di non divertirsi.
Eppure non è il regista delle idee grandiose, rivoluzionarie, risolventi; non è il regista dello scavo, della rilettura, dei ribaltamenti etici.
Ecco perché, per certi versi, Giulio Cesare non era il titolo adatto a lui (come non lo era la Piccola Volpe Astuta).
Il Cesare è un'opera troppo sfumata nelle prospettive umane, troppo grandiosa nello sfondo storico...
E soprattutto troppo "micidiali" sono i precedenti registici che gravano su questo testo (da Sellars, a Jones, a McVicar).
Pelly ci ha provato...
Ambientiamo il tutto in un bel magazzino del Louvre o del British, in modo che il gioco della semplicità melodrammatica si giustifichi con una favola da "Una notte al museo", con i personaggi che vivono le loro avventure in una duplice dimensione: quella delle loro storiche contrapposizioni e quella del filtro dell'immaginazione "artistica".
Idea carina, ma per niente nuova... Sono decenni che le Aide si animano nei musei, ma soprattutto, in questa stessa Parigi - non più tardi di due anni fa - già Robert Carsen aveva ambientato al Louvre la sua straordinaria Armide di Lully.
Il problema semmai (come diceva Marco) è che l'idea è rimasta lì.
Il magazzino del museo altro non era che un fondale (Cleopatra fra le tele settecentesche, Cesare dentro la teca), ma senza che il regista esplorasse il corto circuito che l'idea avrebbe prodotto, fra reale e fittizio, raffigurazione e storia, passato e presente.
Insomma... si può imitare Carsen, caro Pelly, ma questo non fa di te un Carsen...
E Pelly non è Carsen, ma nemmeno Mc Vicar, l'altro fantasma che sghignazzava fra le quinte di questo Cesare parigino.
Il Giulio Cesare di Glyndebourne (2005 regia di Mc Vicar) era stato una di quelle rivoluzioni che cambiano per sempre l'interpretazione di un'opera.
Chi - in quella drammatica estate inglese - ha visto Cleopatra e Nireno ballare i ritornelli delle loro arie su meravigliose coreografie da "Glee" o Cesare intonare "Va Tacito e nascosto" mentre Achilla e Tolomeo lo osservano battendo il piede a ritmo o muovendo contro di lui passetti di ballo ... ha assistito a una svolta da cui un ritorno è impossibile.
dopo quel Giulio Cesare, Handel non è più stato lo stesso.
NOn so se Pelly se n'è reso conto, ma il suo Giulio Cesare sembrava una variazione di quello di Mc Vicar.
Il fatto che Cleopatra balli il twist su tutte le sue arie virtuose, che Nireno appaia più gay di qualsiasi gay... che il confine tra battaglia e coreografia sia ironicamente sfumatissimo... dimostra quanto l'innovazione del regista inglese sia stata assorbita dal francese.
Ok, quindi anche io riconosco che Pelly non ha innovato nulla (nè nell'idea "carseniana", nè nel taglio "mcvicariano") e riconosco pure che il Giulio Cesare - come opera - non potrà trovare in Pelly forza di rilettura adeguata alla sua complessità.
E tuttavia non parlerei di mezzo fallimento come ha fatto certa stampa francese (che evidentemente non è venuta a Ferrara a sentire il Cesare ivi prodotto qualche giorno fa).
Quali che siano le nostre perplessità (più che lecite), questo mi pare comunque un grande spettacolo.
Credo che si debba riconoscere a Pelly - in tutti i casi - una consapevolezza e un mestiere che permettono di tenere desto l'interesse del pubblico per tre ore di rappresentazione, di non smarrirsi nell'infinita successione di arie, di apprezzare l'atmosfera e l'incanto di ognuna di loro.
E soprattutto (come ha scritto Giovanni) Pelly ha la capacità di scatenare il potenziale degli interpreti, convinti - lo si capisce benissimo - di ogni infinitesimo gesto o espressione che il regista ha chiesto loro.
E non sto parlando solo della dessay ma di tutto lo straordinario cast.
A proposito del cast.
Una menzione particolarissima a Isabel Leonard, Sesto da grandi occasioni. Grandissima vocalità, grandissima presenza scenica.
E tuttavia la palma del migliore in campo spetta al fantastico contro-tenore Christophe Dumaux, il più grande Tolomeo dei tempi recenti, già protagonista dell'allestimento di Mc Vicar a Glyndebourne.
del personaggio non c'è niente che gli sfugga: vocalmente la tessitura è dominata con uno splendore di mezzi da far impallidire il collega Zazzo (Cesare) per pienezza di suono, ottima dinamica e virtuosismi a tutta prova ; scenicamente poi Dumaux è meraviglioso: attore consumatissimo, sa mescolare l'ambiguità sessuale, l'effeminatezza infantile, sfrontatezza da bullo, con rabbiosi scoppi di violenza e umanità, il tutto con un senso del comico irresistibile.
Se esistessero gli Oscar della lirica, il Tolomeo di Dumaux meriterebbe una bella candidatura da miglior attore non protagonista.
Zazzo è (come tutti i contro-tenori che conosca, eccezion fatta per daniels) terribilmente a disagio con la tessitura dei ruoli Senesino.
La scrittura è per lui troppo bassa, tanto che il cantante risulta spesso fioco e scarsamente udibile. Gli eccessivi arabeschi dinamici sono chiaramente uno specchietto per le allodole, tanto più che tecnicamente parlando Zazzo appare piuttosto limitato. Nemmeno scenicamente la scommessa è vinta. Il contraltista si impegna molto, ha un perfetto "physique du role", ma esagera in smorfie e smorfiette e sovente sfiora il ridicolo.
Peccato perché in generale è un artista di razza.
Ecco in una foto insieme al Tolomeo di Dumaux.
A suo modo persuasiva - ma senza lasciare il segno - Varduhi Abrahamyan come Cornelia. Dominique Visse ormai sta cominciando a stufare: sono dieci anni che si limita a fare le caricature checche e il divertimento sta passando: si prevede ogni gesto e ogni smorfia che fa. Vocalmente poi è talmente chioccio e inasprito che Handel lo dovrebbe lasciare perdere.
Anche Nathan Berg dovrebbe ormai rinunciare a questo repertorio. Il suo Achilla proprio non ha niente di interessante.
C'è infine la diva.
La Dessay (l'abbiamo scritto da subito) non ha la voce giusta per la parte.
Gli acuti (molti dei quali incautamente interpolati) suonano effettivamente aspri e faticosi; i centri sono poveri di nerbo e proiezione.
Persino l'agilità delle celebri arie virtuose (prima e ultima in particolare) lascia a desiderare. La Dessay di oggi ha talmente coltivato il "colorismo" da aver perso molto del suo smalto come virtuosa.
Alle prime arie si resta in qualche modo delusi... Le mancano la sensualità e la gioventù della De Niese, o il fulgore vocalistico della Bartoli; non ha mai avuto i centri e i velluti adeguati a un ruolo "Cuzzoni".
Poi cominci... come dire?... ad abituarti a questi limiti... ti lasci vincere (ha ragione Giovanni) dalla seduzione di "V'adoro pupille", tutt'altro che "porcona", cedevole e sensualosa come al solito, semmai lieve e scherzosa, ammiccante, da bambina cattiva.
A quel punto ti disponi a concederle il beneficio del dubbio. Poi ti ci affezioni... hai la sensazione che ti stia dicendo qualcosa in più su questo personaggio, qualcosa che nessuno aveva detto prima... e improvvisamente ti pare di non aver mai visto una Cleopatra tanto vera e complessa.
Ed è a questo punto che lei tira fuori la cavalleria e ti distrugge con un "Se pietà di me non senti" e "Piangerò la sorte mia" talmente sconvolgenti e laceranti da lasciarti a occhi umidi e bocca spalancata.
...E, prima che tu sia arrivato alla fine dell'opera, ti sei reso conto che questa Cleopatra così diversa da ogni raffigurazione "classica", questa Cleopatra piccolina e furbetta, sbarazzina e autoironica, questa monella che gioca con se stessa e se la ride di tutti, che butta all'aria la vecchia maschera "mangia-uomini" da sempre imposta alla regina egiziana per sostituirla con quella di una "maschietta" impertinente e appetitosa, che tutto d'un tratto ti butta addosso il dolore di quegli occhi verdissimi o si lancia nella ripresa di "Piangerò la sorte mia" a braccia spalancate, tutti i riflettori su di lei, come ingigantita al centro del palco...
ti sei reso conto, dicevo, che questa Cleopatra ti è entrata nel cervello e ha spazzato via tutte le Elizabeth Taylor del mondo.
E non ti sarà facile in futuro pensare a Cleopatra senza pensare a lei!
Proprio come ha fatto con Lucia, Zerbinetta, Violetta, Amina, Kostanze, Melisande e ogni altro ruolo abbia sfiorato.
Salutoni,
Mat