mattioli ha scritto:Se il musical "classico" deve assurgere (e qui sono d'accordo) allo status di teatro musicale "nobile", perché (e qui sono d'accordo di nuovo) l'importante non è tanto cosa si fa, ma come lo si fa, allora il trattamento dev'essere completo. Lo spettacolo di Carsen, giusto, è una delizia. Ma è la stessa delizia che ti viene servita in ogni buon teatro di Broadway o del West End che fa il musical: una semplice, diretta, funzionale messa in scena del testo.
Caro Mattioli,
le tue osservazioni sono giuste. Ne parlavamo con una socia Wanderer (altra grande ammiratrice di Jones, disposta come me a viaggiare per l'Europa per non perdersi le sue prime e - per inciso - grande frequentatrice di musical); anche lei - che ovviamente era a Parigi con me per la prima di My fair Lady - esprimeva le tue stesse perplessità.
Il "book" di Lerner, per non parlare del pre-testo letterario di Shaw, avrebbe consentito un'analisi graffiante della società, riflessioni più audaci sul rapporto di identificazione fra persone e "attese" di comportamenti sociali (di cui la lingua inglese è solo metafora), smontaggi e rimontaggi narrativi più provocatori, quelli a cui Carsen ci ha spesso abituato.
Avete ragione... la lettura di Carsen è stata (contenutisticamente parlando) piuttosto semplice. Unico guizzo (lo rimarcava proprio la socia ieri) il finale da "Don Pasquale" (o da "Donna silenziosa" aggiungerebbe Maugham): ossia lei che rientrando in casa di Higgins la trasforma; da studio confusionario e futurista dello scienziato "orso" a bella dimora borghese, banale e stupidamente floreale, in cui lui, l'uomo che viveva della sua lieta solitudine e del suo appagante cinismo, viene stuprato dalla stessa donna a cui aveva sottratto - per gioco - la sua cosa più preziosa: la sua individualità culturale e sociale (e linguistica).
Insomma, sembra dire Carsen, elevare qualcuno, farlo rientrare nei "dettami" del "socialmente accetto" è un violentarne l'individualità. Il tutto però è stato solo un guizzo, in cui la preoccupazione principale era non guastare il buon umore che troneggia, si esalta nel testo di Lerner e nella musica di Loewe: quel buon umore invadente ed esplosivo che caratterizza il musical degli anni '50, a cavallo fra due crisi: la guerra prima e la ...contestazione dopo.
Detto questo, quindi dando ragione nel merito sia a te sia alla socia, e quindi riconoscendo una certa fiacchezza contenutistica nel pur esaltante lavoro di Carsen, devo però dissociarmi su alcuni piccoli punti di metodo.
Tu, giustamente intendiamoci, pretendi che, in un teatro d'opera, si debba avere:
il coraggio di prendere un testo e interpretarlo. Altrimenti non ho bisogno di Carsen: basta qualsiasi mestierante di Broadway, come quello che ha messo in scena l'ultimo musical che ci ho visto, una Mary Poppins che era di livello assolutamente equivalente (equivalente, intendiamoci, nel senso di altrettanto alto quanto a professionalità, senso del teatro e humour) a questa My Fair Lady.
Il principio è validissimo (così come, ripeto, il giudizio specifico su Carsen) e tuttavia vorrei approfondire alcune considerazioni "teoriche" (inerenti le famose "convenzioni" di cui spesso parliamo) che emergono da questa frase.
1) Anzitutto, non rientra "obbligatoriamente" fra le convenzioni attuali dell'opera che il regista operi una drastica "rilettura" di un testo.
Dobbiamo distinguere con attenzione (altrimenti rischiamo il manicheismo pure noi) fra ciò che è "lecito" e ciò che "obbligatorio" (nel senso di "identificativo" delle attuali convenzioni).
La rilettura registica (nel senso di ri- o de-contestualizzazione, di smontaggio narrativo, di ribaltamento dei valori del testo, ecc...) è "ammessa" dalle attuali convenzioni registiche, non è "imposta".
Carsen stesso ha rielaborato radicalmente il contenuto di alcuni testi (sicuramente la Rusalka, ma io aggiungo anche Turandot, Tosca, Tannhauser e tanti, tanti altri), mentre di altre opere ha mantenuto intatti trame e contesto, proprio come ha fatto con My Fair Lady (la sua Jenufa, il suo Capriccio parigino, persino i Dialogues da te ricordati, che - magistralmente innovativi nel linguaggio - sono stati tradizionalissimi come contenuto),
Nel suo ciclo "operettistico" Pelly ha totalmente riscritto la storia e il contesto della Belle Helene, mentre la Grande-Duchesse ha subito scarsissimi cambiamenti a trama e contenuti (salvo la necessità di rimodellare la protagonista sulle caratteristiche - anti-schneideriane - della Lott).
Che nel mondo della regia operistica sia oggi "ammessa" la radicale riscrittura del contenuto e del contesto è vero; ma ripeto ciò non vuole dire che una regia rispettosa di questi elementi non sia ammessa dalle convenzioni operistiche. La regia di My Fair Lady di Carsen, pertanto, non contravviene alle convenzioni operistiche, per il solo fatto di non aver alterato ambientazione e contenuti.
2) ma... tu osservi... a Broadway si fa lo stesso. Allora dov'è la differenza?
Qui tu dici una cosa giustissima: e anzi si può andare molto oltre. Ti posso assicurare (Mary Poppins a parte) che anche nei revivals di musical classici nei teatri specializzati inglesi e americani specializzati nel musical, ci trovi PARI PARI le stesse riletture, riscritture, riealborazioni contenutistiche che troviamo nei più avanzati registi d'opera... anzi! Ci trovi proprio gli stessi registi d'opera!
Se spulci fra le recenti produzioni di Musical... ritrovi nomi molto noti: il nostro Jones ha recentemente trionfato a Londra con "Ann get you gun" di Berlin (e non era certo la sua prima regia); altrimenti trovi Nicholas Hytner, la Zambello, Trevor Nunn....
E tutti loro fanno nel musical le stesse cose che si fanno all'opera: cambiano i contesti e le trame, smontano e rimontano le loro storie.
Se ci limitiamo alla tecnica e alla lingua, la regia del musical oggi risponde alle stesse convenzioni di quella operistica.
Nulla di strano dunque che una produzione "operistica" dello Chatelet non sia visivamente diversa da una tipicamente "musical" del Teatro Vick.
Le diverse "convenzioni", quelle su cui per me occorre puntare per decidere il "passaggio" da un genere all'altro, non stanno dunque nel linguaggio registico (o meglio, nel grado di "autonomia" che un registra sarebbe autorizzato a prendersi rispetto al testo), ma su altri aspetti.
Ad esempio, Jones o non Jones, Carsen o non Carsen, al teatro Vick non trovi in fossa un'orchestra sinfonica (quella per cui Loewe scrisse My fair Lady) ma strumenti moderni e amplificati (per bene che vada), altrimenti una base registrata. Allo Chatelet sì.
La figura del direttore d'orchestra è giustamente irrilevante, così come era irrilevante ai tempi di Monteverdi: eppure nelle convenzioni operistiche il direttore musicale è rilevantissimo, anche se si fa Monteverdi, anche se si fa Cole Porter (affidato a Harding) o Kurt Weill (affidato a Gardiner).
Al teatro Vick il cosidetto "realizzatore" (o producer) responsabile del revival può decidere con il director di alterare il testo profondissimamente: riscrivere i dialoghi, tagliare dei songs, aggiungerne altri che magari non c'entrano nulla, inserire battute sulla contemporaneità, ecc....
All'opera tutto questo non è più praticato (se non dai tedeschi, che per tantissimi versi sono rimasti indietro rispetto alle attuali convenzioni operistiche).
Sono questi, per me, gli elementi dai quali si può misurare la portata dell'adozione del musical in seno al repertorio operistico.
Non l'audacia del regista (che può esserci anche a Broadway, mentre può non esserci all'Opera): dal regista ci si aspetta soprattutto (tanto all'opera, quanto al musical) di saper costruire immagini sulla musica e farlo avendo presente l'universo figurativo-emozionale del presente.
Se no, caro G nonché M, continuiamo a operare con due pesi e due misure, e la rivoluzione di Choplin resta quello che è: un sistema per riempire il teatro. E non costringere più i parigini che amano il musical a prendere un Eurostar.
Non nego che questa tua amara considerazione possa celare delle verità.
Resta però da osservare che Choplin, nello scritturare il più famoso regista d'opera vivente, ossia Carsen, non poteva certo sapere che avrebbe offerto di My Fair Lady una lettura così "bonhomme". La scelta di Choplin (ovviamente sulla carta) era impeccabile e abbastanza audace!
Da noi, quando non si importano spettacoli nati altrove, chiamano Carsen per Traviata e Don Giovanni (cosa deve fare se no un regista d'opera?); Choplin per My Fair Lady. Il principio era audace e nella linea di una "fusione" dei generi, secondo le convenzioni operistiche.
Se poi Carsen ha scelto un'altra formula - per altro come abbiamo detto ugualmente lecita - non è certo colpa di Choplin.
Infine, se l'obbiettivo dello Chatelet, era solo quello di riempire il teatro, evitando ai francesi di andare a Londra, perché fare i musical in lingua originale (quando in francia sono sempre stati tradotti); perché spendere soldi per una grande orchestra (quando anche in Inghilterra si ricorre a modesti strumentali più o meno amplificati); perché realizzare l'opera integralmente, senza tagli al testo e alla musica e senza inserimenti di numeri nuovi (mentre anche a Broadway i revivals hanno queste caratteristiche); e soprattutto perchè chiamare cantanti "classici", come Ed Lyon, la Gabriel e Maxwell (Gilfry, che sarà nientemeno che Sweeny Todd fra poche settimane)?
Tutte queste considerazioni mi fanno essere più ottimista di te!
...Su Choplin e soprattutto sul fatto che il musical storico stia trovando - grazie anche allo Chatelet - la sua futura collocazione nelle grandi stagioni d'opera di oggi.
Scusa la lenzuolata, ma la mia logorrea è ahimé cosa nota.
Salutoni,
Mat