Saba ha scritto:perchè penso che eseguendo la partitura alla lettera si può dare un interpretazione ottimale
Sicuramente bisogna tenere conto delle indicazioni dell'autore, ma non credo che la pedissequa riproduzione letterale sia sufficiente a fare grande una interpretazione, anzi storicamente è spesso stata considerata un limite.
Cito un aneddoto: Jorge Bolet, famoso pianista scomparso a metà degli anni 80, tenne una serie di masterclass televisivi sul II e III concerto per pianoforte di Rachmaninov. Alcuni brani credo siano reperibili su youtube (Classica anni fa li mandò sottotitolati). Ebbene Bolet conobbe Rachmaninov e lo ascoltò più volte dal vivo, oltre che nei dischi. Spesso durante le sue lezioni lo si ascolta dire "Rachmaninov in questo punto usava fare così". In una occasione un allievo presente nel pubblico, credendo di fare il saputello , apostrofò il maestro: "qui non c'è un diminuendo sulla partitura" (ora non ricordo se fosse un diminuendo, un allargando o cosa), e Bolet gli fece un bel discorso sull'interpretazione che se lo ritrovo lo posto perchè estremamente interessante. In tutta sostanza sosteneva che la musica scritta è materia morta priva di significato finchè non le si dà vita attraverso l'interpretazione. Questo mettere in essere la musica come "sostanza reale" passa attraverso non solo la sensibilità dell'interprete (che quindi è lecito si prenda piccole libertà sull'agogica o sulla dinamica per esprimere il suo punto di vista da un lato e l'intento dell'autore dall'altro) ma si scontra anche con la resa reale di ciò che è scritto che spesso, a detta di Bolet, "non funziona". Il pianista si fece quindi testimone delle modifiche che lo stesso Rachmaninov utilizzava quando suonava la sua musica, e utilizzava con costanza, rendendo quindi non episodica quella variazione ma, sostanzialmente, di riferimento. Bolet sottolineava come gli stessi compositori, accorgendosi che quello che essi stessi avevano scritto funzionava meno bene di quel che immaginavano, fossero pronti a "ritrattare" il testo per renderlo più aderente all'idea complessiva che con quella musica volevano comunicare.
Altro aneddoto sempre da quei masterclass: Liszt a casa si Chopin una sera, in una di quelle serate salottiere che erano tanto in voga nell'800. Ad un certo punto Liszt comincia a suonare uno studio di Chopin e, laddove il maestro polacco aveva scritto un crescendo, Listz ci mette un bel diminuendo. Fa in pratica esattamente il contrario. Chopin ascoltando quel nuovo modo di suonare la sua musica si complimentò vivamente col collega affermando che mai la sua musica fu suonata meglio. In poche parole erano gli stessi compositori che ammettevano, da parte di interpreti intelligenti, varianti che comunque esprimessero il senso della loro musica.
Bernstein ricordava spesso come Mahler dicesse che l'essenza della musica è tutto ciò che non è scritto. Nell'interpretazione beethoveniana si rifaceva alla scuola tedesca di Furtwangler (con un piglio decisamente più esuberante) che prevedeva allargando e stringendo qua e la alla maniera dei romantici. C'è anche su questo un vecchio master televisivo dove "spiega" l'incipit della V sinfonia. Bernstein era uno che si prendeva molte libertà, ma non si può certo dire che sia meno geniale di Norringhton solo perchè quando suonava Beethoven non rispettava i tempi metronomici scritti o le indicazioni agogiche. Toglieremmo al mondo il piacere di godere di due punti di vista così lontani e, a loro modo, così convincenti di due grandi interpreti. E stiamo ancora parlando di musica strumentale, dove storicamente c'è sempre stata una attenzione maggiore al testo scritto.
Quanto all'opera, gli stessi compositori assistevano in vita a variazioni e rimaneggiamenti delle loro composizioni, varianti che talvolta deprecavano, ma di cui talaltre erano entusiasti. Senza andare all'800, la storia ci ha consegnato grandissime interpretazioni assai poco filologiche, eppure da alcune di esse traspare maggiormente l'intento globale del compositore rispetto a traduzioni letterali del testo che, molto spesso, non contiene neanche tutte le informazioni necessarie per la realizzazione. Il mio, beninteso, non è un elogio dell'anarchia, ma piuttosto un'analisi di come normalmente, da che esiste la musica, viene affrontata la questione dell'interpretazione, almeno da parte della maggior parte degli interpreti.
Saba ha scritto:basta vedere la Callas, puoi ascoltarla con lo spartito sotto e vedrai che non lascia nulla al caso
E invece, caro Saba, la Callas era una che ne combinava di cotte e di crude, almeno dal punto di vista filologico. Questo non vuol dire che non fosse attenta al testo, tutt'altro, ma ammetteva che nella resa complessiva di un personaggio DOVESSERO rientrare delle modifiche allo spartito. Nel repertorio belcantistico, che poi era il suo forte, difendeva la pratica dei tagli (che oggi fa tanto inorridire), operava spesso variazioni "di tradizione", semplificava e modificava all'occorrenza fraseggi, forcelle, corone e spesso anche le note stesse (il finale del suo Casta Diva ha due varianti, e nessuna di queste è quella scritta da Bellini con il trillo). Non era una mera questione "dei tempi", lei credeva fermamente in quel tipo di approccio, che continuò ad insegnare anche nei suoi master del 72 quando ormai i tempi erano cambiati. Se c'è una cosa che la generazione successiva le riproverò (e qualche detrattore le rimprovera ancora) fu proprio quella di essere stata scarsamente filologica, specie nel repertorio romantico, del quale dava una sua personalissima interpretazione alla luce di una nuova visione estetica che in quel periodo la fece da padrona (vedi anche intervista alla Gencer). Del resto puoi confrontare tutte le sue incisioni di Lucia e notare che alcuni passaggi suonano assai diversi da una registrazione all'altra. Mi viene in testa un piccolo frammento di transizione nel primo atto "egli è luce ai giorni miei, è conforto ecc.", sostanzialmente il ponte tra cavatina e cabaletta, ebbene se ascolti questo passaggio, tutto sommato secondario, nel 53 e nel 59 sentirai tante piccole differenze non solo nel timbro (ovviamente) ma nell'impostazione della frase.
Come mi viene in testa il passaggio "oh vergogna!" dal sonnambulismo del Macbeth che esegue talvolta in "piano" con voce coperta, talvolta in "forte" in apertissimo registro di petto, e potrei fare altri mille esempi.
E' verissimo, la Callas non lasciava nulla al caso, perchè ogni minima variazione dell'intesità, del fraseggio o dell'accetto era studiatissima, ma questo non voleva necessariamente dire che seguisse passo passo tutto quel che c'era scritto sullo spartito. Quel che faceva la Callas, e quello che secondo me fa il grande artista, era partire dall'analisi di ciò che era scritto (quel che chiamava "la camicia di forza") per arrivare ad una visione globale del PERSONAGGIO e della sua psicologia attraverso la quale trovare non solo il gesto scenico ma pure la variante interpretativa che esaltasse l'idea che lei aveva in mente.