Eccomi tornato dall'Austria felice.
Gran belle esperienze di cui vi parlerò.
Riprendo subito il discorso di Gobbetto perché davvero interessantissimo.
Mi scuso in partenza se il messaggio risulterà troppo lungo e involuto, ma il tema è complesso: inoltre noi stiamo traendo sintesi molto originali, che non mi pare siano mai venute fuori dai critici di settore, almeno in questo modo.
Gobbetto ha scritto:Mi viene istintivo cercare dei paralleli con quello che conosco meglio, il jazz... quello ascoltato (o suonato) dal vivo e quello registrato in sala... perchè alla fine, nonostante le enormi differenze di genere, credo che si inneschino dei meccanismi e si riproducano delle situazioni sostanzalmente simili, o comunque comparabili...
Ok... Ferma restando, però, quella differenza di cui parlavo nel precedente post.
Il canto "classico" resta tecnicamente anfibio: ossia, anche davanti a un microfono (quello della sala di registrazione o quello dei luoghi acusticamente infelici - come il festival di Bregenz, aperto sul lago di Costanza, in cui sono appena stato) il cantante classico mantiene un tipo di emissione che potrebbe o dovrebbe funzionare anche senza amplificazione.
Al contrario non vi è un cantante Jazz che non utilizzi il microfono: sia che incida un disco, sia che canti "live" in un concerto, egli adatta il suono che produce all'amplificazione elettronica: il suo interlocutore quindi non è lo spazio, ma il microfono stesso.
Questa è una differenza capitale, perché - come abbiamo detto - il canto forgiato "per il microfono" non ha problemi di volume e proiezione. Ci pensa l'amplificazione elettronica a intervenire in questo senso. Sono ben altri i suoi problemi... (ad esempio problemi di ritmica di fronte ai quali il nostro Bergonzi o la nostra Freni sarebbero crollati in pochi sencondi).
Viceversa per il canto "classico" forgiato per lo spazio acustico quello del volume può essere un problema (non in disco, ok): deve farsi sentire, deve varcare gli spazi, deve (come tu dicevi) interloquire con altri suoni (ad esempio, per un wagneriano, le masse orchestrali).
Ciò produce un effetto strano, diverso - secondo me - da quello che tu mettevi in evidenza.
Il canto "classico" risulta lievemente impacciato davanti a un microfono proprio perché tecnicamente costruito sulla spazialità acustica.
Il mito del canto "coperto" (celebrato con antica religione dai passatisti, ma effettivamente necessario all'esecuzione di un vastissimo repertorio) si scontra abbastanza con le esigenze del microfono. Le amplificazioni sonore nelle cavità facciali - tanto mitizzate dai cellettiani - avevano come principale funzione di rendere il suono più potente e penetrante, sfruttando il potenziamento degli armonici superiori nelle casse di risonanza del corpo umano.
E tuttavia, quando il problema della potenza non si pone assolutamente più (ossia in sala di incisione) questa gloriosa tecnica diventa un impaccio: i suoni amplificati in maschera risultano (davanti a un microfono) innaturali e confusi, le vocali tutte omogeneizzate.
In compenso il bello del suono mascherato (ossia le sue "risonanze" da campanello per intenderci in uno spazio) diventa difficilissimo da riprodurre...
Ricordate la scontentezza dei tecnici DECCA di fronte a tutti i problemi che la loro diva (la Sutherland) poneva loro?
La sua voce "galleggiava troppo" e questo aspetto era difficile da rendere perfettamente in disco!
Una de Los Angeles e un Fischer Dieskau (parliamo di suono, solo di quello) erano ben più semplici da registrare.
Vorrei insistere ancora con l'esempio della Callas, scusate se mi ripeto. Le incisioni ufficiali dei primi anni (fino al 53) presentano una voce sempre scura, copertissima, da "teatro". Proprio per questa ragione, quelle sono le sue incisioni meno interessanti, meno artisticamente rivelatrici, nonostante la Callas fosse ancora in grande forma fisica e vocale. NOn aveva ancora capito a valorizzare il mezzo "microfono".
Dal 54 in poi tutto cambia: la cantante si rende conto che il microfono le permette di non occuparsi più dell'amplificazione "facciale" e così può cominciare ad "aprire", a svelare le vocali, ad avvicinarsi un poco alle conquiste del canto "non classico".
Se si confronta la Tosca con De Sabata alla Butterfly con Karajan (solo due anni di distanza) non sembra più la stessa cantante. Nella Tosca i suoni risultano eccessivamente omogenei, scuri, raccolti, le vocali poco distinguibili, il gioco di colori limitato (sottolineo: per il disco! A teatro quei suoni erano giustissimi). Nella Butterfly invece la Callas sfodera aperture e colorismi che all'epoca dovevano risultare sconvolgenti in una cantante d'opera e la sua dialettica (discografica) è infinitamente più varia e incisiva.
Non è poi un caso che quella Butterfly fosse diretta da karajan, uno che capì molto in fretta le peculiarità del microfono.
Ricapitolando, secondo me l'unica cosa che il disco non può tradurre è proprio il rapporto tra spazio e suono. Il suono registrato sarà sempre e solo quello che avvertiremmo dal vivo se mettessimo l'orecchio a pochi centimetri dalla bocca del cantante.
La conseguenza di tutto ciò l'hai messa in evidenza benissimo tu.
Il missaggio effettuato in post produzione tra voci e masse orchestrali consente di ottenere un bilanciamento tra le parti che il nostro orecchio avverte come 'ottimale', cosa che in una rappresentazione lirica teatrale (dove, almeno di regola, cantanti ed orchestra non sono neppure microfonati) è raramente possibile (direi mai, ma qui chi ha più esperienza di me di ascolti operistici 'live' può certamente smentirmi).
Anche qui, il disco ha semplificato un problema che è sempre esistito: il bilanciamento fra volumi diversi.
Non mi spingerei a dire che il rapporto "ottimale" fra diversi suoni concertanti sia a teatro "raramente possibile".
Anzi, direi che - in teoria - è (o dovrebbe essere) la norma.
Per questo ancora oggi si dà tanta importanza al volume di una voce, prima di affidarle un certo ruolo (anche se su questo punto, credo ci sia molta stupidità in giro...). Per un cantante pop o di musical questi problemi sarebbero incomprensibili.
Nessuno direbbe a un cantante pop "non puoi fare Cats o cantare My Way perchè il tuo volume sonoro è piccolo". Una cosa del genere farebbe ridere.
Al contrario all'opera è la norma.
Molto prima che esistesse l'amplificazione elettronica (ossia per svariati secoli di musica occidentale) quello del bilanciamento fra i volumi sonori è stato un problema importante, per compositori ed esecutori.
L'equilibrio non lo si raggiungeva con le manopole di un mixer, ok, ma con studi molto attenti e complesse sperimentazioni.
La stessa composizione dell'orchestra come la conosciamo oggi è stata il frutto di lunghissime elaborazioni.
Il rapporto voce - orchestra non ha posto problemi insormontabili finché gli organici erano limitati e fungevano da semplice accompagnamento.
Con il secondo 800 e i miti del Romanticismo, l'orchestra all'opera si emancipò, divenne ben più che supporto del cantante, in certi casi divenne fonte di drammaturgica, autonoma e proterva.
Con l'aumento del peso orchestrale (dalla metà dell'800 in poi) i cantanti si sono dovuti adeguare: e non solo quelli "wagneriani", che hanno dovuto mettere a punto una nuovissima e rivoluzionaria tecnica di canto, anche per assecondare le novità della scrittura di Wagner.
Anche gli interpreti dell'opera italiana dovettero lavorare sul volume molto più di prima!
Infatti il culto delle "orchestre grandi" si diffuse stupidamente anche nel nostro repertorio pre-wagneriano (tanto per far assomigliare Bellini a Wagner, coglionata tanto mastodontica quanto quella di chi vorrebbe oggi far somigliare Wagner a Bellini
).
E così, in quell'orrida epoca "del magniloquio" (tra le due guerre mondiali), l'ossessione del volume fra i cantanti classici seguì di pari passo il peso sempre maggiore delle orchestre operistiche.
E pensare che qualche scriteriato continua a considerare quell'epoca una specie di età dell'oro.
Tornando a noi, tutti questi sono esempi di come il problema del bilanciamento sonoro fra i diversi musicisti concertanti sia sempre stato avvertito e realizzato (sia pure con mezzi acustici) e non sia una novità introdotta dal disco. Un tempo il direttore veniva chiamato (anche sui cartelloni) "maestro
concertatore e direttore" proprio perché uno dei suoi compiti principali era di mettere in equilibrio i diversi volumi.
Ancora oggi vi sono direttori bravissimi in questo: ricordo un Attila di Muti alla Scala in cui gli equlibri fra orchestra e solisti (la Studer e i legni) erano talmente perfetti da sembrare eseguiti al computer. Sicuramente c'era dietro un lavorìo di prove fanatico.
Chi ha avuto la fortuna di sentire karajan dal vivo (io purtroppo no) dice che anche in Wagner il rapporto tra voci e strumenti era perfetto, e questo nonostante per lui un fortissimo dovesse spaccare i timpani e un pianissimo sentirsi appena.
L'ultimo esempio che citerei, perchè anch'esso verificato dal vivo, è Rattle nel Rheingold o nel Tristano (che ho sentito dal vivo). Il rapporto voci-orchestra era talmente calibrato che ho persino ipotizzato ci fosse un'amplificazione a teatro. E questo nonostante i cantanti fossero talmente leggeri che pareva parlassero.
Il tanto mitizzato Baremboim non è nemmeno paragonabile in questo senso (ho sentito spesso dal vivo anche lui).
Ciò che potrei concedere è che oggi questo aspetto risulta talvolta meno curato che in passato, e questa può essere effettivamente una colpa da imputare (benevolmente) al disco. Oggi chi è troppo abituato a incidere, perde un po' di vista la necessità di regolare acusticamente i volumi dal vivo.
Quindi, sì, può succedere ciò che tu paventi, ossia che dal vivo sia possibile (più oggi di ieri) cogliere sfasature tra voci e orchestra.
Forse siamo anche un po' più tolleranti noi.... O per lo meno mettiamo altri aspetti (interpretativi ad esempio) al di sopra della perfetta qualità sonora.
Avendo sentito varie volte dal vivo la mia amata Silja, devo riconsocere che a contatto con ruoli per lei troppo bassi, il suo registro grave non ha risonanza. A teatro si fa davvero fatica a sentirla (Ric ricorderà la sua pur magnifica Mère Marie, che vedemmo insieme ad Amburgo).
Quando metto le mani sulle registrazioni radiofoniche delle opere che ho sentito dal vivo, il problema si avverte molto meno.
In compenso non ho mai sentito una sola incisione della Silja che potesse rendere lo splendore abbagliante degli acuti, che evidentemente risultano tali solo in virtù della loro propulsione nello spazio. Ancora una volta, Ric ricorderà il la naturale sulla tonica che la Silja ha scagliato alla fine del duetto con Blanche, una nota di tale potenza e luminosità che entrambi sobbalzammo sulla sedia. Queste sono le cose che il disco non rende...
Cantanti che sul disco 'escono' bene ma che in teatro l'orchestra letteralmente seppellisce.
...appunto.
Vorrei aggiungere che questo problema si pone soprattutto oggi, che il canto classico è dominato dai "coloristi".
La loro tecnica (fondata su suoni aperti e trasparente) funziona perfettamente in studio, meno a teatro.
Questo vale per la Bartoli come per la Von Otter, per Schovus come per Langridge.
La voce è una coperta corta (diceva la Cerquetti)! Se copri la testa, restano scoperti i piedi.
Nel nostro caso, se apri i suoni per "colorare" le vocali davanti a un microfono, poi però farai fatica a proiettare il suono nello spazio, quando sei a teatro.
E faticherai anche a dominare le pagine "vocalistiche".
E' un corto circuito in cui rimase invischiata la stessa Callas: nell'Aida EMI del 55 compie veri e propri miracoli di colorismo. Il duetto "fuggiam gli ardori inospiti" parte che è un gioiello di colori, che fa sembrare ridicole le Aide tradizionale: sembra di sentire una cantante non classica, tanto il suono è spoglio e vero. Una bellezza e una poesia da lasciare di stucco.
Poi però quando deve salire di tessitura, nella seconda parte del duetto, e cantare in modo "tradizionale" si ritrova afonissima sui filati e persino un semplice si bemolle diventa un urlo (e siamo nel 55: a teatro faceva ancora mi bemolle sopracuti senza problemi).
Secondo me una delle cause del precoce declino della Callas è proprio questo sperimentalismo audacissimo dal punto di vista tecnico.
Se così è (come credo) w il declino! Quello che ci ha regalato - sia pure logorandosi in fretta - vale più di tutti i bei suoni prevedibili e tradizionali delle sue colleghe.
Umpf... continuo a divagare....
Certo è che se siamo interessati a conoscere il volume sonoro di un cantante, è meglio andarlo a vedere 'live' (ma ha proprio tutta questa importanza il volume, è un valore in se?).
Bellissima domanda!
Mi fa piacere Gobbetto che tu sia entrato nella nostra confraternita: uno che ragiona e che non si nasconde dietro a certezzine imparaticce, come Linus e la sua coperta!
No, hai ragione. Il volume non è un valore in sè.
A teatro può però essere un'esigenza, specie in certi repertori o personaggio. Alle volte può anche essere - questo sì - uno strumento di espressione.
Ma non è un valore in sè. In disco poi non conta assolutamente nulla.
In disco i "valori" diventano altri: ad esempio le perfezione di divisioni e intonazione (ogni minuscolo errorino diventa enorme), la capacità di elaborare una frase negli infimi dettagll i (tutti amplificatissimi dal microfono), la cura di pronuncia e accento, la sobrietà dell'espressione, la varietà dei colori.
Sono queste le ragioni (che Dio mi perdoni) per cui kraus in disco non esalta quanto a teatro. A Teatro eri troppo colpito dallo splendore del suono nello spazio per accorgerti di quanto modesto fosse tutto il resto. Il disco invece - che, come per la Sutherland, sacrifica l'espansione del suono - è spietato proprio in quelle cose che a teatro passano più facilmente inosservate.
Una cosa è recitare Shakespeare in teatro; tutt'altra in una serie di primissimi piani, davanti a una telecamera.
Un grandissimo attore di teatro potrebbe non riuscirci.
Questo esempio mi permette di collegarmi anche a un'altra considerazione che affronti.
L'artista, in sala, oltre ad essere psicologicamente più sereno per l'assenza di pubblico e per la possibilità di ripetere ad libitum una performance non perfetta (cosa che però non ha effetti positivi su tutti, bisogna dirlo...), si trova anche in una situazione acusticamente ottimale: "Sente" se stesso e l'orchestra in modo perfetto, e, cosa ancora più importante, perfettamente bilanciato. Non sarà mai "coperto" da un pieno orchestrale durante una registrazione, perchè il tecnico gli manderà in cuffia qualsiasi volume della voce desideri...
Sembrerà una banalità, ma la mia esperienza nei concerti 'live' (seppure di altro genere) è che quando chi suona (o canta) è in una situazione di ascolto (di sè stesso e degli altri) non ideale, la performance ne risente pesantemente. Non si genera lo stesso 'interplay' tra musicisti (ed il cantante altro non è che un musicista che utilizza la voce come strumento), e non si ha la stessa soddisfazione personale e la stessa convinzione nella esecuzione. Di conseguenza, ne viene fuori una interpretazione spenta, senza "magia"...
Sulla questione psicologica ci sarebbe da discutere caso per caso.
Quello che tu dici è giusto (la rilassatezza, la concentrazione sulla sfumatura, ecc...), ma occorre anche considerare l'elemento adrenalina.
Anche se alcuni simpatici melomani nati e cresciuti col disco lo negano (è il caso dello stesso Celletti, che solo sul disco nutrì la sua passione per il canto), il cantante d'opera è attore esattamente quanto è cantante.
Incidere un'opera a spizzichi e bocconi non è come incidere un song o un lied, che possiedono in se stessi un'unità poetica.
Per molti può essere frustrante la mancanza di tensione teatrale e di continuità di uno studio di registrazione e finiscono per sembrare, in disco, più manierati e distratti.
In generale mi pare di aver notato che quando un cantante d'opera è meno interessato alle ragioni psicologiche di un personaggio si troverà meglio in studio di registrazione. Questo è certamente il caso della Sutherland, che in Sonnambula e Puritani mi convince di più in studio.
In Norma no. In disco fa cose egregie, ma in teatro conferiva ad alcune frasi un peso più impressionante (forse perché sentiva di più il personaggio).
A proposito della Stupenda...
Pruun ha scritto:Però, vado a memoria, nel primo lp DECCA la Sutherland canta l'aria in tono (e in effetti è bassa per lei) e poi se la alza... e così la mantenne nella carriera almeno fino al 1971 (in quella di Sydney mi pare che torni a farla in tono)... ovvio che cambiasse variazioni!
Non mi risulta proprio, sinceramente...
Se ben ricordo, la Sutherland non ha mai alzato l'aria di Semiramide (se mai la ha abbassata nella seconda parte della carriera): sia nell'lp decca, sia alla Scala, la cantava, come tutte, nella tonalità giusta, che le consentiva alla fine l'interpolazione di un mi naturale sopracuto sulla dominante.
Nel lp del 1960 la divina Joan di mi sopracuti ne spargeva almeno tre: uno incredibile nella cadenza prima del "da capo", un altro in un arpeggio di ottava fra le variazioni, e naturalmente quello alla fine.
Già alla Scala due anni dopo (stessa tonalità) era rimasto solo quello alla fine e per giunta stentato e periclitante.
Successivamente la Sutherland ha cominciato a cantare il "Bel raggio" abbassato (ma che senso ha???? visto che come dici tu è una tessitura già bassa per lei!!!)solo perché non poteva rinunciare alla puntatura sulla dominante, che a questo punto diventava un mi bemolle, se non addirittura un re.
Assurdità da primadonna schiava del proprio mito!
Quanto all'O zittre nicht, ero quasi sicuro che in disco risultasse in tono. Forse mi sarò sbagliato. Se è così chiedo scusa.
Un salutone e scusate la solita prolissità.
Mat