Venerdì, 27 Settembre 2024

Editoriale: Simone Kermes, nuovo paradigma verdiano? - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 27 Agosto, 2011

In mezzo a tante produzioni di livello mediocre, denotabili solo per il pessimo gusto con cui sono assemblate (il riferimento al Mosè pesarese è quasi obbligatorio) e interpreti che si fanno notare per glamour e interviste su riviste patinate o, paradossalmente, per i fischi e gli insulti loro indirizzati che contribuiscono a far parlare di loro più che le loro stesse performances, c'è solo un'interprete che mi piace ricordare: Simone Kermes.
Intendiamoci: non è l'unica meritevole di essere menzionata. Se sfogliamo festival e stagioni, vediamo che trovare in una Donna senz'ombra per altri versi dimenticabile il solido professionismo di una grandissima Diva dei nostri tempi come Evelyn Herlitzius è qualcosa di più di un balsamo: è la dimostrazione che l'arte della rappresentazione è qualcosa di vivo e dinamico che va avanti per la sua strada, incontrando il favore di un pubblico finalmente smaliziato e desideroso di crescere con i suoi interpreti.
E lo stesso dicasi per esempio per Patricia Petibon, passata dai ruoli barocchi a Lulu, di cui oggi è una delle interpreti più importanti se non la maggiore.
Intelligenza, capacità di rinnovarsi, sensibilità nell'assecondare le fisiologiche evoluzioni del proprio strumento, versatilità e - nel contempo - attenzione alle potenzialità attuali del proprio ruolo, della propria voce, del proprio "essere interprete": questo è ciò che oggi il pubblico si attende da un artista per cui la definizione "cantante lirico" è ormai da ritenere obsoleta.
Siamo onesti: cosa ci importa dell'ennesimo fine dicitore che "canta sul fiato" come tutti gli altri che l'hanno preceduto, cloni e replicanti non sempre affidabili, quasi mai entusiasmanti, di lontani archetipi che, a loro volta, diventarono famosi perché ebbero il coraggio di violare le regole auree a essi stessi imposte da altri soloni? Cosa ci importa di sentire l'ennesimo tronfio pavone che canta "à l'italienne"? E poi: di tutte le assurdità che si possonodire sul tema, quella più resistente e dura a morire è quella del "canto sul fiato", come se esistesse la possibilità di un canto che prescinda dal fiato per fare risuonare il laringe.
No, la vera differenza è fra il canto immascherato - morto, sepolto, putrefatto, decomposto, polverizzato - tipico della vecchia scuola italiana che non ha più niente da dire, che ha esaurito il suo percorso; e quello aperto, con cui ormai si esprime ormai pressoché tutto il mondo civilizzato.
Chi si ostina a resistere andrà incontro a figure patetiche, come i concerti di vecchie cantanti che si ostinano a ricercare, nella chimera di una patetica longevità vocale, i fremiti della giovinezza dei personaggi che si ostinano miseramente a portare in scena; oppure a fallimenti, specie se portati a inseguire modelli stilisticamente lontani in contesti sfavorevoli. Dobbiamo fare un esempio? Non è di sicuro nella misera reiterazione del decrepito "italian style" che potremo trovare la rénaissance dei ruoli Colbran, che oggi hanno la loro massima esponente in Joyce DiDonato e un giorno non lontano, probabilmente (anche se non sicuramente: questa è una storia ancora tutta da scrivere) Julia Lezhneva, che è russa, e non polacca come sostiene "L'Opera" nella sua recensione non firmata al disco rossiniano.
Ci sono, insomma, gli elementi per poter andare avanti: bisogna solo avere il coraggio di farlo, di insistere senza dimenticare quello che dicevamo poco sopra, che cioè quella della rappresentazione è un’Arte dinamica, che progredisce con il tempo, con lo spazio (inteso come realtà socio-culturale), con la sensibilità culturale imperante, con il gusto dell’Artista e del pubblico.
C’è spazio per il testo?
Certamente sì: è pur sempre la base su cui partire e su cui ragionare. Noi, appassionati del lavoro dei direttori “filologi” su una materia importante e tanto travisata in passato come il repertorio barocco, non possiamo che essere entusiasti del lavoro fattoda questi benemeriti personaggi sul testo. Ma non può il testo essere l’alfa e l’omega di un’interpretazione: ne discutevamo proprio in questi giorni sul nostro forum (cfr. Accademici e interpretazione, http://www.operadisc.com/forum/viewtopic.php?f=5&t=1592) ricordando quanto siano importanti i diritti dell’interprete di ricreare una materia che, senza di essi, sarebbe lettera morta.
È l’interpretazione che dà vita a un testo.
È l’interpretazione che apre strade sino a quel momento impensate che diventano, da quel momento in avanti, addirittura percorsi obbligati per delimitare i limiti di una corretta prassi esecutiva.
Non abbiamo bisogno in questa sede di ricordare i nomi di Artisti rivoluzionari che hanno cambiato il nostro modo di approcciare la materia; diremo solo che il percorso che ha portato al modo attuale di eseguire l’opera lirica è talmente variegato che è quasi impossibile stargli dietro. E sarebbe assurdo, illogico, antistorico e fondamentalmente anticulturale pensare di ricondurlo entro paletti che non gli appartengono più.
Il merito di tutto ciò è ovviamente degli interpreti che hanno coscienza della propria identità, del proprio hegeliano “esserci” in modo felicemente importuno, a scuotere le nostre pigre coscienze di vecchi ascoltatori brontoloni ma, in fondo, desiderosi di lasciarsi coinvolgere da nuove esperienze, che siano rispettose di quello che c’è stato ma che puntino in nuove direzioni.

In questa temperie culturale così complessa, è bello sapere di poter contare su una personalità affascinante come quella di Simone Kermes. Che, ci tengo a premetterlo, non è la mia cantante preferita: la trovo spesso didascalica e metronomica, e soprattutto nel repertorio in cui si è costruita la propria celebrità, il Barocco. Ed ecco che invece appare su Youtube una sua versione di "D'amor sull'ali rosee" che lascia allibiti.
Il Notturno di Leonora è, notoriamente, uno dei brani più incredibili di Verdi:occorre che l'interprete vada quasi in trance e che faccia uso di queste capacità mesmerizzanti anche sul pubblico. Occorrono doti belcantistiche e fiati interminabili. Assieme a "Cieli azzurri" è probabilmente la prova più complessa che Verdi richiede a un soprano lirico. Bene, la Kermes non solo vince la sfida ma addirittura rilancia.
Vince la sfida destrutturando l'espressione, polverizzando la frase in mille curve che disorientano l'ascoltatore, che gli fanno perdere le certezze e i riferimenti abituali.
Rilancia, facendo vedere in filigrana i termini di riferimento verso cui dovrà indirizzarsi l'espressione verdiana futura.
Non più quindi i sopranoni old style che hanno scritto la Storia di questi percorsi interpretativi, ma le cui eredi (anche quelle brave) sono inevitabilmente pallide ripetitrici di cose già dette, di strade già percorse; ma cantanti di nuovo genere, formatesi con l'espressività barocca e che, da quel repertorio, hanno mutuato la sensibilità per la sperimentazione, per cambiare le carte in tavola, non diversamente dalla Callas che cambiò le regole del canto verdiano provenendo da Wagner e dal Belcanto.
È probabile che l'esperimento della Kermes sia destinato a rimanere isolato, ma potrebbe - auspicabilmente - aprire la strada a qualcun'altra: per esempio, a Joyce DiDonato, di lei più avanti su questo cammino specifico

Pietro Bagnoli

Video:

Categoria: Editoriale

 

Chi siamo

Questo sito si propone l'ambizioso e difficile compito di catalogare le registrazioni operistiche ufficiali integrali disponibili sul mercato, di studio o dal vivo, cercando di analizzarle e di fornirne un giudizio critico utile ad una comprensione non sempre agevole.