beckmesser ha scritto: alcune cose mi sfuggono, ed in particolare il discorso sulla tendenza “onnivora” delle ultime generazioni di cantanti. A me pare sia vero esattamente il contrario e che negli ultimi 50 anni si sia andati verso una sempre maggiore specializzazione.
Giustissimo!
Oggi i repertori si sono differenziati per "ambito storico".
Roberto non sarà d'accordo, ma per me è un grande passo avanti.
Fermo restando il problema dell'estensione (che rimane fisicamente vincolante) si stanno abbattendo le vecchie e superate questioni legate al colore-volume; piuttosto, come dicevi anche tu, i cantanti si vanno specializzando in determinati contesti stilistici, formando scuole sempre più distanti e specialistiche (il barocco, il belcanto, Verdi, Britten, wagner-strauss).
All'interno del loro ambito è anche possibile che vi siano aperture che un tempo sarebbero state giudicate coraggiose (la Gruberova in Devereux, la Meier in Isolde, Daniels in Giulio Cesare, la Silja in Clitennestra, la Bartoli in Cleopatra) mentre non si accetterebbero deroghe tanto audaci "fuori" dal proprio ambito (sarebbe ben più difficile sentire la Gruberova in Aida o la Meier in Adalgisa o la Silja in Azucena).
Può anche succedere, è vero, che si creino collegamenti, porte di comunicazioni fra un repertorio e l'altro.
Ciò avviene con molta parsimonia, ma quando avviene è un grande arricchimento.
Per esempio quando liederisti come la Von Otter o Hampson si buttano sul musical americano; o quando cantanti barocchi si allungano a Britten o Stravinsky. O quando ex-rossiniani americani esportano le conquiste della loro vocalità ad ostici ambiti novecenteschi (Kuebler in Zemlinsky e Berg, Merritt in Schoenberg e Messiaen, persino la Anderson in Henze).
E' vero che tutto questo si vede molto più all'estero che in Italia.
Da noi siamo ancora molto, ma molto indietro.
Beckmesser ha scritto: a me pare che il discorso sul valore di molti artisti del passato (anche quelli mitici) andrebbe contestualizzato. Voglio dire: è verissimo che molti hanno lasciato cose eccezionali (almeno per quello che se ne può valutare da incisioni spesso di qualità discutibile) ma a mio parere sono eccezionali per lo spirito e le “regole del gioco” della loro epoca, e ho molti dubbi che sarebbero altrettanto eccezionali con gli standard esecutivi odierni. .
Be' Beckmesser.
Qui invece non sono per niente d'accordo.
Le "regole del gioco" (complimenti per l'espressione: è azzeccatissima) non ci permettono, o almeno non dovrebbero permetterci (secondo me) di giudicare un'interpretazione. Nè a favore, nè contro.
Anzi, secondo me, non ci si dovrebbe mai avventurare in un giudizio su un cantante se prima non si è fatta la tara di tutto ciò che io chiamo
(passami il termine un po' empirico) corteccia.
E le regole del gioco sono assolutamente corteccia.
La corteccia infatti non dipende dall’artista, non è merito suo, nè colpa sua; è l'espressione dalla società che lo circonda, dall’insieme delle altre interpretazioni di cui si è nutrito, dal rapporto (ad esempio, più o meno filologico) che il suo tempo ha sviluppato con la musica del passato, delle convenzioni del pubblico, dalla migliore o peggiore tecnica di incisione, ecc… ecc… ecc…
Non sto dicendo che la corteccia non sia importante, intendiamoci.
E' importantissima, ma non nel giudizio sull'interprete.
Il fatto che un cantante esegua tutte le note di uno spartito (come, più o meno, desideriamo noi oggi) o segua i tagli di tradizione (come era obbligatorio in passato) è corteccia.
Il fatto che canti sul diapason originale o su quello attuale è corteccia.
Il fatto che canti nella lingua originale o in un’altra lingua è corteccia.
Sono tutte cose che non dipendono dalla sua volontà, non sono frutto di una scelta e non sono espressione di un pensiero; quindi non ci autorizzano a definirlo bravo o non bravo.
La Callas che canta Nume Tutelar della Vestale è una delle cose più grandi che sia dato sentire.
E’ il “nocciolo” che è grande.
Se senti la Huffstod con Muti (che canta in francese, nella tonalità giusta, senza tagli, ecc…) non è altrettanto grande. Questione di nocciolo, non di corteccia.
Molto spesso, invece, sento esprimere giudizi sulla base della corteccia (le regole del gioco).
E la cosa mi dispiace, perché non la ritengo giusta.
Questo capita specialmente con le interpretazioni del passato, perché (non essendo in grado di contestualizzarle) fatichiamo a distinguere la corteccia dal nocciolo.
Faccio un esempio.
Le cantanti anglo-tedesche dell’inizio del novecento usavano non vibrare e non portare la voce.
Quell’effetto oggi ci risulta sgradevole; dà la sensazione della fissità.
Ma per loro era normale, perché una vastissima fetta di pubblico dell’epoca (specie tedesco e anglosassone) amava proprio quel tipo di suono, mentre trovava irritante (belante) il vibrato di cui andavano tanto fieri i cantanti italiani.
Chi è abituato ai dischi d’epoca, sa che le cosiddette “fissità” della Destinn o della Melba sono “corteccia”. Non ha senso giudicare negativamente o positivamente le due artiste sulla base di questi suoni.
Oggi questo tipo di sonorità fissa non usa più. Quindi se una cantante attuale emette un suono simile (come Emma Kirby o Rachel Yakar o molti cantanti barocchi degli anni 70-80) significa che lo usa con uno specifico intento: in questo caso non è più corteccia.
Sempre più difficile!
Vogliamo esagerare?
Anche le scelte interpretativo sono spesso “corteccia”.
Ad esempio è molto più scioccante un sospiro orgasmico della Welitsch nel 1943 che mille coiti mimati in scena da soprani attuali. Per la stessa ragione sarebbe assurdo prediligere il Don Giovanni di Hampson a quello di Siepi perché il primo è più sensuale e quando canta con Zerlina le si struscia addosso, mentre Siepi è un distinto e asessuato signore di mezza età. Non è colpa di Siepi se nella sua epoca il sesso non era rappresentato sulle scene operistiche; e non è merito di Hampson se la nostra società vuol vederlo esplicitato ovunque.
dottor Cajus ha scritto:Dove può esserci filologia esecutiva senza il ripristino almeno del diapason originale e della orchestrazione originale? Non pretendo che si canti nuovamente con il falsettone ma diapason ed orchestra sì.
A me pare, Roberto, che tu – su questo punto – sia caduto in contraddizione.
Quando dissi, tempo fa, che ritenevo fosse arrivato il momento di sciogliere le orchestre “liriche” legate ai teatri dell’opera e di scritturare di volta in volta orchestre specialistiche, tu hai risposto che non eri d’accordo: perché l’eccessiva specializzazione era un male.
Ora te ne esci chiedendo addirittura il diapason originale!!!
Ma sai qual è la ragione per cui non si usa il diapason originale?
Proprio perché questo richiederebbe orchestre “specialistiche” con strumenti ben precisi, diversissimi dagli attuali e che un normale professore d’orchestra non potrebbe suonare.
Gli ottoni, i legni, ecc… non si possono accordare come i violini.
E infatti oggi il diapason originale lo usano solo quei complessi “barocchi” (privati) che coltivano proprio la deprecata specializzazione che – a tuo dire – deriverebbe dalla diffusione del disco.
Gardiner ha fondato un’orchestra “romantica” proprio per disporre degli strumenti giusti e del diapason giusto per il repertorio ottocentesco; eppure nessun teatro italiano l’ha mai chiamato per fare (che so io) una Norma o un Trovatore.
E questo perché i nostri teatri sono vincolati alle nostre generiche orchestre liriche, che – inutile dirlo – sono costrette a dover far tutti i repertorio, ovviamente con lo stesso diapason.
E poi perché “non pretendi che si canti col falsettone?”
Chi ti autorizza a decidere che il ripristino del falsettone sia evitabile, mentre il ripristino del diapason originale no?
Chi ti autorizza a stabilire che una violenza all’antica scrittura vocale possa essere tollerata e un’altra no?
Io penso che delle due violenze, quella di far cantare in petto ruoli scritti per il falsettone sia infinitamente più terribile.
Guarda i ruoli Nourrit: Ugonotti, Guglielmo Tell, Muta di Portici, Juive….
Furono scritti per un quasi-baritono e invece (avendo eliminato il falsettone) li dobbiamo affidare a vocette acutissime, povere al centro, adolescenziali e chiare nella timbrica.
Nourrit al contrario era talmente poco "tenore" (in senso moderno) che quando tentò di conseguire il do di petto si scontrò con l’impossibilità materiale di farlo: e si trattava del do di allora, quindi meno di un si naturale di oggi!!
E poi, scusa, siamo onesti: che vuoi che sia mezzotono dovuto al diapason, in confronto alle trasposizioni incredibili che nell'Ottocento erano operate dai cantanti: vi erano contralti che cantavano la sonnambula e nessuno gridava allo scandalo!
Figurati quanto si sarebbe scandalizzato Bellini dell'aumento del diapason , quando la stessa Pasta si abbassava bellamente anche di un tono intero le cavatine …scritte per lei!!!
Vedi Roberto: io, come te, non avrei nulla in contrario che venisse applicato il diapason originale, che gli organici venissero restaurati; addirittura non mi scandalizzerei affatto se un baritono di oggi cantasse il Guglielmo Tell (ruolo di Arnould) salendo in falsetto dopo il sol.
Mi va bene questo e mi va bene l'opposto.
Perché, sia chiaro, è sempre di corteccia che stiamo parlando.
La sostanza è altra cosa: è la grandezza "interna" dell'interprete.
E oggi, credimi, vi sono interpreti grandi esattamente come ve ne erano in passato, anche se giustamente le regole del gioco (come dice Beckmesser) erano diverse.
Salutoni,
Matteo