I tagli del FUS

problemi estetici, storici, tecnici sull'opera

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Re: I tagli del FUS

Messaggioda Tucidide » lun 14 set 2009, 18:59

MatMarazzi ha scritto:Da quel che mi pare di capire, vorresti attribuire all'innalzamento del linguaggio "operistico" in senso intellettuale... la responsabilità di tenere lontani i "nuovi appassionati" e addirittura adombri un'alleanza di questa logica con i "passatisti di varia natura".
Così facendo, secondo me, attui un rovesciamento completo della questione.

Oddio! :shock: Non riconosco il mio pensiero! :D
Mai parlato di alleanze sotterranee, occulti complotti e altro ancora. :)
Io credo che la questione vada affrontata scindendo due concetti che ti (e mi) sono particolarmente cari: da un lato, i contenuti, dall'altra la forma, o, se vogliamo, i linguaggi.
Dal mio punto di vista, è soprattutto la forma lo spauracchio che tiene alla larga molti. E più precisamente, proprio la forma che tu stigmatizzi: il tenore strappacore con la camicia aperta sul petto, e tutto quel che ne consegue o ne è corollario.
Prendiamo il Don Giovanni messo in scena da Guth, la mia ultima visione, vivamente consigliatami da Maugham. Per inciso, spettacolo stupendo! :D
Ci sono contenuti precisi, che però sono ben afferrabili solo a chi, come diceva Beck, prova un interesse tale da mettersi lì e ragionare un po': diciamo, il pubblico "alto", culturalmente selezionato, quello che riflette sulla dinamica e sulla natura dei rapporti sociali che Guth mostra. In questo, ripeto, è indubbio che occorra un certo tipo di spettatore, culturalmente di livello medio-alto.
Dall'altra però, c'è una forma che a noi appassionati non crea neppure troppa meraviglia, ma che sicuramente risulterebbe spiazzante in un neofita, che crede che all'opera siano tutti vestiti con le culottes, le calze di seta, le parrucche e i merletti. Oltre alle scene e ai costumi, anche la recitazione e la scelta di interpreti fisicamente credibili si configurerebbe come un qualcosa di inaspettato in una persona che pensa che i cantanti lirici siano tutti grassi e statici.
A mio avviso, è questo secondo aspetto la leva che potrebbe scardinare la resistenza dei pregiudizi della gente. Questa forma "innovativa" (che innovativa non è, ma che la gente non conosce) potrebbe suscitare la curiosità di molti che finora si sono sempre tenuti alla larga dai teatri e che hanno sempre cambiato canale le rare volte che la TV trasmetteva un'opera.
Non esiste contraddizione fra pubblico "colto", selezionato, e massa. Semplicemente, i primi sarebbero in grado di valutare aspetti "reconditi", contenutistici, la seconda sarebbe incuriosita dalla forma.
Altro che alleanza passatisti-elitari! Giusto l'opposto!
Ho fatto vedere ad un amico totalmente digiuno di opera scene del Don Giovanni in questione.Trattandosi di un conservatore che odia visceralmente tutto ciò che puzza di intellettuale, ha reagito negativamente (non mi aspettavo nulla di diverso :) ), ma si è comunque stupito (e questo aspetto mi interessava verificare) che al giorno d'oggi le opere si possano mettere in scena così. Lui credeva che ancora si usassero i fondali dipinti, le parrucche, eccetera. Ignorava persino che ci fosse un regista, nel teatro d'opera: "tanto, non ci sono le didascalie?". :mrgreen:
Spero di essere stato chiaro. :D
Quelli che tu chiami "melomani vecchia maniera" (i passatisti) sono i primi a non tollerare la svolta "alta" della Lirica.

Tutto vero. Non a caso, scrivevo:
è proprio questo il rimprovero mosso da alcuni allo stato attuale delle cose nel mondo dell'opera: il fatto di non rappresentare il passato, conservando antiche prassi in modo immutabile, ma di reinterpretare una forma d'arte vecchia in chiave nuova, senza curarsi di non rispettarne le forme originarie


Contrariamente a quanto tu affermi (e a quanto vorrebbero i nostalgici) proprio la recente specializzazione operistica come cultura "alta" (in atto da molti decenni, ma generalizzata solo dagli anni '90) e il conseguente aggiornamento del linguaggio ha favorito l'ingresso a teatro di un'enormità di nuovi appassionati.
Gente che fino a vent'anni fa snobbava l'opera (la considerava un genere finito, pieno di tenori con capelli cotonati e camicia bianca aperta sul petto villoso intenti a singhiozzare la Tosca...) oggi riempie i teatri e guarda con rispetto al genere che amiamo.
Trent'anni fa i teatri d'opera erano vuoti. Oggi sono pieni...

Tutto bene! Ma secondo me non è ancora abbastanza. O almeno, non si fa abbastanza per incrementare ed alimentare questo flusso di nuovi appassionati.
Ultima modifica di Tucidide il lun 14 set 2009, 19:41, modificato 1 volta in totale.
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Re: I tagli del FUS

Messaggioda Tucidide » lun 14 set 2009, 19:13

beckmesser ha scritto:Due parole sull’altra tranche del 3D. Personalmente concordo in pieno con Matteo: l’idea dell’opera lirica come spettacolo “popolare” e che la salvezza (ma salvezza da cosa, poi? L’opera starebbe benissimo se non fosse gestita da incompetenti) stia nel convincere le folle ad andare a teatro, secondo me non sta né in cielo né in terra. Qualsiasi genere di spettacolo produce un repertorio che è, in parte, puro entertainment e, in parte, “arte”.

Scusami, Beck, ma non sono assolutamente d'accordo!
Sarò cinico, gretto, gramo, incompetente, ma non riconosco alcuna differenza fra intrattenimento e arte.

Kubrick è cinema e i Vanzina sono cinema; Moccia è “letteratura contemporanea” (si fa per dire) e David Wallace è letteratura contemporanea (senza virgolette…); nel ‘700, Mozart era melodramma e Martin Soler era melodramma. Nell’opera lirica contemporanea (che non crea più repertorio) vale lo stesso principio: un Rigoletto Nucci-Pizzi-Oren è “entertainment”, non produce pensiero, non fa progredire il genere, serve solo a far passare una serata fuori di casa; una Carmen Antonacci-Gardiner o un Lohengrin Kaufmann-Jones (che, ahimé, non ho visto) sono altra cosa, e non solo nei risultati: proprio programmaticamente, come genere.

Non mi trovo d'accordo con i paralleli che fai.
Senza alcun intento provocatorio, non me la sentirei di liquidare un regista o uno scrittore che vendono molto come "fenomeni commerciali". Se trovano pubblico, significa che hanno dalla loro l'arte sufficiente per trovare questo pubblico.
Moccia, che a me non interessa affatto, non è peggio di altri scrittori, solo perché si rivolge ad un pubblico non acculturato. Ha saputo trovare una ricetta che gli consente di far leggere molte persone che altrimenti non leggerebbero. Merito non da poco.
Volerli incasellare come "fenomeni commerciali" è mossa da critici, ossia di quella schiera di persone che si pongono in antitesi, anzi in lotta con la Storia, volendo far trionfare la propria visione dell'arte su quella che il pubblico ha deciso. Contini lasciò Grazia Deledda fuori dalla sua antologia della letteratura italiana, che però comprendeva Tonino Guerra. Intanto, però, povero Contini, se vai in una libreria Canne al vento lo trovi tranquillamente, mentre per le poesie di Guerra devi piangere in greco! :P
Eventuali questioni sulla qualità sono di lana caprina. Il Lohengrin di Monaco non è qualitativamente superiore perché qualcuno (il critico) lo ha deciso, ma perché ha trovato riscontro nel pubblico, il solo, l'unico che può decidere.
E il pubblico non sbaglia: dopo un Rigoletto di Nucci si leggono o sentono commenti tiepidini, mentre dei grandi spettacoli, quale sicuramente sarà stato il Lohengrin in questione, si leggono recensioni e testimonianze entusiastiche.

E non credo sia corretto confondere le folle che cercano gli spettacoli della Netrebko o le scene descritte da Matteo fuori dal teatro di Monaco per il Lohengrin per esempi di interesse “popolare”: è chiaro che, se si crea un “evento” teatrale (o almeno qualcosa supposto essere tale), la domanda supererà sempre l’offerta, ma il “popolare” c’entra poco o nulla.

E perché non sarebbero "popolari"? A suo modo, quelli sono avvenimenti popolari.
Non penso che tutti si siano precipitati in massa per vedere la sconvolgente nuova interpretazione di Violetta data dalla Netrebko: alcuni, forse più di due o tre, saranno stati incuriositi anche solo dal fatto di poter vedere in scena una Violetta fisicamente credibile. E in questo, mi riallaccio a quanto detto sopra: la forma, per attrarre la gente, è fondamentale.
Dicono tutti che oramai siamo nella Civiltà dell'immagine, schiavi del Grande Fratello eccetera. Premesso che per me è l'ennesima stupidata da intellettualoidi, ammettiamo che sia vero. Beh, allora, se è vero, sfruttiamola 'sta benedetta immagine, dio santo! :D
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Re: I tagli del FUS

Messaggioda MatMarazzi » mar 15 set 2009, 10:31

beckmesser ha scritto:credo che occorrerebbe distinguere fra l’idea del contributo statale alla cultura teatrale in sé e come esso è strutturato in Italia.


Caro Beck,
questo è effettivamente un altro problema, che è giusto considerare.
Sono d'accordo con te in senso "pratico", un po' meno in senso "teorico".
Ossia: è vero che lo Stato può intervenire "meglio" di come faccia in Italia (ed è su questo fronte che al momento occorrerebbe lavorare); ma è anche vero - almeno per me - che certe "tare" sono connesse al fatto stesso che lo Stato intervenga.
Quindi posso concordare con te sull'esigenza che, a breve raggio, si migliori quel che c'è, spingendo i teatri e gli operatori culturali verso una mentalità privatistica (ma che lo sia realmente!) senza sognare per ora una privatizzazione totale e immediata.
A lungo raggio, però, credo che si arriverà (si dovrà arrivare) alla totale esclusione dello Stato da molte faccende, fra cui la gestione dell'Opera, che - sia detto una volta per tutte - non gli competono e nelle quali può solo fare danno.

Io credo che l’idea di Matteo sia interessante e utile, ma applicata tout court dubito possa funzionare, e non credo che il paragone coi musicals regga fino in fondo.


Come ho detto sopra (e tu stesso affermi poco sotto), la rivoluzione non potrebbe partire dai teatri "grandi", i mastodonti di stato, molti dei quali (almeno all'estero) godono di ottima salute e non richiedono particolari evoluzioni.
Dovrebbe partire da teatri piccoli, che sono (tenetevi stretti) decine di migliaia nel mondo e non solo in piccole città, ma anche in grandi città.

Mettiamo il caso che il sovrintendente di una Scala organizzata col metodo-Marazzi decida di allestire un Don Carlo. Che fa?


Questo è il primo errore, Beck! (lo dico in riferimeno al ...ehm... "sistema-marazzi") : Thanks :
Il direttore della Scala (o del Met o della Staatsoper, ecc...) non potrebbe, al momento, avventurarsi in un simile progetto, perché le strutture che dirige sono concepite per tutt'altro.
No... dovresti essere tu, imprenditore privato Beckmesser & C, a partire.
Faccio un esempio.
Decidi di allestire per il 2013 un bell'Ugonotti. Ti metti in giro per Agenzie e "opzioni" un'orchestra privata (con i suoi due direttori principali), i cantanti (almeno due cast, per certi ruoli anche tre). Poi fai un tuo bel buiseness plan e con quello (gambe in spalla) cominci a girare tutti i teatrini medi e piccoli d'Europa e d'America (che ripeto sono migliaia), offrendo loro una o due o tre repliche (o anche più se ne vogliono), ovviamente a un prezzo strepitoso, rispetto ai costi tradizionali.
Mi immagino il teatro Comunale di Ferrara se uno gli offrisse un Ugonotti (magari diretto da Gardiner con l'O.R.et R.) per una cifra che è un terzo di quella che lui normalmente spenderebbe per la solita Traviatucola di periferia.
E' ragionevole pensare che almeno un centinaio di teatri accetterebbe.
E' chiaro che non potresti andare da teatroni di Stato! Loro hanno le loro orchestre, i loro cori... inoltre hanno già abbastanza forza contrattuale da ottenere grandi nomi senza doversi rivolgere a te...
Sono le centinaia di medio-piccoli che salterebbero di gioia.
A quel punto vai da un regista e gli chiedi un progetto che tenga conto delle caratteristiche tecniche e logistiche di tutti i teatrini coinvolti (e dividi il costo per tutte le recite, che possiamo considerare sulle 250), formalizzi i contratti con l'orchestra, i due direttori e i due o tre cast e naturalmente il personale tecnico (che deve essere piuttosto numeroso: seguire lo spettacolo e predisporre tutti gli "alloggiamenti", i trasporti, gli adattamenti delle scenografie, ecc...
Poi stendi un bel calendario e l'impresa parte.
Il teatro si sentirebbe libero anche sul fronte dei contratti e dei pagamenti (che ovviamente faresti tu).
Potresti occuparti tu ovviamente anche dei programmi di sala... che potrebbero essere fatti strabene (con firme autorevolissime, ricerche pazzesche sull'opera, la lista di tutte le rappresentazioni passate, discografie fantastiche): infatti i costi (divisi fra cento teatri) sarebbero risibili.
Mettici pure dentro le "presentazioni" dell'opera: ti occuperesti anche di quello.

Nel frattempo il tuo staff "artistico" comincerebbe a lavorare per un'altra opera per il 2014 (che so? La Gloriana di Britten con Salonen e l'orchestra di Los Angeles) :D e si ricomincia il giro.
Ovviamente nel tuo "catalogo" resterebbero anche gli Ugonotti, che potrai continuare a vendere anche per gli anni successivi(ovviamente a un prezzo inferiore).
Ecc...
E ogni anno il tuo catalogo si arricchirebbe di un titolo nuovo, finché non potrai esibire un bel ventaglio di possibili produzioni ai vari teatrini (che a questo punto dipenderanno da te, avendo provato l'ebrezza di uno spettacolo "chiavi in mano" di basso costo e di alto livello).
Puoi anche fare produzioni di tipo diverso: a grande budget e a piccolo budget (con orchestre e artisti meno noti), dal titolo popolare o dal titolo sofisticato...
Puoi anche fare categorie di prezzo diverso a seconda che il teatro scelga il cast di serie A (pagando di più) o quello di serie B (pagando di meno)...

Un po' alla volta nasceranno altri produttori tuoi concorrenti e ogni teatrino riceverà, a inizio anno, i vari rappresentanti di ogni casa di produzione "operistica" e potrà selezionare (a seconda del costo e dell'interesse) le produzioni di suo interesse.
Nel giro di pochi anni tutti i teatrini diventeranno solo "contenitori" (come i cinema), con pochissimo personale.
Resterebbero, per qualche decennio, solo i mastodonti di stato...
Poi persino loro comincerebbero a essere messi sotto accusa: il successo del (ehm...) sistema-marazzi ne provocherebbe in pochi decenni lo sbriciolamento.

Guarda Beck, che sto fantasticando...
Non è affatto detto che questo sistema possa funzionare, o per lo meno in questi termini...
Però, come ci stiamo pensando noi ora per gioco, potrebbero pensarci anche "veri" imprenditori, veri manager... con idee molto più vincenti e solide di questa.
Se ancora nessuno ci ha pensato è solo perché - per quanto scalcinato sia - lo Stato è un concorrente inavvicinabile.
Per quanto male possa fare, nessun privato può ergersi contro di lui.

- 2 o 3 teatri “di Stato” (ossia finanziati, in parte, pubblicamente): diciamo Scala e Opera di Roma, organizzati in fondazioni autentiche (non le penose foglie di fico che sono le fondazioni teatrali attuali) e con propri organici stabili; con una condizione: azzeramento e rinegoziazione di tutti i contratti collettivi attualmente in vigore nel settore; ho avuto modo, per esigenze professionali, di vederne alcuni e sono quanto di più assurdo, anacronistico e cervellotico sia dato immaginare…;
- tutto il resto, organizzato col metodo-Marazzi, al limite prevedendo un contributo pubblico (magari locale) in proporzione non al numero di spettacoli fatti (che non significa nulla) ma ai finanziamenti privati che riescono a procurarsi: riesci a convincere (per qualità della proposta, previsioni di ritorni sul territorio ecc) dei privati a darti 100? Bene, io pubblico ne metto altri 10 (sempre che mi dimostri di spenderli, ovviamente…).


Perfetto.

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Re: I tagli del FUS

Messaggioda MatMarazzi » mar 15 set 2009, 11:01

Tucidide ha scritto:Io credo che la questione vada affrontata scindendo due concetti che ti (e mi) sono particolarmente cari: da un lato, i contenuti, dall'altra la forma, o, se vogliamo, i linguaggi


Caro Tuc,
se ho frainteso il tuo pensiero me ne scuso.
REsto però dell'idea che una forma "aggiornata" (Guth, le belle donne...) non basti.
Scusa se rifaccio lo stesso esempio: ma per quanto sia bello un soprano, non potrà mai attirare il pubblico di Beyoncé.
E per quanto sia modernista e avincente il Don Giovanni di Guth, non potrà mai raccogliere tante adesioni quanto un blockbuster di prossima uscita.
Tu giustamente individui in questo aggiornamento della forma una via per raccogliere pubblico.
Credimi: è una via che non risolverebbe il problema.
Puoi mettere tutte le moticiclette in scena, puoi mettere tutte le belle donne nude, ma non farai dell'Opera una forma di spettacolo "popolare".
Se porti qualcuno che cerca il "fun" a vedere il Don Giovanni di Guth si annoierà lo stesso.
Perché (con tutte le "pere" che i protagonisti si fanno in scena e lo sperpero di cambe e pettorali) quello resta uno spettacolo difficile, "alto": il pubblico "generalista" - se è alla ricerca di gambe, pettorali e pere - ne ritrova mille volte di più in qualsiasi filmetto domenicale o su internet.

E' l'innalzamento del target intellettuale che ha dato, in questi ultimi decenni, una nuova chance all'Opera.
E' questo che l'ha distinta da quelle forme di spettacolo "popolari" che - sul loro terreno - sbaraglierebbero l'opera.

Vorrei chiarire - qualcuno potrebbe fraintendere - che non sto affatto dicendo che il pubblico dell'opera è intelligente, mentre quello della musica pop (per esempio) non lo è.
La distinzione non è nel pubblico, quanto nella "soglia" di elevatezza di linguaggio e contenuti di cui l'opera ha deciso di dotarsi.
Sia che uno sia intelligente, sia che non lo sia, se va all'opera deve oggi metterci un livello di concentrazione che non è richiesto in altre forme di spettacolo.

Moccia, che a me non interessa affatto, non è peggio di altri scrittori, solo perché si rivolge ad un pubblico non acculturato. Ha saputo trovare una ricetta che gli consente di far leggere molte persone che altrimenti non leggerebbero. Merito non da poco.
Volerli incasellare come "fenomeni commerciali" è mossa da critici, ossia di quella schiera di persone che si pongono in antitesi, anzi in lotta con la Storia, volendo far trionfare la propria visione dell'arte su quella che il pubblico ha deciso.


Su questo sono d'accordo.
Però non credo che Beck volesse fare gerarchie di valore o di "artisticità".
Solo di "target e strumenti espressivi" (che è quel che - da un secolo - sto dicendo io).
Thomas Mann usava strumenti espressivi adatti a un target di lettori piuttosto ristretto.
L'immenso Carl Barks, disegnando la sua Paperopoli e personaggi geniali come Zio Paperone, Gastone, Qui Quo Qua, si rivolgeva a un target molto più ampio e con strumenti espressivi infinitamente più semplici.
Questo non vuole dire, ovviamente, che Barks non sia uno dei più grandi geni di tutti i tempi; nè che lo sia Mann (in realtà lo era) solo perché il suo linguaggio è rivolto a una cerchia meno ampia di fruitori.

Un tempo l'opera era talmente popolare che avrebbe potuto sfidare Paperino! :)
Oggi non potrebbe razionalmente esserlo.
Deve rivolgersi alle stesse persone che sul comodino non tengono solo "Paperino", ma anche la Montagna Incantata.


Dicono tutti che oramai siamo nella Civiltà dell'immagine, schiavi del Grande Fratello eccetera. Premesso che per me è l'ennesima stupidata da intellettualoidi,


Questo perché sei troppo giovane, e non puoi ricordati (a differenza del sottoscritto e di Beckmesser) cos'era il mondo prima di Internet, prima del DVD, prima del PC, prima del VHS: non un millennio, ma vent'anni fa.

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Re: I tagli del FUS

Messaggioda Tucidide » mar 15 set 2009, 11:57

MatMarazzi ha scritto:Scusa se rifaccio lo stesso esempio: ma per quanto sia bello un soprano, non potrà mai attirare il pubblico di Beyoncé.
E per quanto sia modernista e avincente il Don Giovanni di Guth, non potrà mai raccogliere tante adesioni quanto un blockbuster di prossima uscita.
Tu giustamente individui in questo aggiornamento della forma una via per raccogliere pubblico.
Credimi: è una via che non risolverebbe il problema.
Puoi mettere tutte le moticiclette in scena, puoi mettere tutte le belle donne nude, ma non farai dell'Opera una forma di spettacolo "popolare".
Se porti qualcuno che cerca il "fun" a vedere il Don Giovanni di Guth si annoierà lo stesso.
Perché (con tutte le "pere" che i protagonisti si fanno in scena e lo sperpero di cambe e pettorali) quello resta uno spettacolo difficile, "alto": il pubblico "generalista" - se è alla ricerca di gambe, pettorali e pere - ne ritrova mille volte di più in qualsiasi filmetto domenicale o su internet.

Hai ragione, indubbiamente. Non credo neppure io che si possa competere con altre forme espressive del mondo dello spettacolo. Ma del resto non sarebbe nemmeno necessario.
Però penso che si potrebbe sempre "catturare" qualcuno in più, e in ogni caso si farebbe un'opera di informazione. Come ripeto, non penso che molte persone fuori dal nostro ambiente, sappiano che al giorno d'oggi le opere vengono messe in scena in questo modo. Sono tanti anni che ciò si fa, ma indubbiamente tutto ciò fatica ad uscire dalla "nicchia" degli operomani. :D

Dicono tutti che oramai siamo nella Civiltà dell'immagine, schiavi del Grande Fratello eccetera. Premesso che per me è l'ennesima stupidata da intellettualoidi,


Questo perché sei troppo giovane, e non puoi ricordati (a differenza del sottoscritto e di Beckmesser) cos'era il mondo prima di Internet, prima del DVD, prima del PC, prima del VHS: non un millennio, ma vent'anni fa.

Vedi Mat, io non discuto la prevalenza dei mezzi di comunicazione e delle moderne tecnologie nel mondo attuale. Discuto però, e con veemenza, la posizione di chi nega che l'immagine non sia stata importante nella Storia. Levare al cielo alti lai sulla Civiltà dell'immagine sottintende che in passato la gente non si curasse dell'apparenza, della forma, dell'immagine appunto. E ciò non è vero: è una mistificazione storica delle più abiette.
Tanto per non andare fuori tema, :) proviamo a pensare alla musica ed alla sua storia, partendo dai primi strumenti musicali degli uomini primitivi.
Quando mai, nella storia, è stato possibile ascoltare musica senza vedere contemporaneamente chi la eseguiva? MAI! Ciò è stato possibile solo dalla fine del XIX secolo, con l'invenzione del fonografo.
Prima di allora, non si poteva ascoltare un cantante o uno strumentista senza vederlo (a meno di essere sfortunatamente ciechi). Quindi l'ascoltatore ascoltava e guardava contemporaneamente. E l'apparenza, l'immagine aveva la sua importanza, com'è logico che fosse.
Con il disco prima, e la radio poi, si è data la possibilità di ascoltare musica senza vedere colui o colei che la eseguivano. Strumenti meravigliosi, supremi risultati dell'intelletto umano, che hanno consentito la documentazione storica del passato, ma che hanno anche stravolto in parte la fruizione normale, o per meglio dire originaria, della musica.
La musica è divenuta puro suono, privato dell'immagine. Qualcuno poi s'è messo in testa che questa sia l'autentica natura dell'arte musicale.
E poi mi si viene a dire che l'immagine è importante solo adesso?
Ma fatemi il piacere, fatemi!!! :D :P
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Re: I tagli del FUS

Messaggioda MatMarazzi » mar 15 set 2009, 12:19

Tucidide ha scritto:Discuto però, e con veemenza, la posizione di chi nega che l'immagine non sia stata importante nella Storia.


Calma... l'immagine è sempre stata importante.
Solo che ora lo è di più! :)
Proprio perché molto più forti, massici e numerosi sono gli strumenti per diffonderla.

Levare al cielo alti lai sulla Civiltà dell'immagine

:shock: :shock:
Ma Tuc... contro quali fantasmi ti avventi??! :)
Qui nessuno "leva alti lai"... Quello lo faranno gli intellettuali che (si è capito) ti stanno in uggia.
Qui ci si limita a constatare una realtà di fatto: SIAMO nella civiltà dell'immagine! :)
Va benissimo non disperarsene (hai ragione!!) come fanno i "passatisti" travestiti da intellettuali.
Mentre non va bene far finta che non sia così! :wink:


Quando mai, nella storia, è stato possibile ascoltare musica senza vedere contemporaneamente chi la eseguiva? MAI!


Sì! Ricordo che anche Maugham trattò qualche tempo fa questo interessantissimo soggetto.
Ma, appunto, oggi (rispetto ai decenni passati) i CD sono venduti sempre di meno, mentre il DVD sempre di più: perché SIAMO nella civiltà dell'immagine.
Oggi il puro suono ha sempre minor fortuna. Perché SIAMO nell'età dell'Immagine.
Oggi i cantanti d'opera lavorano sul loro aspetto e sulla loro mimica, più di quanto facessero ai tempi di Bergonzi e Caballé: e questo perché SIAMO nella civiltà dell'immagine.
Il tuo esempio (dell'ascolto discografico, tionfante fino a trent'anni fa e oggi in crisi) conferma efficacissimamente quanto sto dicendo.

L'errore degli intellettuali passatisti contro cui ti avventi non è quello di mistificare (come hai detto? in modo abbietto... :shock: ) la Storia, ma quello di voler dare all'evoluzione a cui stiamo assistendo un valore negativo, farne una prova del degrado dei tempi, come tutti i passatisti (intellettuali e non) hanno sempre fatto.
Ma non c'è errore nell'osservare che oggi, effettivamente, le cose sono molto cambiate rispetto a trent'anni fa e che l'immagine ha assunto un ben diverso peso.

salutoni,
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Re: I tagli del FUS

Messaggioda Tucidide » mar 15 set 2009, 12:52

MatMarazzi ha scritto:Ma Tuc... contro quali fantasmi ti avventi??! :)

Spero di non dare l'idea di un cane rabbioso con la bava alla bocca. :mrgreen: : Chessygrin :

Qui nessuno "leva alti lai"... Quello lo faranno gli intellettuali che (si è capito) ti stanno in uggia.

Ma lo so, certo! :)

Qui ci si limita a constatare una realtà di fatto: SIAMO nella civiltà dell'immagine! :)
Va benissimo non disperarsene (hai ragione!!) come fanno i "passatisti" travestiti da intellettuali.
Mentre non va bene far finta che non sia così! :wink:

Se esuliamo dal campo musicale, io credo che l'immagine sia sempre stata importante.
Ci sono documenti archeologici che lo evidenziano.
In TV, ci si lamenta (non tu e non qui, sia chiaro :wink: ) delle veline. E le Kessler? E la Ciuffini? Quelle andavano bene e queste d'adesso no?
Se restiamo invece in campo musicale, io penso che si sia tornati alle origini: l'opera è tornata una forma audio-visiva.

L'errore degli intellettuali passatisti contro cui ti avventi non è quello di mistificare (come hai detto? in modo abbietto... :shock: ) la Storia, ma quello di voler dare all'evoluzione a cui stiamo assistendo un valore negativo, farne una prova del degrado dei tempi, come tutti i passatisti (intellettuali e non) hanno sempre fatto.
Ma non c'è errore nell'osservare che oggi, effettivamente, le cose sono molto cambiate rispetto a trent'anni fa e che l'immagine ha assunto un ben diverso peso.

Io un po' di errore e mistificazione lo vedo. Voler far passare il passato come il periodo in cui non si era schiavi dell'immagine è falso. C'erano, sì, meno possibilità e strumenti per imporla, ma quel po' che c'era era sfruttato fin in fondo. E poi, uno strato amplissimo della popolazione era tagliato fuori dalle forme d'arte e cultura, tenuto nell'ignoranza ed escluso dall'esercizio dei diritti civili e politici.
Diciamo che la Civiltà dell'Immagine (ahi! l'ho detta! :) ) è cominciata con l'istituzione del suffragio universale e con la diffusione dell'alfabetizzazione (due delle più straordinarie conquiste dell'umanità). :wink:
In definitiva, è cambiato il bacino d'utenza della politica, dell'arte, dell'intrattenimento, della cultura, di tutto. E di conseguenza, le esigenze di comunicazione che prima erano rivolte a pochi sono state riversate su moltissimi, oramai la totalità della popolazione.
In questi termini, OK, siamo nella Civiltà dell'immagine. :D Per fortuna!!!
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Re: I tagli del FUS

Messaggioda Maugham » mar 15 set 2009, 14:22

MatMarazzi ha scritto: Questo perché sei troppo giovane, e non puoi ricordati (a differenza del sottoscritto e di Beckmesser) cos'era il mondo prima di Internet, prima del DVD, prima del PC, prima del VHS: non un millennio, ma vent'anni fa.

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Re: I tagli del FUS

Messaggioda beckmesser » mar 15 set 2009, 15:05

Tucidide ha scritto:Scusami, Beck, ma non sono assolutamente d'accordo!


Figurati, nessun bisogno di scusarsi, solo ci terrei a che tu non fossi d’accordo con quello che effettivamente penso, che non è esattamente quello che hai riassunto… Io non ho mai introdotto il concetto di “commercialità”, per il semplice fatto che l’idea che l’Arte non debba essere sporcata dalla vile pecunia è… risibile. L’arte è commercio quanto vendere bistecche o automobili e, come criterio, non vale nemmeno per distinguere all’interno di una stessa forma d’arte (Kubrick teneva alla cassetta quanto i Vanzina; e basta pensare a Verdi…). Allo stesso modo non faccio un discorso di gerarchie (tipo: l’arte è sopra il puro entertainment). Ne faccio solo un discorso di… target.

Semplificando. Posto di fronte ad uno stesso genere di spettacolo il pubblico si divide in due categorie: quelli che cercano un modo per passare una serata e quelli che, essendosi interessati alla storia e all’evoluzione di quel genere, vanno armati di quegli strumenti che consentono loro di “decodificare” il lavoro di chi ha creato quello spettacolo, di inserirlo in un prima e un dopo, di interrogarsi su come quello spettacolo influenzerà i successivi sviluppi di quel genere, ecc. E non è che una categoria è meglio dell’altra: cercano due cose diverse. E, ancora, non c’è niente di “classista” in ciò, anche perché, inevitabilmente, una stessa persona si trova in categorie diverse a seconda del genere. Io credo (spero…) di essere nel secondo gruppo per quanto riguarda opera e qualcos’altro, ma sono sicuro di essere nel primo gruppo quando vado a vedere un balletto: ci vado giusto per passare una serata, ma so di non avere strumenti per valutare criticamente ciò che vedo, per decidere se un dato balletto rivoluziona il genere o è solo ammuffita banalità; il mio giudizio si limita a: mi è piaciuto/non mi è piaciuto; mi sono divertito/mi sono annoiato. Stop. E non credo nella necessità pedagogica che qualcuno mi prenda per mano e mi insegni a decodificare uno spettacolo di balletto. Se volessi, quegli strumenti potrei farmeli ma, ahimè, la vita è breve, il tempo libero è poco e devo scegliere: e allora, per l’opera voglio essere uno spettatore critico, per il balletto uno che cerca puro entertainment senza si porsi troppi problemi e, per tante altre forme di spettacolo, so di non essere niente…

Inevitabilmente, questa diversa posizione recettiva del pubblico si ripercuote su chi crea uno spettacolo, nel senso che, principalmente, costui tenderà a rivolgersi ad tipo di pubblico piuttosto che all’altro. Anche qui: non è che ciò che ne deriva è di serie A o di serie B. Non è che Kubrick è meglio dei Vanzina o Moccia è peggio di Wallace: si rivolgono a target di pubblico diversi. L’unica differenza di “grado”, al limite, che scorgo sta in questo: l’interazione, il dialogo fra il pubblico “critico” (che ovviamente non c’entra nulla coi critici professionisti) e gli artisti che ad esso si rivolgono è ciò che fa evolvere il linguaggio di quella forma di spettacolo. Difficilmente il prodotto di puro “entertainment” fa evolvere il genere (può succedere, ma è raro), dato che normalmente gioca soprattutto sul contenuto: ed è relativamente facile maneggiare contenuti, difficilissimo è agire sulla forma e sui linguaggi. In ciò sta la differenza: in ogni film Kubrick si è posto il problema del linguaggio da usare e, ponendoselo, lo ha risolto e, soprattutto, ha convinto il pubblico-critico ad accettare quella soluzione, creando qualcosa di completamente nuovo; i Vanzina il problema del linguaggio non se lo pongono: reiterano la stessa forma variando i “contenuti”. Moccia è degnissimo nel suo aver saputo intercettare i sentimenti dei gggiovani d’oggi, ma a quello si è limitato: il linguaggio (inteso come forma) non è un suo problema e la forma-romanzo non evolve grazie a lui, mentre con Wallace sì. Entrambi sono degni di esistere, ma assolvono a funzioni diverse.

Lo stesso si verifica nell’allestimento di un’opera, che proprio nel continuo mutare dei rapporti fra i suoi componenti (canto, orchestra, scene, luci, recitazione) trova la sua ragione di esistere ancora. Per questo mi sembra completa follia (con tutto il rispetto) la posizione di chi impreca al ruolo che direttori d’orchestra e, soprattutto, registi hanno assunto negli ultimi di tempi, sostenendo che ciò che conta è il canto e rivendicando l’immutabilità dei suoi linguaggi. Non si rendono conto che, se così veramente fosse, l’opera sarebbe morta e sepolta da almeno un centinaio d’anni. Ciò che le ha consentito di sopravvivere (perfino dopo il completo esaurimento della sua fase di produzione attiva di repertorio, cosa rarissima) è proprio l’aver modificato il suo linguaggio, spostando il suo asse verso un sempre maggiore approfondimento dell’aspetto visivo e del ruolo che quest’ultimo può avere nella ri-creazione del significato di una certa opera. E ciò è avvenuto grazie alla cooperazione fra pubblico-critico e artisti (soprattutto registi, ma anche cantanti che hanno accettato il mutare della situazione) che ad esso si rivolgono: i secondi proponendo nuovi linguaggi e nuove forme e i primi vagliando e accettando (o rifiutando) tali soluzioni. Che è ciò che mantiene agganciata una forma di arte all’evoluzione della società.

Ora, credo non sarai ancora d’accordo, ma almeno spero di essermi spiegato meglio.

Saluti e grazie per la discussione.

Beck
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Re: I tagli del FUS

Messaggioda Maugham » mar 15 set 2009, 15:23

Beck ha ragione: si tratta di un argomento tosto.
Ma penso sia giusto parlarne perchè lo sfacelo è sotto gli occhi di tutti (dell'opera, ovviamente, la prosa se la passa meglio, di poco, ma se la passa meglio).
Allora.
Provo a mettere insieme un po' di fatti a prescindere dagli intendimendi di ciascuno di noi.
Sono del parere che discutere se lo stato italiano debba o meno sovvenzionare lo spettacolo sia un esercizio molto interessante ma puramente speculativo.
E' lo è per due motivi.
Il primo è di carattere legislativo.
Nel 2003 il decreto La Loggia ha modificato il titolo V della Costituzione.
Semplifico senza riportarvi tutti i ghirigori giuridici e i vari rimpalli tra organismi centrali e periferici.
Il succo è questo: a seguito di questa modifica lo spettacolo viene equiparato ai beni culturali e di conseguenza appartiene a quella fetta di patrimonio che lo Stato ha il dovere di tutelare e sostenere.
In termini pratici questo significa che la collettività non può più scegliere se sovvenzionare lo spettacolo, ma ha il dovere di farlo; come ha il dovere di farlo per il Colosseo o il Ponte di Rialto.
Questo riconoscimento, nella realtà dei fatti, si è mostrato puramente formale.
Infatti non si è tradotto nè in un incremento dei fondi stanziati per lo spettacolo nè -cosa che auspicavo e a quanto ho letto auspicate anche voi- in un graduale processo di revisione di strumenti gestionali ormai obsoleti.
L'unico modo quindi per dare una sterzata con finalità chiaramente "educative"a un settore visto, si da destra sia da sinistra, come un malato terminale è stato quello della riduzione dei fondi e delle privatizzazioni (finte, fintissime, come dice Beck) di molte strutture teatrali.
La riduzione de fondi (operata da questo governo ma anche da quelli precedenti) ha portato -visto che i finanziamenti venivano elargiti a pioggia- a un taglio altrettanto a pioggia del FUS e del passaggio dei conferimenti in danaro da parte dello Stato ai Comuni senza nessun comprensibile criterio di scelta nel merito.
Anche la percentuale dgli investimenti del PIL nella cultura si è abbassata di molto.
Non so quali siano gli ultimi dati ma dovremmo essere di gran lunga sotto al 2% il che ci pone ultimi dopo Francia, Spagna e Germania. Lasciamo il Nord nel suo empireo.
E se gli investimenti di questi paesi in percentuale non sono significativamente superiori, nella realtà lo sono visto che il PIL di Francia e Germania è superiore al nostro.
Il secondo motivo è di carattere storico.
Che, almeno nel nostro paese, il teatro -d'opera in particolare- non possa sopravvivere privo di finanziamenti esterni è un dato di fatto che risale ormai a duecento anni fa.
Istruttivo è tal fine lo splendido libro di Rosselli "L'impresario d'opera" edito dalla EDT nel 1985. Si tratta di un libro scritto all'anglosassone, ovvero praticamente privo di opinioni personali ma precisissimo nelle fonti, ricco di tabelle, di dati e di raffronti riferiti particolarmente al siglo de oro dell'impresariato operistico italiano, ovvero l'ottocento.
Lo lessi all'epoca per la mia tesi di laurea e lo trovai sorprendente.
Ero convinto che il sostegno di stato all'opera fosse una cosa relativamente recente e che per tutto l'Ottocento vigesse invece un imprendotoria artistica privata e coraggiosa di cui si era persa traccia.
Insomma, ero convinto che l'opera funzionasse con le sue gambe senza bisogno di nessun puntello pubblico.
In parte era vero; in parte no.
L'impresario era principalmente un intermediario tra i cantanti, i compositori e una città. Il suo rischio - sempre notevole - era più calcolato di quanto si può pensare.
Mi spiego meglio. Quando si organizzava la stagione di Carnevale (di solito la più importante che partiva da Santo Stefano e arrivava a Quaresima) si formava grosso modo un tavolo a tre posti attorno cui si sedevano diversi soggetti.
Uno era ovviamente l'impresario che mirava ad ottenere l'appalto per organizzare la stagione. E faceva in modo di ottenerlo in quelle citta in cui, sono parole del Lanari, il teatro fosse meglio "sovvenzionato".
Gli altri due soggetti, i "sovvenzionatori", erano da un lato, le società di palchettisti (i cittadini più abbienti) che vagliavano le proposte e a loro volta lottavano per aggiudicarsi l'impresario più potente, quello con i nomi di cartello, dall'altro il Podestà e il consiglio comunale oppure l'Intendente regio (a seconda dei luoghi) incaricati di gestire i fondi con cui sostenere parte delle spese della stagione nonchè quelle manutentive delle strutture.
C'erano varianti, ma grosso modo i costi erano così suddivisi: l'impresario si accollava le spese dei cantanti, del compositore, delle sartorie e delle scene. I palchettisti contribuivano a queste spese in misura variabile tramite contributi a seconda della capacità contrattuale o meno dell'impresario e dei nomi che metteva sul piatto. La città provvedeva, a sua volta con danaro pubblico o fornendo esenzioni o riducendo i proventi derivanti dalle sale da gioco annesse al teatro, al finanziamento della stagione (personale di sala, tecnici, falegnami), alla manutenzione della struttura. In alcuni casi si accollava anche il costo dell'orchestra che poteva essere stabile (i famosi accademici) oppure messa insieme per l'occasione.
In pratica -e con le dovute eccezioni, sto generalizzando- già allora la collettività si prendeva carico dei cosiddetti "costi fissi".
L'incasso dei biglietti -almeno per la prima metà dell'ottocento- era una voce non particolarmente significativa.
Gli introiti dell'impresario stavano quindi nella differenza tra quanto danaro una città poteva affidargli (appalto appunto) e quanto lui riusciva a "risparmiare" nei costi di allestimento. A questo si deve aggiungere la percentuale sui proventi della sala da gioco che era divisa, a suon di coltello, tra amministrazione cittadina, palchettisti e impresario.
Ovvio che, con questo sistema, la bancarotta era dietro l'angolo. Bastava, non dico un fiasco, ma anche una malattia di un cantante, o una gravidanza -di solito si componeva l'opera durante le ultime due settimane di prova, ovvero a ridosso della prima- per far saltare tutte le trattative. Ma quando le cose andavano bene facevi soldi a palate, la tua fama cresceva, e l'anno dopo avevi grandi teatri ben sovvenzionati, con cittadini facoltosi pronti a investire cifre da capogiro per assicurarsi gli spettacoli che producevi. Se poi eri potente come Barbaja non conoscevi limiti in quanto gestore di quasi tutte le bische "teatrali" della città.
In pratica era come se la premiata ditta Marazzi-Beck decide di allestire Ugonotti. Ha sotto contratto i cantanti giusti, lo scenografo giusto e il regista giusto. Comincia a proporsi e sceglie ovviamente il teatro che possa co-finanziare questa impresa. La città x decide che non può fare a meno di questi Ugonotti e quindi mette sul piatto da una lato cospicue sponsorizzazioni (i palchettisti) nonchè copre con danaro pubblico tutti i costi delle maestranze artistiche e tecniche (coro o orchestra compresi). Poi ci si mette d'accordo su come spartire un eventuale indotto collaterale, se c'è.
Questo sistema cominciò a incrinarisi all'alba dell'Unità. E la figura dell'impresario, a metà strada tra l'avventuriero e lo scaltro imprenditore, a tramontare.
I tempi erano cambiati.
Attorno al tavolo di cui parlavo prima cominciarono a sedersi anche nuovi soggetti come gli editori, i cantanti e i compositori.
Tutti volevano essere retribuiti. La concorrezna con le grandi paghe dell'estero era molto forte.
Di conseguenza cominciarono a levitare i costi degli spettacoli e -cito Montecchi- "i disavanzi dei teatri non furono più colmabili".
Dopo aver censito i teatri della penisola (circa un migliaio) il neonato governo decise di rifiutare qualunque sostegno stabilendo che i teatri appartenenti al demanio passassero sotto la gestione dei comuni che, in maniera esclusiva, potevano scegliere o meno se sovvenzionarli.
In pratica se ne liberò.
Ne derivò una crisi finanziaria pesantissima con potenti contraccolpi. Rosselli mostra di "come l'Opéra di Parigi potesse contare su finanziamenti due o tre volte superiori a quelli del San Carlo e della Scala che erano i teatri più lautamente sovvenzionati d'Italia". Nel 1876 il governo Depretis isituì una tassa del 10% sugli introiti del teatro e, demandando ormai quasi esclusivamente ai comuni il compito di sostenere le spese sempre più ingenti degli allestimenti portò ad una crisi che non ha nulla da invidiare a quella attuale. Riporto i dati di Rosselli: negli anni Settanta il San Carlo saltò tre stagioni, la Fenice rimase chiusa dal 72 al 97, il Carlo Felice dal 79 al 1883. Nel 1897 fa la volta della Scala che venne chiusa per una delibera del Comune che non riteneva opportuno spendere denaro della collettività per il divertimento dei ricchi.
Quindi, come si vede, il sostegno pubblico maggiore o minore è sempre esistito e, purtroppo o per fortuna, è parte della storia del nostro teatro.
Secondo me è necessario trasformarlo.
Non più soldi dati alla rinfusa o con criteri feudali (come succede adesso) ma esenzione di tributi, detassazione di sponsor e donazioni, azzeramento di utenze.
In parallelo però occorre anche cominciare a selezionare "cosa" tutelare evitando lo sbriciolamento dei contributi in attività che, palesemente, nascono morte o, ancora peggio, nascono per tutelare interessi di bottega non propriamente "alti" e "nobili".
Credetemi, il FUS è solo la punta dell'iceberg, tra l'altro una miseria se rapportata ai mille rivoli di piccoli e microscopici finanziamenti dati a questa o quella iniziativa, finanziamenti che, al di là del merito, non soddisfano nessuno; nè chi li elargisce nè, soprattutto, chi li riceve che continua a lamentarne l'esiguità.
Purtroppo, anche di fronte a crisi pesanti come quelle che affliggono il nostro mondo dell'opera, si continua a praticare la politica del "precederà dibattito", si evitano scelte drastiche per non scontentare nessuno e intanto si è arrivato a paradossi simili a quelli di un ente lirico di medio livello che, conti alla mano, anche se tenuto chiuso e sigillato avrebbe prodotto lo stesso 3 milioni di euro di disavanzo per la sproporzione dei costi fissi...

Salutoni e grazie per gli spunti
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P.S. Il mio pippone è più grosso di quello di Beck :oops:
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Re: I tagli del FUS

Messaggioda Tucidide » mar 15 set 2009, 17:13

Grazie, Maugham, per i dati che hai fornito. Fanno davvero riflettere.
Però, l'Italia liberale! Mica male! :shock: Usava il machete! :shock: :shock:
Destra e Sinistra storica, alè! Teatri chiusi e via andare!
Si sa come reagirono i melomani a queste serrate?

Una domanda ulteriore: in Italia abbiamo capito che non è mai esistito un teatro totalmente privato. E all'estero com'è la situazione? Come andava in passato?

Il mio pippone è più grosso di quello di Beck

Detta così, suona male. Io te lo dico... :lol:
(Scusate, non ho resistito... nel caso, moderatemi pure :mrgreen: )

A proposito, Beck, il tuo secondo intervento mi trova molto d'accordo. :D
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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Re: I tagli del FUS

Messaggioda Maugham » mar 15 set 2009, 18:02

Tucidide ha scritto:Grazie, Maugham, per i dati che hai fornito. Fanno davvero riflettere.
Però, l'Italia liberale! Mica male! :shock: Usava il machete! :shock: :shock:
Destra e Sinistra storica, alè! Teatri chiusi e via andare!
Si sa come reagirono i melomani a queste serrate?


Non so. Penso che, visto che dal primo censimento dei teatri in Italia fatto dopo l'Unità ne risultavano attivi circa un migliaio in 700 comuni e nel 1907 circa 3.000 :shock: di cui sette di prima categoria (fonte: Montecchi) l'appassionato avesse solo l'imbarazzo della scelta.

Una domanda ulteriore: in Italia abbiamo capito che non è mai esistito un teatro totalmente privato.

Forse mi sono espresso male. E giustamente me l'ha fatto notare anche Matteo. Senza dubbio qualche teatro completamente privato ci sarà anche stato, prima dell'Ottocento...non lo nego ma non era questo il fine del mio intervento.
Io mi riferivo ai teatri italiani anche in provincia in cui hanno operato grandi impresari come Barbaja, Lanari, Crivelli etc nell'ottocento per dimostrare che l'intervento pubblico esisteva anche allora. In maniera diversa, ovviamente, ma esisteva. Lo dimostra il fatto che, quando si è deciso di chiudere i rubinetti o di cambiare l'erogatore il sistema ha collassato.

E all'estero com'è la situazione? Come andava in passato?


Non lo so. Rischierei di dire sciocchezze o robe sentite di rimbalzo da fonti non sempre attendibili. Ho provato a decifrare la denuncia dei redditi del Met presente sul sito ma non mi ci sono raccapezzato e non ho una gran voglia di sbattermici. Mi basta la mia. :roll:

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Re: I tagli del FUS

Messaggioda Tucidide » mar 15 set 2009, 18:19

Maugham ha scritto:
Una domanda ulteriore: in Italia abbiamo capito che non è mai esistito un teatro totalmente privato.

Forse mi sono espresso male. E giustamente me l'ha fatto notare anche Matteo. Senza dubbio qualche teatro completamente privato ci sarà anche stato, prima dell'Ottocento...

Certo, si era capito. Ma appunto, prima!
Ma se andiamo indietro nel tempo, troppo indietro, arriviamo ad un'epoca troppo diversa dall'attuale. E i paralleli non sono più fattibili.
Se è per questo, la Camerata de' Bardi era privata. Ma non la prenderei come modello di gestione per un teatro del 2009. :)
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Re: I tagli del FUS

Messaggioda MatMarazzi » mar 15 set 2009, 18:23

Maugham ha scritto:Sono del parere che discutere se lo stato italiano debba o meno sovvenzionare lo spettacolo sia un esercizio molto interessante ma puramente speculativo.
E' lo è per due motivi. Il primo è di carattere legislativo.
Nel 2003 il decreto La Loggia ha modificato il titolo V della Costituzione.


Carissimo Maugham,
io invece non credo che sia un esercizio puramente speculativo.
Credo sia molto di più.
Credo sia l'individuazione di un "male" che affligge alle fondamenta questo genere di spettacolo (e forse altri) e che un dibattito serrato può contribuire - col tempo - a curare.
L'abolizione della schiavitù (che sembrava irrealizzabile solo 4 o 500 anni fa) è stata preceduta da dibattiti durati secoli.

Quanto all'articolo della costituzione che citi, è per me niente più che la prova di quanto la politica possa far male all'Opera.
Cosa ne sa La Loggia di quel che è l'opera?
Il fatto stesso che la consideri un museo significa che ne ha un'idea estremamente lacunosa.
:)

Quindi, come si vede, il sostegno pubblico maggiore o minore è sempre esistito e, purtroppo o per fortuna, è parte della storia del nostro teatro.


Ovviamente ti ringrazio per lo splendido excursus storico che ci hai sottoposto.
Con esso ci dimostri che nei secoli passati vi sono stati moltissimi casi di interventi pubblici nei teatri d'opera.
E, aggiungerei io, sono stati interventi tanto più generosi ed esclusivi quanto più lo Stato che li erogava era tirannico e accentratore (la terribile Francia borbonica, laboratorio dell'Assolutismo, o la stessa Unione Sovietica sono stati forse i più generosi sovvenzionatori; non parliamo della Germania di Hitler; quanto all'Italia, inutile ricordare che la definitiva statalizzazione dei teatri e la nascita degli "enti lirici" fu opera del Fascismo).
Vorrei però specificare che questa forma di sostegno economico (nobiliare o monarchica o statale), non era, nè fu mai (per quanto ne so) l'unica.
Al suo fianco, è sempre esistito anche il teatro privato e impresariale, che non è quello da te descritto (Barbaja ad esempio, era un impresario, certo, ma alle dipendenze dirette del Re), bensì quello (per esempio) dei primi teatri veneziani.
Pensa che secondo alcuni storici dell'Opera (come Fabbri o Bianconi), la vera data di nascita del genere di cui stiamo parlando fu l'apertura del San Cassiano a Venezia (1638), primo teatro "pubblico", a "pagamento".

Ci sono stati anni in cui nella sola Serenissima erano attivi fino a 40 teatri d'opera, in concorrenza fra loro.
Le compagnie che diffusero l'Opera italiana ai quattro angoli del mondo erano private.
Il mitico teatro Feydeau di Parigi (dove agiva Cherubini) era privato.
Il teatro viennese di Schikanaeder (dove nacque il Flauto Magico di Mozart) era privato.

Detto questo, però, ti chiedo: in che modo può esserci utile rivangare la storia e gli antichi metodi di produzione?
Forse che per invocare l'eliminazione della tortura come metodo di indagine (ancora praticata in qualche parte del mondo) abbiamo bisogno di sapere cosa si faceva in Olanda nel '500 o in Portogallo nel '700?
E' nelle condizioni attuali che dobbiamo chiederci se l'Opera potrebbe o no sopravvivere senza supporto statale.
Io penso di sì, spero di sì.
Altrimenti sarei il primo a chiederne l'abolizione: le carcasse putrescenti servono solo a nutrire gli insetti antropofagi.
Non recano alcun confrorto alla collettività.

Secondo me è necessario trasformarlo.
Non più soldi dati alla rinfusa o con criteri feudali (come succede adesso) ma esenzione di tributi, detassazione di sponsor e donazioni, azzeramento di utenze.
In parallelo però occorre anche cominciare a selezionare "cosa" tutelare evitando lo sbriciolamento dei contributi in attività che, palesemente, nascono morte o, ancora peggio, nascono per tutelare interessi di bottega non propriamente "alti" e "nobili".


Vedi Maugham, per me quello che tu auspichi è impossibile (a meno che non lo consideriamo una fase transitoria).
Ciò che scrivi è ragionevolissimo, ma per un cultore d'opera, non per uno Stato.
Pretendere che lo Stato (o la Provincia o il Comune) eroghi "senza criteri feudali o interessi da bottega" è utopico.
La politica vive proprio di questo. La dialettica civile vive di questo.
Vive di equilibri di potere, di delicati bilanciamenti, strappi e aggiustamenti, compromessi e scontri frontali ...
si chiama democrazia e mi va bene, purché non metta becco in settori che non la riguardano (come quello del rapporto fra l'artista e il suo fruitore).
Lo Stato, a differenza del pubblico, della società, non ha criteri estetici: le sue selezioni le deve operare secondo i "suoi" criteri... che tu puoi definire "da bottega"; io preferisco dire "politici".

In conclusione - tu lo sai - io ti dò ASSOLUTAMENTE ragione se affermi che, prima di buttare tutto a mare con giustizialismi da operetta e furori ideologici, occorre andarci piano, lavorare a una lenta conversione, cercare di far marciare anzitutto quello che già c'è.
Ma questa per me - e ci tengo a dirlo - deve solo essere una fase: il punto di arrivo è un altro.

Credetemi, il FUS è solo la punta dell'iceberg, tra l'altro una miseria se rapportata ai mille rivoli di piccoli e microscopici finanziamenti dati a questa o quella iniziativa, finanziamenti che, al di là del merito, non soddisfano nessuno; nè chi li elargisce nè, soprattutto, chi li riceve che continua a lamentarne l'esiguità.


Giustissimo!

Purtroppo, anche di fronte a crisi pesanti come quelle che affliggono il nostro mondo dell'opera, si continua a praticare la politica del "precederà dibattito", si evitano scelte drastiche per non scontentare nessuno e intanto si è arrivato a paradossi simili a quelli di un ente lirico di medio livello che, conti alla mano, anche se tenuto chiuso e sigillato avrebbe prodotto lo stesso 3 milioni di euro di disavanzo per la sproporzione dei costi fissi...


Giustissimo anche questo...

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Re: I tagli del FUS

Messaggioda MatMarazzi » mar 15 set 2009, 18:27

Tucidide ha scritto:Se è per questo, la Camerata de' Bardi era privata. Ma non la prenderei come modello di gestione per un teatro del 2009. :)


Era privata per modo di dire. Dietro c'era la corte dei medici.
Privatissimi erano i teatri veneziani.
E poi scusa ma invece secondo te è più convincente, come modello del 2009, prendere Barbaja e i "regi teatri di Napoli"?

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