Premesso che ovviamente condivido il contenuto dell'articolo di Pietro e Matteo (un po' meno la foto scelta in stile Tg4

), devo dire che il tono con cui si esprime Ceronetti mi pare, alla lettura integrale dell'articolo, un po' diverso da come viene presentato nella risposta del nostro sito.
Chi legge di tanto in tanto Ceronetti ne conosce la penna tutt'altro che impositiva in termini di chiavi di lettura e tutt'altro che demagogica, anzi spesso scomoda e controcorrente. (Non per caso rimane sempre confinato in una colonna che temo leggano in quattro gatti vista la complessità di stile e contenuti con cui si esprime.)
Il tono generale dell'articolo in questione mi sembra poi chiaramente provocatorio e funzionale a una tesi che non mi sembra esattamente quella confutata da Pietro e Mat.
Anzi, mi sembra che Ceronetti sia molto lucido nell'evidenziare le attuali condizioni agonizzanti dell'opera in Italia. Ovviamente lo fa non da melomane, e - soprattutto - non da melomane che viaggia e che ha uno sguardo ad ampio raggio sulla situazione internazionale.
Tutto il sarcasmo sulla Scala, sulla muffa che intacca l'attuale sistema italiano, pullulante di case d'opera sottoutilizzate, sperpero indicibile di risorse economiche, mi sembra più che giusto, coraggiosamente controcorrente rispetto alle solite lagne stataliste e assistenzialiste sul Fus che invece leggiamo e sentiamo in ogni dove.
E soprattutto mi sembra, quello di Ceronetti, un discorso utile a smuovere qualche certezza proprio in quella classe "intellettuale" che, malgrado le lagnanze, è stata ed è maledettamente complice del tracollo dell'opera in Italia.
Ceronetti, inoltre, mi pare non abbia quasi nulla di tutto quello che generalmente si vuole etichettare, in tono dispregiativo, come "intellettualismo di sinistra". E non sono nemmeno sicuro che lui stesso si ritenga un uomo "di sinistra".
Il fatto che parli senza avere un minimo di prospettiva allargata, il fatto che manchi la
pars construens del discorso mi sembrano semmai i veri limiti del suo articolo.
Ma di verità, seppur con accenti iperbolici e provocatori, secondo me ne dice parecchie. Compreso l'interrogativo finale.
Mi sembra giusto riportare qui l'articolo di Ceronetti così che ci si possa fare un'idea esauriente del dibattito.
La Stampa, 15.12.2010
GUIDO CERONETTI
Questa forma di teatro, il melodramma, l’Opera lirica, ha concluso il suo arco a metà del secolo scorso; è destinata a perdersi, è ormai un puro evento d’obbligo, ma di scarso significato. La musica invece è eterna, il teatro è eterno (di eternità per noi misurabili, che non valgono in aeternum). Ma anche nella musica per carnefici di lager c’è un soffio di eternità che vince il male; anche negli allestimenti di disperazione del Gulag c’è il soffio di eternità del teatro. Questo solo conta.
Il cartellone della Scala è, sia pure bellissimo, già un animale impagliato. Anche gli altri cartelloni... Che bisogno c’è di una stagione d’Opera al Regio di Torino? Di quelle voraci cavallette musicali dell’Arena di Verona? Non chiamiamo «cultura» un evento turistico estivo, costosamente mondano, con pizza finale di mezzanotte! La Fenice ha voluto morire, gioiello dell’epoca rivoluzionaria; ma era dal suo nome destinata a risorgere: potrà vivere di concerti. Si potrebbe lasciar vivere il Regio di Parma, dare una mano al festival rossiniano di Pesaro: Verdi e Rossini bastano, sono glorie, ricordi, e un Figaro qua e uno là fanno circensi di allegria.
Ma se con un bilancio divoratore della Scala la saggezza dello Stato (mai ci fosse) potesse restaurare degnamente Pompei, non esiterei un momento a dar tutto agli scavi e a proteggerli dall’incuria e dalla sporcizia. Un altro teatro d’Opera restaurato, anzi rifatto con genialità ammirevole è il Carlo Felice di Genova, ma con spesa molto minore può ospitare qualsiasi altro degno spettacolo.
L’Opera, come il cinema, vixit. Il suo illanguidimento progressivo è inevitabile.
Uno sprecasoldi di genio fu il più grande dei registi che lavorarono alla Scala. Non è nei miei ricordi, ero troppo giovane, ma credo alle testimonianze: una data memorabile fu quando Visconti, il 28 maggio 1955, creò con Maria Callas e Carlo Maria Giulini la sua versione della Traviata. Ce l’ho tuttora, per intero, nel vinile. La Callas fu la Voce dell’Opera della sua epoca, purtroppo obbligata allo stupro dell’imbecillità dei libretti, di cui non se ne salva uno solo. Per poter tollerare Traviata (che fin dal titolo contiene un’idiozia moralistica) bisogna non sapere nulla della trama, essere giapponesi o kazaki digiuni completamente di locuzioni italiane. Quello sciagurato Francesco Maria Piave! La stupidità concentrata nelle parole dell’Andante del vecchio Germont con l’esultante finale di Dio che esaudisce il suo voto di criminale ruffiano: è vero che la musica riscatta tutto, ma genialità e soldi per simili nefandezze fumettistiche sono ali imbrattate di petrolio.
Vixit, l’Opera, trionfalmente, nel secolo XIX; con Puccini e Boito, o Pizzetti, rantola; con Menotti è uno zombi. Bayreuth non avrebbe dovuto sopravvivere a Goebbels.
Nel XVIII l’Opera è puro svago, il suo passo è leggero. Ma l’Ottocento è sotto un segno progressivamente cupo, la moda è costrittiva e triste, il mistero musicale soccombe al tempo ed è inutile nascondercelo, il trionfo operistico è sempre più il dispiegarsi funesto del piacere per mezzo della sofferenza, richiama stuoli di sadomasochisti, le ideologie, l’antisemitismo, il marxismo, il wagnerismo, il freudismo, sono caserme in marcia. Nella Tetralogia non è tanto il Quattro a prevalere, ma la tetra-ggine che la ravvolge nel termine italiano. Quale cultura, se non necrofila, può rappresentare la ripresa, a costi vertiginosi, di una massiccia sequela di colpi in testa come La Valchiria? I capi nazisti, uno più sadomasochista dell’altro, celebravano con l’Opera wagneriana un culto di Kalì travestito da pellegrini cristiani e un Venerdì Santo delle regioni infere. Quell’immenso Incantesimo del Parsifal uccide letteralmente le nostre limitate capacità di liberare, di riscattare l’anima dalle sommersioni nella materia.
Il pubblico che va alla Scala la sera del 7 dicembre ad immobilizzarsi durante quattro o cinque ore, è impossibile immaginarlo spinto da motivi di elevazione spirituale (uso il vecchio termine del pensiero assassinato, col quale sguazzo meglio che se dico culturale). I motivi sono di vanità pura, esibizione di scollature e pettinature, significare presenza. E per questo i violini si agitano, le grandi bacchette sollevano ondate... Ma sulle facce la noia stampa, in un crescendo di afflizioni, le sue impronte d’irresistibile sbadiglio.
Tutto falso, tutto vento che ha fame.
Immancabili, sempre, le dimostrazioni politiche di chi viene apposta per lavorare all’esterno con le urla e i cartelli... Stavolta la materia infiammabile era desunta da disagi di congiuntura... o di università... ci sono poche varianti... ma la novità è stata l’assunzione da parte di un grande Direttore come Barenboim, prima dello spettacolo, della retorica piagnistea dei tagli alle sovvenzioni di Stato. Non mi pare sia stato di buon gusto recitare l’articolo Nove in presenza di Napolitano che la Carta la sa a memoria, più disposto dal suo palco ad applaudire la noia sgorgante dalla scena che a subire l’incongruità di un articolo che l’Italia aggira, frega, irride dal 1947.
Non è certo stato un gesto di cortesia, da parte del Maestro! E temo l’abbia fatto per fingere solidarietà con la piazza e di beccarsi così un’ovazione del tutto separata dai propri meriti di grande artista. Il pubblico pinguino e delle schiene nude sarebbe stato lui degno di applauso, se fosse rimasto in composto glaciale silenzio. Indigesta sempre è la verità.
È amaro pensarlo ma: se la Scala chiude, che male c’è?