Londra 2010
Tutte le volte che ho assistito dal vivo ad un allestimento dell'Adriana mi sono annoiato a morte. Mi sembrava sempre di fare un passo indietro nel tempo, verso forme di teatro ormai irrimediabilmente superate: assenza totale di qualsiasi drammaturgia, cantanti che badavano solo a cantare le loro frasi (bene o male, poco importa) facendo capire benissimo di avere idee molto confuse su cosa stavano facendo, su che storia stavano raccontando, su chi erano i personaggi (ammesso che ci siano davvero dei personaggi, il dubbio restava...) cui davano voce... Il risultato era più o meno sempre lo stesso: una serie di greatest hits vocali più o meno entusiasmanti, e tanti saluti al resto. In ogni caso, l'impressione era sempre quella di un'opera che proprio non riesce a parlare col nostro tempo. Quello che non ero mai riuscito a chiarirmi è se tutto ciò sia imputabile all'opera in sé (non necessariamente implicando valutazioni di ordine qualitativo: ogni epoca sceglie le opere in cui specchiarsi, a prescindere dalla loro qualità) o se invece dipendeva dal fatto che nessuno aveva mai tentato di allestirla con criteri moderni, con un serio lavoro teatrale: nessun grande regista si era mai “sporcato le mani” con questo repertorio; nessun grande interprete (intendo di quelli capaci di aprire nuovi orizzonti ad un ruolo) si era impegnato con questi personaggi in un contesto in grado di approfondirne i caratteri teatrali (se ci sono) al di là degli acuti e delle frasi ad effetto.
Per queste ragioni sono andato all'Adriana di Londra con uno spirito da “o stavolta o mai più”. Stavolta, sulla carta, c'era quasi tutto: un grandissimo regista, interpreti originali, tutti inseriti in un nuovo allestimento che era evidente come fosse stato pensato a lungo e su cui si era investito molto. Soprattutto, la curiosità era puntata su McVicar, e per un'opera di questo genere il fatto che la maggiore curiosità fosse per il regista era un fatto anomalo. Bene, per mio conto McVicar ha creato uno spettacolo magnifico, ma la scommessa principale (quella di far entrare Adriana nella contemporaneità) non credo l' abbia vinta e, per quanto mi riguarda, una risposta al mio dubbio l'ho avuta: quest'opera (e altre simili per estetica e contenuti) al nostro tempo ha poco o nulla da dire. I personaggi, sottratti al loro tipico ruolo di meri pretesti per dispensare acuti e belle melodie, inseriti al contrario in un gioco scenico vivacissimo, fatti scendere (per usare un' espressione cara a qualcuno ) dal piedistallo su cui erano stati costretti a salire (e su cui non erano mai stati, del resto, del tutto a loro agio) dimostrano ancora di più la loro totale inconsistenza psicologica e, d'altra parte, la drammaturgia che sta alla base di testo e musica non permette di dar loro nessuna lettura in chiave simbolica o allegorica, che ci consenta comunque di trovarci qualcosa di interessante e a noi vicino.
A parte queste valutazioni di carattere generale, come detto lo spettacolo di McVicar è magnifico. Come spesso accade con lui, in apparenza tradizionalissimo (compresa l'ambientazione: di un realismo secentesco strepitoso), in realtà rivoluzionario nel rifiutare qualsiasi convenzione. L'elemento che più colpiva era quello che dovrebbe essere il più ovvio: per la prima volta si aveva la netta sensazione che i cantanti si fossero posti il problema, oltre del come dire quello che avevano da dire, anche del perché lo dicevano. Per la prima volta, il Conte di Sassonia non ha cantato (per inciso, benissimo) “L'anima ho stanca” come se dovesse esprimere un dilaniante rovello esistenziale quando, in fin dei conti, il suo unico problema è che ci sono troppo donne che vogliono andare a letto con lui... Per la prima volta, Adriana sembrava veramente una ragazzetta che si trova coinvolta in un gioco più grande di lei, e che pensa che le dinamiche che governano una recita su un palcoscenico possano risolvere anche i problemi della vita vera (il monologo di Fedra e la conclusione del terz'atto erano veramente memorabili: ambientati su un vero palcoscenico, sul quale la Lecouvreur può veramente sentirsi in grado di sfidare la principessa, salvo poi, con un solo cambio di luci, mostrare la realtà della condizione di Adriana). Merito di Kaufmann e della Gheorghiu, certo, ma dietro di loro si sentiva la presenza di McVicar; che, fra l'altro, si conferma come il più diabolico manipolatore della luce che ci sia in circolazione. Sarebbe interessante provare ad analizzare le concezioni che i più grandi registi del nostro tempo hanno della luce: dall'uso allegorico che ne fa Carsen a quello quasi surrealista di Jones; McVicar ha un rapporto con la luce quasi da pittore: con lui gli effetti luminosi hanno una consistenza “ambientale” quasi autonoma, in grado da soli di delineare una situazione, una psicologia, un evento. Strepitoso.
Kaufmann è, prevedibilmente, un grandissimo Maurizio. Pur con qualche incertezza, canta una “dolcissima effigie” infinitamente superiore a quella contenuta nel brutto cd appena uscito e poi prende quota. Ma, soprattutto, si sforza di dare un senso preciso al suo personaggio: superficiale, viziato, incostante, debole malgrado l'apparenza. Che poi il gioco non riesca del tutto, temo dipenda dal personaggio più che dall'interprete...
La Gheorghiu riesce sempre a spiazzarmi: mi sta sommamente antipatica, parto sempre prevenutissimo e poi, per una ragione o per l'altra, mi stupisce. Temevo un po' il suo approccio ad Adriana: la scrittura basata principalmente su una declamazione centrale molto insistita è all'incirca all'opposto delle sue caratteristiche vocali, e temevo si sarebbe lanciata in aperture e forzature per venirne a capo. Tutto il contrario: saggiamente, se ne è infischiata, quasi usando la fragilità dell'emissione per accentuare la fragilità del personaggio. Il duetto finale, così come lo hanno cantato lei e Kaufmann (tutto pianissimo, alitato, con un gioco di rubati diabolico) non esito a giudicarlo come il più bello (o almeno il più emozionante) che abbia mai sentito, dal vivo o in disco.
Corbelli è un grandissimo Michonnet mentre la Borodina appariva decisamente fuori contesto: forse perché subentrava per la seconda parte delle recite, appariva meno coinvolta nell'allestimento, e ho l'impressione che la Schuster delle prime recite fosse molto più in linea con la concezione di McVicar.
La direzione di Elder mi è parsa terribilmente discontinua: alcuni momenti molto belli (in particolare il terz'atto) mentre altri in cui la ricerca di particolari raffinatezze orchestrali annacquava pesantemente la già non travolgente tenuta emotiva della partitura...
In ogni caso: un grande allestimento. Resta la tristezza sul fatto che l'unico serio tentativo di riflessione su uno dei capisaldi del repertorio più tipicamente italiano (ed era spiazzante notare come il pubblico del Covent Garden consideri un allestimento dell'Adriana Lecouvreur una specie di riesumazione di un'opera sconosciuta) la si sia fatta a Londra anziché alla Scala. Ma mi sa che bisogna abituarsi...
Saluti,
Beck