Riapro questo vecchissimo thread, chiuso ormai da tre anni, per richiamare alla vostra attenzione l'ultimo, doveroso editoriale del Bagnoli (
http://www.operadisc.com/vis_tutto.php?id3=145) consacrato a Natalie Dessay e alla sua storica Traviata di Aix.
Da notare che, direi profeticamente, questo Thread si era chiuso proprio nel nome della Dessay, ciò che la dice lunga su uno dei fenomeni più strani e suggestivi del mondo del teatro: l'attesa, quasi quell'atmosfera di necessità che grava su un debutto che già il mondo riconosce come essenziale, su cui già si parla, si discute prima ancora che veda la luce.
Come sapete io ho avuto l'onore (e mi par di capire che sono stato l'unico sul nostro forum) di assistere dal vivo a quella Traviata e proprio la sera (il 16) della diretta.
Questo consente a me di aggiungere alcuni dettagli che la visione televisiva può aver mascherato.
La prima questione è strettamente vocale: voglio rassicurare quanti temono che la voce della Dessay sia scarsamente udibile, scarsamente penetrante nello spazio (e stiamo parlando di uno spazio insidioso come quello dell'arcivescovado, all'aperto e poco risonante).
Ecco una delle tante leggende metropolitane messe in circolazione da coloro che di solito la Dessay la sentono solo per radio o in disco.
Tutt'altro: persino io (che temevo in questo caso che la tessitura fosse troppo bassa per lei) mi sono dovuto ricredere. La voce corre, si impone, galleggia e sprigiona raggi di luce risonanti in ogni angolo del teatro.
E non solo si sentiva benissimo quando le necessità belcantistiche della scrittura la costringevano a lavorare i suoni nella maschera, ma anche quando svestiva il suono di ogni broccato "belcantistico" e scatenava l'enorme potenziale "coloristico" sperimentato negli ultimi cinque o sei anni, certamente i più impressionanti e grandiosi della sua carriera.
Anche solo dal video, si averte benissimo che la sua voce "buca" senza problemi quando la cantante usa le tradizionali armi della virtuosa (l'ampia dinamica, il gioco di piani e di pianissimi, i lunghi legati sul fiato). Ma quando comincia a spogliare il suo canto, a spezzarlo nelle infinite rifrazioni del colore, a liberarlo dalla maschera (e sono i momenti più geniali) è ragionevole chiedersi se quei suoni che il microfono raccoglie sono altrettanto efficaci dal vivo.
Bene, vi rassicuro. Lo sono! Si sentono tutti, eccome se si sentono...
Anzi, era proprio questo incredibile vocabolario di colori multiformi e di parole svelate che penetrava più facilmente nelle orecchie e nell'anima dell'ascoltatore.
E qui arriviamo alla ragione che, più di tutte le altre, rende rivoluzionaria - tecnicamente parlando - la Violetta della Dessay.
E precisamente l'adesione radicale (per la prima volta in questo ruolo) alle conquiste del colorismo, la determinazione rischiosa ma eroicamente vinta di liberare Violetta dei suoi aloni belcantistici e ridurla a un'umanità tagliente, rivletatrice, talmente vera da essere dolorosa.
Certo, a monte resta una tecnica di solida formazione belcantista, senza la quale la Dessay non avrebbe potuto far fronte (e in quel modo) alle difficoltà della scrittura (con l'eccezione, l'avrete sentito, di "Follie, Follie", unica pagina in cui la diva fatica oggi ad andare oltre la sufficienza).
E tuttavia, pur con questa padronanza tecnica, la Dessay opera in Violetta una vera rivoluzione "coloristica", proprio come la Bartoli in Gluck e Salieri, la Von Otter in Haendel, la Antonacci in Carmen.
Con lei per la prima volta il colore (e il colore di oggi) entrain Violetta e ne squarcia ogni filtro melodrammatico, antico, aulico.
Nemmeno la Callas (che resta la più grande Violetta documentata dal disco e che del colorismo era stata una vera pioniera) ci aveva pensato.
E aveva ragione: ai suoi tempi sarebbe stato un errore.
La sua Violetta resta ammantata di nostalgie ottocentesche, di glorie sfiorite, amarezze di decandentismi (tanto cari all'immaginario Viscontiano) che la rendono immensa.
Nella Callas l'esplorazione del colore (in questo ruolo) sarebbe stata assurda.
Ma oggi, per noi e per la Dessay (sessant'anni dopo), non c'è più spazio per il "filtro" romantico, che sfuma i contorni della tragedia in un clima sentimentale e commovente.
Nel dialogo serrato fra i capolavori del passato e il pubblico del presente, Violetta si deve assumere altre responsabilità.
Altrimenti il pubblico non vi si riconoscerà, non andrà più a sentirla, la giudicherà roba vecchia per vecchi.
E la responsabilità di Violetta oggi è lo schianto, la caduta, la rivelazione della morte.
Se potessi sintetizzare in due parole (e nella loro correlazione) la Violetta della Dessay, direi "forza" e "fragilità".
Tutto si consuma nella dialettica fra questi opposti.
E anche questo è un elemento che la sola visione del video (colpa anche della regia televisiva) non rende.
O meglio... la fragilità della Dessay si coglie con chiarezza nei suoi primi piani, nei suoi sguardi, nel ricamo coloristico del suono.
Ma la sua forza disumana (di quelle che farebbero tremare i cosidetti soprani drammatici) la si poteva percepire soprattutto dal vivo, nel magnetismo fantastico del suo gesto nello spazio, che, benché misuratissimo e proveniente da una donna tanto piccolina, catalizzava il mondo intero su di lei.
Non c'era possibilità di guardare nient'altro, tanto il potere d'attrazione della sua persona fungeva da "buco nero".
Che sofferenza a vedere, nel video, l'insistenza dei primi piani su Tezier durante il duetto! A teatro non era proprio possibile guardare lui.
La stessa regia, pur non essendo speciale, sfruttava al meglio questo senso di forza enorme che la Dessay riesce a sprigionare, che vibra dalla sua immobilità, o da uno sguardo. Intorno a lei c'era il vuoto, pietrificato, come se il regista sapesse che nulla può distrarre dal potere calamitante di tanta forza.
Ne usciva una Violetta di cristallo, terribilmente fragile, ma come mossa da una consapevolezza superiore, da una vocazione a lottare, a opporsi, persino a "giudicare".
In questo senso, come ha scritto Pietro, il suo confronto con Germont è spiazzante: non è la solita Violetta che deve combattere contro il disprezzo del mondo. Qui è lei, è Violetta, che disprezza!
L'espressione dura, tagliente (dello sguardo e della voce) con cui "giudica" Germont è sconvolgente: la sua grandezza, la sua forza intimidisce, spaventa.
Forza e fragilità con la Dessay si fanno un tutt'uno (come in certe storiche interpretazioni della Stratas), come se la sua stessa forza la rendesse più vulnerabile degli altri esseri umani, e fosse proprio la sua fragilità a scatenare in lei la volontà di combattere, come un poderoso istinto di sopravvivenza.
Forza e fragilità sono connesse e incompatibili. Saranno la ragione dello schianto, come se Violetta fosse troppo fragile e troppo forte per poter sopravvivere.
Ed è quello che accade in quell'incredibile terzo atto: uno dei momenti di più intensa emozione che abbia provato a teatro.
La condizione "patologica" della morente non è mai parsa tanto mostruosa...
Sì ho detto mostruosa: non commovente e in fondo rassicurante come sono le normali Violette che muoiono santificate e benedicenti.
La Dessay dà una rappresentazione della morte in musica che fa piazza pulita di antichi patetismi e riscatti in Dio.
La lucidità del morire è talmente carica di verità che ferisce il pubblico di oggi.
Quell'
Addio del passato - brano che non ho mai amato troppo - qui diventa un qualcosa di inaudito e non solo per lo splendore tecnico con cui è eseguito (tutto legato in un interminabile, luminosissimo, acrobatico filo di voce).
Quel che colpiva era quel colore opaco, gelido come una lastra di marmo, quel distacco attonito, impietrito, quasi privo di emozioni, la fissità sfinita del ritmo, quel trascinarsi senza veramente muoversi di chi ormai vede la fine del tempo e osserva il niente che lo aspetta dritto negli occhi.
La Violetta della Dessay non è solo una superba esibizione di vocalismo e musicalità, non è solo una prova attorale che pochi attori potrebbero contrastarle.
E' anche un fatto culturale: è la risposta al bisogno della nostra società (che è sì dell'immagine, ma anche dell'immagine svelata senza pudore, nelle più atroci implicazioni) di vedere la morte per quello che è!
E provarne un brivido che non ha più nulla di romantico, di sentimentale: perché, per il mondo di oggi, non c'è nulla di romantico nell'agonia spirituale e fisica di una donna troppo forte e troppo fragile per affrontare il mondo.
Salutoni e grazie ancora al Bagnolo.
Matteo