Cari amici,
Non è la prima volta che in questo forum si sfiora il tema delle "classificazioni vocali".
E' una questione che mi sta molto a cuore. Ci rifletto da anni.
E da tanto tempo vorrei sistematizzare le mie riflessioni in un articolo.
Chissà...
Frattanto mi piacerebbe discuterne un po' con voi.
Partirei con una affermazione di Roberto, che ritengo particolarmente interessante, soprattutto perché nasce da una persona che non si è limitata a leggere che esistono i "tenori di forza, quelli di grazia, quelli lirici, ecc... ecc.. ecc..." ma che ha studiato il fenomeno nella sua storica complessità.
Roberto osservava che fra le due guerre mondiali si sono andati consolidando dei criteri di classificazione innovativi e sostanzialmente diversi da quelli ottecenteschi.
E questo è verissimo.
Improvvisamente i vecchi (e certo riduttivi) compartimenti di estensione (soprano, tenore, basso, contralto, ecc...) non sono risultati più sufficienti.
Le orchestre (alla fine dell'800) crescevano; le nuove opere, condizionate dall'esaltante deflagrare del declamato a danno del vocalismo, spingevano sempre più i cantanti a coltivare il volume.
Al punto che la corposità e il colore stesso del suono iniziarono a non essere più una peculiarità dell'artista, ma addirittura un criterio per classificare i diversi tipi vocali.
Fu una rivoluzione. Le famose (per quanto mi riguarda famigerate) suddivisioni in "lirico", "drammatico", "leggero" e più o meno ridicole gradazioni intermedie sono veramente emerse solo alla fine del diciannovesimo secolo, con sfumature almeno inizialmente diverse e non condizionanti.
Ma è stato tra le due guerre che l'elemento "colore-volume" è diventato coartante nella classificazione vocale e quindi nell'assegnare i repertori, affiancando o addirittura sopravanzando quello che fino ad allora era ritenuto prioritario, ossia l'estensione vocale.
Io non solo, come avrete capito, non dò alcun credito a questo tipo di classificazione (che possiamo chiamare classificazione "classica" novecentesca, fondata sul volume-colore), a meno che non parliamo di opere composte esattamente in questo periodo (1915-1945).
Ma credo che sia anche stato una delle cause di quell'abbruttimento psicologico-vocale che (fatte salve le opportune eccezioni) mi pare caratterizzi la maggior parte dei cantanti inter-bellici.
Per molti di loro, la compatezza, la marmoreità, la rotondità e l'oscuramento del suono a tutti i costi era l'assoluta necessità, magari a danno dell'agilità, dello scavo nell'accento, della calibratura dei colori, dell'evidenza della dizione e (vivaddio) della dimensione psicologica.
Come dice Roberto, in pochi decenni il mondo del canto era cambiato.
Io non credo in meglio.
Rispetto ai bassi sepolcrali, nerissimi, tromboneggianti che circolavano negli anni '30, un Paul Plancon fa la figura di un fringuellino.
Eppure esprime lui, in due note, mille e mille volte di più dei suoi scurissimi eredi. Non parliamo di agilità, espressività, arguzia, consapevolezza ritmica, elasticità umana e psicologica.
Nulla di strano che le Azucene di quegli anni sembrassero tutte uguali: in fondo che bisogno c'è di "interpretare" la psicosi di Azucena, i suoi sconvolgenti flussi di coscienza? Ti basta avere un colore scuro (o meglio oscurato) e un volume possente sei già a posto.
E che bisogno c'è di lottare per far emergere l'innocenza adolescente di Gilda, il suo sangue giovane che urla: se hai un colore chiaro (o meglio schiarito) e un volume limitato sei già a posto. Qualche vago "cocodé" e sarai una Gilda di importanza storica.
Non che con Wagner le cose andassero meglio: anche lì (negli anni 20-40) era la trombonaggine magniloquente a farla da padrone.
Come la gente si potesse divertire a sentire la milionesima volta Melchior e la Flagastad cinquantenni e pesanti lanciare i loro prevedibili decibels senza comunicare altro che la propria ridondante imponenza è qualcosa che non arrivo a capire.
Dopo la seconda guerra mondiale, pur fra nostalgie e resistenze, la predominanza "colore-volume" è stata messa in discussione, riportando il problema delle classificazioni vocali e delle assegnazioni del repertorio su basi diverse.
E non fu certo merito della Callas: lei fu solo un sintomo di un fenomeno planetario che portò (finalmente) a riflettere sulla questione, con altri criteri.
In sostanza, sono d'accordissimo con Roberto nell'analisi storica che ha proposto, ossia enucleando il periodo tra le due grandi guerre come momento chiave di una certa sistematizzazione del problema (la classificazione "classica" novecentesca, fondata sul "volume-colore" della voce).
Sono meno d'accordo sul credito che si dà a questa tradizione, che oggi dovrebbe essere radicalmente superata (a meno che non parliamo di opere scritte proprio in quel periodo).
L'argomento mi pare affascinante e mi piacerebbe conoscere altre opinioni.
Salutoni
Matteo