Caro Bertarido,
nel nostro forum il presente argomento è stato spesso affrontato (e forse sarebbe il caso di spostare anche questa discussione nelle sedi ove già se ne è parlato; ma tutto sommato credo che sia bene tenerla qui, dove si parla di Kaufmann e del suo Werther "declamatorio").
Io credo di aver turbato molte menti e aver suscitato un diffuso sconcerto col mio "relativismo" tecnico-canoro, specie fra le persone non giovanissime, come sono io (fra poco quarantenne) e mi par di capire anche tu, cresciute negli anni in cui il Cellettismo imperava.
Fra i giovanissimi (cresciuti in anni diversi, nell'era del DVD che ti permette di avvicinare Strauss e Wagner senza timori, negli anni di Internet che ti aggiorna in tempo reale su tutto ciò che avviene nel mondo) ho trovato molto più facilmente persone disposte ad accettare le mie tesi "eversive" con naturalezza, come se non ci fosse nulla di strano. Me ne sono accorto non solo su Operadisc, ma anche in occasione di un piccolo corso sui "cantanti del 2000" che ho tenuto in diverse città italiane. I giovani erano sempre i più disinvolti nell'ammettere suoni che, in base alle tecniche antiche, qualcuno ancora considera scorretti.
La mia tesi (diciamo così "fenomenologica") era che la distinzione fra suoni "leciti" e "non leciti" nell'ambito del canto classico fosse dettata non da "postulati metafisici", bensì da convenzioni, dettate esclusivamente dal gusto (in costante evoluzione) del pubblico, a sua volta connesso ai movimenti delle epoche e dei tempi. le grammatiche canore (come quelle linguistiche) si ricavano da ciò che i cantanti "fanno" DOPO CHE L'HANNO FATTO (e dopo che il pubblico l'ha approvato, inserendolo nel vocabolario), non da regole "a monte", postulati, premesse.
E' la stessa differenza fra la matematica e la fisica: la prima parte da assiomi per discendere, la seconda parte dai fatti per risalire.
Se vogliamo capire il "canto classico" dobbiamo fare lo stesso. Partire dai suoni.
Il creatore di questa "fenomenologia del canto" non sono io, ma un critico, ora morto, a molti ignoto, ma che forse tu ricorderai: Angelo Sguerzi, che era solito scrivere "in principio era il suono".
La sventura di Sguerzi fu di scrivere in anni in cui le dabbenaggini e le semplicionerie del Cellettismo imperavano davvero (non come oggi, che sono rimaste in mano a pochi nostalgici, che nessuno considera più: basta vedere i tripudi che anche in Italia vengono tributati ai cantanti che loro credono di poter demolire). Su Sguerzi cadde il silenzio: eravamo in pochi a comprare i suoi libri editi da Bongiovanni.
Eppure lui fu il primo a intuire già negli anni '80 che la molteplicità di scuole (e suoni) facenti parte quel gran complesso che è il "canto classico" (storicamente inteso) non poteva rientrare in un unico concetto di "respiro", di "sostegno del fiato", di "immascherazione", di "copertura del passaggio", che veniva spacciato come giusto, sacro, eterno, immutabile, insomma "unico".
Non arrivò, lo Sguerzi, a sistematizzare il problema. Si limitò a rilevarlo, e questo fu il suo grandissimo, incalcolabile contributo.
Su questo forum mi sono dovuto scontrare molto duramente "contra dogmaticos" che non erano disposti a rinunciare alla loro "verità".
Il fatto che i dogmatici se ne siano andati dal nostro forum (non potendo ammettere, come ogni dogmatico, un confronto sui fatti) non è per me motivo di doglianza; a differenza dei "buoni" fra noi (categoria a cui io, Cartman, non posso appartenere) non credo affatto che il contributo di un dogmatico sia così importante alla discussione.
Sono invece rimasti -e per fortuna - tanti amici che, pur accettando "parte" delle mie tesi, sentono il bisogno di restare attaccati a un ultimo spicchio di verità, un piccolo puntello metafisico che dia loro la certezza che "non tutto è il nulla!"
Una specie di "cogito" cartesiano o di "noumeno" kantiano....
Un qualcosa a cui comunque attaccarsi: anche nel canto c'è un qualcosa di immutabile, di assoluto... sarà piccolo, sarà minuscolo, ma c'è.
E quello "tutti i cantanti" devono possederlo, altrimenti non cantano bene.
se canti sdraiato, a testa in giù, Wagner o Heandel, se sei ungarico o mandarino, chiunque abbia dimestichezza con i fondamenti della tecnica di canto sa che il suono non può privarsi dell’”appoggio” altrimenti si sgonfia come un soufflé e l’intonazione va a farsi benedire. Con l’appoggio buono, ma non solo quello, puoi fare poi quello che vuoi, declamare ed accentare le sillabe, e farle diventare “carne e materia”, oppure tradurre il suono in una linea perfetta; ma queste sono scelte “meramente” stilistiche. Prima di concludere volevo dire che ho letto anche con grandissimo interesse la tua recensione della Sonnambula in particolare quanto hai scritto sulla Dessay sulla cui vocalità mi piacerebbe poi fare alcune riflessioni.
Io, se fossi savio, dovrei accontentarmi.
In fondo, Tu, Teo, Luca ...ammettete che è vero: i grandi declamatori non sono dei dilettanti, esistono scuole diverse, esistono diverse "famiglie" e una Martha Moedl o un Fischer Dieskau hanno ben più diritto d'asilo nella "storia del canto classico" di quanto non ne abbia una Maria Chiara o una Jessica Pratt (a proposito, come mai è sparita dal cast di Rigoletto alla Scala?).
E allora perché non mi accontento, direbbe un ex-cellettiano: "che più cercate? offersi assai..."
Pur non basta, mi tocca rispondere. Non basta.
No, la frase che ho citato è "logicamente" inaccettabile.
E cosa succede se uno non canta nel modo che tu consideri "giusto"? (appoggio, fiato, ecc...)
Succcede che "sbaglia", risponderesti tu.
E chi lo decide che un suono è sbagliato?
Tu? Celletti? Kant? Cartesio? la "Natura"? Dio?
No! Lo decide il pubblico, la comunità dei fruitori; coloro per cui l'opera è fatta e rappresentata; quel pubblico che si è spellato le mani di fronte al pianissimo di Kaufmann in Carmen.
E se il pubblico decide che quel sono (pur essendo emesso contra dogmaticos) "è giusto" non c'è "cogito" che valga.
Oggi il pubblico fischierebbe molti suoni di antichi geni del canto come la Melba o Plasson; allo stesso modo applaude altri suoni di Kaufmann e la Denoke, che sarebbero stati fischiati ai primi del '900. I suoni antichi sono usciti dal vocabolario; i suoni nuovi vi sono entrati.
I postulati vanno a farsi benedire. E la grammatica, se vuole continuare a essere utile, deve introiettare le evoluzioni, decifrarle, comprenderle, farle proprie.
Tu scrivi
Un pianissimo è un pianissimo e a qualunque latitudine un cantante abbia studiato si deve sentire, deve essere “sonoro” se vogliamo che gli spettatori presenti in sala lo odano; e i pianissimi di Kauffamn a Parigi si sentivano, eccome ed erano tutt’altra cosa da quelli emessi a Milano:
In generale...
Che un pianissimo sia un pianissimo è un "bel sogno beato di pace e contento".
Un pianissimo della Von Otter non è un pianissimo della Ponselle. Un pianissimo di Schipa non è un pianissimo di Vickers. Così come un pianissimo di Céline Diol non è lo stesso di Modugno.
Sentili a confronto, Bertarido... Fai come faceva Celletti: metti su quel suono, solo quel suono, sentilo cento volte a confronto con gli altri.
E sentirai che è diverso tutto: l'uso del fiato, l'uso dei muscoli della gola (in certi casi rilassatissimi - i vocalisti - in altri volutamente contratti - i declamatori e soprattutto i coloristi), l'uso della maschera.
Non c'è nulla in comune.
Nel particolare (ossia parlando di kaufmann).
Come ha scritto Enrico, tu parli di registrazioni, col microfono nel naso.
Come puoi valutare la diversa "propagazione" dei pianissimi di Kaufmann in spazi diversi?
Io non ho sentito la Carmen, ma ho sentito Kaufmann dal vivo già quattro volte dal 2002 a oggi. E i suoi pianissimi si sentono sempre benissimo, anche in spazi giganteschi.
Ma si sente sempre anche la loro "matericità" (quella che svanisce nella linea di un vero vocalista); i cellettiani direbbero la loro "fibrosità", la loro "legnosità"... Certo che si sente! C'è! E' voluta.
Sono suoni stupendi ottenuti con contrazioni della gola, non con il dosaggio del fiato (pensa ai pianissimi di Pertile ad esempio).
E non di meno sono emozionanti, tecnicamente incredibili, udibilissimi anche nei grandi spazi: proprio come quelli di Vickers.
Posso essere d'accordo con te che sono suoni più indicati per il Werther (ruolo molto orientato verso il declamato) che per il Don José (dalle radici ancora scopertamente vocalistiche), ma credimi sono gli stessi identici suoni.
Una breve risposta anche all'amico Teo.
Tornando infine al discorso relativo ai pianissimi di Kaufmann, sinceramente non saprei dire quale visione Jonas abbia dell’appoggio, anche se è chiaro che senza sostegno non si può cantare; quello che a mio avviso è certo è che l’attacco del suo pianissimo è realizzato in maniera totalmente diversa da quella che per esempio potremmo ascoltare in un Tito Schipa, anche se alla fine, la dinamica del fiato nel suo processo conclusivo è la stessa (dissolvenza del suono).
Senza sostegno non si può cantare... certo anche senza polmoni, senza corde vocali, senza bocca... ecc... ecc...
Ma - come giustamente tu affermi - quel sostegno può essere realizzato in modo completamente diverso.
Nel diverso uso del fiato sta la maggior differenza fra "declamatori" e "vocalisti" (non parliamo poi dei coloristi, un mondo a parte).
Quello che ti dici infatti è giustissimo.
Schipa usa il fiato in un modo, Kaufmann in un altro. Eppure entrambi smorzano.
Solo che i suoni che emettono sono diversi come potrebbero esserli quelli di un rockettaro e di un cantante gregoriano.
Quanto a Schipa e al suo uso del registro centrale, ci sarebbe molto da dire.
Il Cellettismo gli ha steso sopra una coperta di "ufficialità" che ne ha snaturato l'immenso contributo.
Schipa è stato il primo e più grande pioniere del "colore" della storia del canto italiano.
Un salutone,
Mat