Caro Enrico,
premetto che concordo in partenza sul fatto che stabilire la "romanticità" di Romani o il "classicismo" di Cammarano sia un esercizio molto faticoso, e forse anche inutile. Troppo sono le interrelazioni, le contraddizioni, le aperture a una o all'altra scuola.
Il fatto è che entrambi sono romantici; entrambi sono classici (potremmo dire lo stesso di quasi ogni poeta italiano del periodo), come tu hai dimostrato benissimo.
Quello che conta (e che avevo scritto nel thread su Lucia e da cui Tucidide è partito per aprire il presente) è investigare la natura specifica dell'uno rispetto all'altro, le diversità di stile, le rispettive novità che hanno impresso al modo di fare libretti nei loro anni.
Tucidide, almeno così mi pare, ha frainteso il mio concetto.
Se uso la parola "classicismo" nei confronti di Romani non è certo perché non lo consideri un Romantico.
Lo era! Altroché se era Romantico!
E' stato il primo grande librettista romantico italiano.
Il suo però era un romanticismo diverso da quello (innovativo) che sfoderò Cammarano qualche anno dopo.
Quello di Romani era, per me, un romanticismo più ...classicheggiante, che si esaltava nelle proporzioni, nelle euritmie.
Constable contro Turner, per intenderci...
Il modo in cui Romani concepiva l'azione teatrale, il suono e lo stimolo ritmico del verso (pur all'interno di un tracciato già romantico) è solennemente affrescato, curato nelle proporzioni, negli equilibri, nei chiaroscuri, nelle sue grandi architetture.
I tempi si dilatano, con Romani, in funzione del volo che il compositore prenderà, sulle ali del "sublime". Il suo è un romanticismo dai campi lunghi, che ama gli spazi, le grandi foreste, gli ampi saloni, i panorami alpini e soprattutto che è dominato da un senso di ordine, di compostezza, fin nel recitativo o nell'uso dei versi, che sono lunghi e dilatati, dal respiro lento, ricchi di enjambements
Se leggi "Al dolce guidami" capisci subito non è un banale cantabile in quinari, come parrebbe:
Al dolce guidami
castel natio,
ai verdi platani,
al queto rio,
che i nostri mormora
sospiri ancor.
Colà, dimentico
de' corsi affanni,
un giorno rendimi
de' miei primi anni,
un giorno solo
del nostro amor.
Nascosto lì, ci trovi un vero e proprio endecasillabo (il primo quinario sdrucciolo diventa un senario, che unito al quinario piano o tronco che segue, produce l'effetto di un endecasillabo rolliano).
E l'endecasillabo come sai era bandito dai brani lirici dei libretti d'opera (perché riservato al recitativo).
E invece Romani lo recupera, sia pure travestendolo, per dare al canto di Anna un senso di infinitezza sublime, eppure raccolta, ipnotica.
E Donizetti lo capisce bene. E non si fa scappare l'occasione di comporgli sopra quella melodia incantata che tutti conosciamo, che si adagia lunga e struggente su tutto l'arco del verso.
La tesi è confermata dal fatto che i versi dispari (1-3-5-7) non sono in rima fra loro, riservandosi le rime solo ai versi pari (2-4-6-8).
Al dolce guidami castel natio,
ai verdi platani, al queto rio,
che i nostri mormora sospiri ancor.
Colà, dimentico de' corsi affanni,
un giorno rendimi de' miei primi anni
Quale altro librettista dell'epoca avrebbe osato un simile verso, così ampio, sfinito, struggente!
Questo è ciò che intendo quando parlo di "classicismo" di Romani.
Il senso della vertigine (romantica) è da Romani ricomposto in ampiezze controllate, squarci di natura maestosi ma non selvaggi, senso della sfumatura e del trapasso chiaroscurale, brivido dell'infinito ma solo al di là di "quella siepe".
Cammarano è a sua volta un romantico (è vero) ed è a sua volta sensibile alla lezione dei classici (anche questo è vero), ma il suo stile - almeno a partire dalla metà degli anni '30 - è diverso.
Il suo verso non è assaporato, composto, inglobante, ma aggressivo, ritmato, aggettante: stimola i compositori allo slancio, al paradosso, alla rincorsa.
Proprio i versi da te citati del Trovatore (quando, non dimentichiamolo, era un Cammarano già declinante e incline al manierismo) lo attestano:
Tacea la notte placida
E bella in ciel sereno
La luna il viso argenteo
Mostrava lieto e pieno
Quando suonar per l’aere
Infino allor sì muto
Dolci s’udiro e flebili
Gli accordi fi un liuto
E versi melanconici
Un trovator cantò
Sono normali settenari, ma il prevalente ritmo giambico (e l'alternanza di versi sdruccioli e piani) costringe Verdi a un cantabile bellissimo, ok, ma pur sempre a "rincorsa", dove ogni frase musicale pare slanciarsi a partire dalla precedente, anche perché ogni verso è un blocco di concetto.
Il personaggio non si "placa" in una sublime meditazione, come farebbe con Romani, ma palpita, freme, assale, partecipa alla storia che narra e rivive.
Bellini e Romani, a leggere questi versi, si sarebbero guardati in faccia perplessi.... ma che cantabile è questo? Sembra una cabaletta...
Vuoi un vero cantabile? Beccati questo:
Come per me sereno
Oggi rinacque il dì!
Come il terren fiorì
Più bello e ameno!
Mai di più lieto aspetto
Natura non brillò;
Amor la colorò
Del mio diletto.
Questo è un cantabile! Due quartine di settenari (uno piano e due tronchi), alleggerite da un quinario di profumo saffico (che unito al precedente evoca ancora una volta l'endecasillabo). La stessa alternanza delle rime (ABBa CDDc) da un senso di stabilità, raccoglimento, di completezza...
Di (se mi concedi l'espressione) emozione misurata, dominata, circoscritta.
Altro che la corsa a perdifiato di "Tacea la notte placida".
Ma prendi questo...
Com'è bello! Quale incanto
In quel volto onesto e altero!
No, giammai leggiadro tanto
Non sel pinse il mio pensiero.
L'alma mia di gioia è piena,
Or che alfin lo può mirar ...
Ma risparmia, o ciel, la pena
Ch'ei mi debba un dì sprezzar.
Dentro al personaggio (Lucrezia Borgia) si agitano sentimenti sconquassanti... fuori invece, nella purezza statica del verso, tutto si ricompone in un tale equilibrio e semplicità di esposizione che il povero Donizetti si vede costretto a sfoderare arpe angeliche e una delle sue melodie più dolci e sfumate.
L'inferno con Romani si intuisce, lo si intravede, lo si percepisce con orrore sotto la compostezza maestosa della superficie!
Con Cammarano no: l'inferno si mostra, fiammeggiante e sfacciato; gli orrori sono espliciti ed erompono provocatori.
Regnava nel silenzio
Alta la notte e bruna...
Colpìa la fonte un pallido
Raggio di tetra luna...
Quando sommesso un gemito
Fra l’aure udir si fe’,
Ed ecco su quel margine
L’ombra mostrarsi a me!
Di nuovo una corsa, una progressione, una vocazione allo squilibrio, al dissesto.
Romani lavora le sue psicologie nel profondo, tratta i sentimenti nella loro complessità più freudiana e inquietante (la Bolena è un capolavoro in questo senso), ma lo fa senza permettere loro di ermompere, di scagliarsi fuori, sconvolgendo la grandiosità della struttura.
Per Cammarano invece la stessa struttura narrativa coincide con l'eruzione. I personaggi si contorcono, si estremizzano, si rivoltano.
I loro sentimenti più contraddittori li spaccano ed escono fuori.
Sarà per questo che la "pazzia" per antonomasia è quella di Lucia? E non i grandiosi precedenti romaniani di Amina, Imogene, Anna?
Le tue interessantissime citazioni paiono darmi ragione:
In una lettera a Cavour, nel 1839, scriveva: «Io non sono né classico né romantico; amo il bello e l'ammiro ove c'è»
Il bello...
Ossia il misurato, il proporzionato, il saldamente strutturato...
lodò invece la Callomazia di un tal Bernardo Bellini perché l’autore “non fu trascinato dal torrente che rapisce la maggior parte dei poeti moderni; e non pose in non cale né i classici greci e latini né i padri dell’Italiana Poesia; non si diede al libertinaggio che ha per guida il capriccio, e per assioma: s’ei piace, ei lice”.
Cosa aggiungere? E' detto tutto...
Già gli argomenti scelti, con le loro fonti, secondo Mazzoni, che cita anche l’autorità di un musicista come Pacini, servirono a favorire lo sviluppo di un romanticismo musicale: perché le novità del libretto, negli argomenti e nelle parole, spingono il compositore a cercare e trovare nuove forme.
Come ho già detto, io non ho affermato che Romani non fosse un romantico. Lo era. Lo ho dichiarato plurime volte anche in passato su questo forum.
Quindi ti dò ragione (e dò ragione al Mazzoni) nell'inserirlo fra i padri di questa temperie librettistica.
Ho solo detto che il suo era un romanticismo di un certo tipo, sicuramente non nero, sconvolto, satanico. Non certo "byroniano". Non "turneriano".
Nel melodramma in generale il rispetto delle regole classiche, a partire dall’unità luogo e di tempo, era quasi impossibile: l’unità di luogo spesso non c’è per nulla, quella di tempo a volte c’è solo in apparenza:
Qui però Mazzoni mi pare mescoli concetti non del tutto assimilabili.
Il classicismo (o neoclassicismo) primo ottocentesco non era tale per l'osservanza alle regole e unità aristoteliche (che furono i francesi a imporre al teatro moderno, più che il povero "ipse dixit").
Quello delle regole e delle unità era un problema "pratico" su cui si erano scannati nel 500 e nel 600... Già nel 700 era diventata una questione oziosa.
I "classicisti" dell'800 ormai se ne fregavano della Unità e puntavano piuttosto a una "distanza" emotiva dalla narrazione; a una perfezione di forme e di equilibri che, secondo loro, li avvicinava spiritualmente agli "antichi".
Ciò che Mazzoni fa notare, dopo aver dedicato una mezza pagina anche al povero Pepoli, è l’avvenuta trasformazione del melodramma da genere tipicamente classico (Zeno, Metastasio) a prodotto decisamente romantico:
Ecco. Questo è proprio l'inghippo che denunciavo prima.
Mazzoni confonde l'osservanza alle "regole" (dei francesi e dei nostri poeti riformati, i sedicenti "arcadi") con il Classicismo.
Ma Zeno e Metastasio, seppur rispettosi delle "regole" (detti per questo "infranciositi") non possono essere definiti "classicistici" e non certo in senso ottocentesco, per la semplice ragione che in loro non agiva alcun culto per l'Antico (come invece nei nostrani pre-romantici).
Ma questo sono quisquilie.
Ciò che conta è grazie alla ricchezza dei tuoi interventi, delle tue riflessioni e citazioni, abbiamo l'occasione di ragionare insieme su questi affascinantissimi problemi.
Salutoni,
Mat
PS
Enrico ha scritto:A parte il riferimento a quel tal Pietro Bagnoli, che andò costantemente ma invano alla ricerca di “un tema nuovo”
Ed è quell' "invano" che lo distingue dal nostro...