Tosca
Aggiunto il 15 Giugno, 2006
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Note: registrazione tecnicamente perfetta Pregi: un ottimo prodotto, da qualunque angolazione Difetti: virtualmente nessuno Valutazione complessiva: |
Spesso è uno spettacolo teatrale a fare da volano per una registrazione discografica. Qui succede il contrario, anche se così non sembra, visto che si tratta della registrazione di una rappresentazione.
L’arcano è presto svelato: Muti – vera ragione di questa registrazione – aveva già prodotto un’incisione in studio del capolavoro pucciniano, la cui riuscita era stata piuttosto modesta, ma che era stata il primo vero approccio organizzato con l’opera. La visione d’insieme era complessivamente abborracciata pur con qualche ottimo momento, con un cast decisamente anonimo pur nella sostanziale correttezza; un prodotto, insomma, che all’epoca fu strombazzato come capita nella maggior parte delle produzioni di questo discusso direttore, ma che passò rapidamente nei – chiamiamoli così – paperback, ove è ancora possibile trovarlo con spesa modesta.
Quest’incisione, invece, non è stata altrettanto pubblicizzata, ma è decisamente superiore alla precedente, e non di poco. I motivi sono molteplici, e concorrono a farne un prodotto di qualità talmente elevata da porlo, inopinatamente e inaspettatamente, ai vertici della discografia.
Proviamo ad esaminarne le ragioni.
Innanzitutto, trattandosi di una produzione mutiana, è giusto partire dal suo massimo artefice, qui ispirato come poche altre volte. È logico che ci troviamo di fronte ad una di quelle produzioni live che, nell’editoriale di qualche giorno or sono, definivamo “di secondo tipo”: quelle cioè che sono strettamente vincolate alla figura direttoriale, che finisce per dirottare su di sé la maggior parte delle attenzioni della produzione assumendosene anche ovviamente le responsabilità, in caso di mancato successo. Quanto tale atteggiamento possa essere pericoloso, trattandosi non di un concerto sinfonico, bensì di uno spettacolo d’opera, è talmente ovvio che non metterebbe nemmeno conto di parlarne, se non fosse che stiamo trattando di una delle personalità più discutibili, e proprio per questo – verrebbe da dire – anche più importanti dell’ultimo quarto di secolo di vita musicale. A considerare tutto ciò che appariva morchioso e solo a tratti oleografico nell’incisione Philips, c’è da rimanere francamente sbalorditi: la narrazione è lucida, coerente, stringata, con un sapiente uso dei fiati che manifestano una tendenza ad una sospensione quasi mahleriana (vedi, per esempio, il finale secondo), che è distante le mille miglia dalle fanfare colme di ironia del mai sufficientemente rimpianto Sinopoli, ma che nondimeno crea un’atmosfera molto hard boiled che è ricca di personalità e che a Tosca, a questa Tosca in particolare, calza come un guanto. Sembrerebbe un aspetto talmente ovvio da risultare persino scontato; eppure non ricordo una sola incisione di quest’opera che abbia approfondito tale aspetto, nemmeno quella celeberrima di De Sabata che pure, almeno teoricamente, poteva vantare almeno due elementi in grado di ricreare tale atmosfera, tra l’altro anche discretamente appropriata per i tempi in cui venne registrata; invece, ahinoi, forse anche per questi motivi, è una Tosca invecchiata molto male, e proprio soprattutto nei due protagonisti che inseguono, ognuno per conto proprio, diversi modelli esecutivi, ma comunque terribilmente ancorati a stili all’epoca già usurati .
Qui il gioco di squadra è invece magnificamente orchestrato (è proprio il caso di dirlo) da un Muti in autentico stato di grazia, che trasforma in oro tutto quello che tocca, proponendo un approccio originale (era ora: non ne potevamo più di tutto questo sangue finto tipo film horror all’italiana!) in cui la violenza esiste ma è quasi sottintesa, implicita, un dato di fatto di cui tutti sono al corrente, che non è il fine ma il mezzo per poter arrivare alla narrazione della fabula.
Da questo punto di vista, anche Scarpia cambia prospettiva. Non è più il bigotto lussurioso e sadico con la bava alla bocca, ma un freddo e rigido burocrate che richiama la violenza inespressa eppure infinita dei gerarchi nazisti burocrati alla Goebbels o dei freddi assassini alla Ezov della Lubianka sovietica. In questo gioco, che non potrebbe essere più lontano dagli istrionismi démodées di Tito Gobbi, rifulge la bravura suprema di Leo Nucci, un cantante che con la sua sorgiva spontaneità e la sua carica umana teoricamente sembrerebbe lontanissimo da tale atteggiamento, ma che in tale contesto si trova sorprendentemente a proprio agio. Concupisce Tosca quasi come un portato della propria tendenza a dominare, e non per lussuria o, peggio che mai, vera passione. È inquieto, nervoso, sottile: le esplosioni di rabbia non sembrano mai spontanee, ma sempre perfettamente calcolate, in modo tale da provocare ben precise risposte nel destinatario di tali atteggiamenti. Il canto, poi, considerando le primavere che già all’epoca il buon Leo si portava sulle spalle, non è mai meno che splendido, rifuggendo siccome la peste tutto ciò che ha a che fare con il parlato o tutti quei trucchetti da “bieco, viscido e insinuante” in cui si rifugiano tutti gli Scarpia mediocri: un bel po’, quindi.
Maria Guleghina è una splendida protagonista. Canta tutto con amore e, all’occorrenza, non le mancano forza o sensualità. Quello che forse le difetta, ma lo si dice tenendo presenti le grandi interpreti del passato, è un briciolo di personalità in più che trasformi la prestazione da eccellente ad eccezionale; c’è però da dire che in un contesto come questo, così profondamente segnato dalla debordante personalità di Muti, è sicuramente più difficile segnalarsi per qualche peculiarità; e Tosca, nell’idea mutiana, non riceve sicuramente lo stesso risalto di Scarpia; e, per inciso, è probabilmente l’unico tratto in comune con la diversissima versione di Sinopoli. Per il resto siamo di fronte ad un cantante dotata di notevole onestà intellettuale, che canta con la propria voce e che delinea un personaggio forte, volitivo anche se scarsamente amoroso; ma questo, di sicuro, non è il contesto più adatto.
Licitra è splendido. Qui fa sentire una voce meravigliosa da tenore lirico della più bell’acqua, forte, piena, ricca di squillo, perfettamente intonata ed appoggiata sul fiato. Lanciato da Muti, mentre si trovava nel corso di una discreta carriera, con il famoso Trovatore dell’inaugurazione scaligera, questo era il tenore che tremare il mondo doveva fare, tant’è vero che di Manrico propose la voce ideale, a parte gli acuti che – notoriamente – in quell’edizione furono tagliati. Successivamente si è perso per strada, incappando anche in qualche spettacolo nazional-popolare assieme ad altri suoi colleghi che condividono con lui doti fuori dal comune e analoga propensione alla genericità: peccato, perché questo Cavaradossi è semplicemente perfetto per la rara coniugazione di empito eroico, ardore fremente coniugato con, ci si perdoni l’ossimoro, un’asciuttezza espressiva che sfiora il riserbo, e che trova il suo zenit nella veramente splendida E lucevan le stelle, per cui non appare esagerato scomodare paragoni con Pippo Di Stefano, l’unico che gli possa stare alla pari e che non è difficile individuare come modello. Lo troviamo talmente perfetto ed immedesimato nella parte da eleggerlo come interprete ideale di un ruolo che non sembrerebbe particolarmente proibitivo di primo acchito, e invece lo è per la difficoltà di dire qualcosa di non convenzionale, stretto com’è nella morsa di due protagonisti così granitici.
Rimane da dire dei comprimari, tutti perfetti, e del meraviglioso coro della Scala, anch’esso al di sopra di ogni lode.
Un capolavoro, insomma!