Riccardo ha scritto:Sarei curioso anch'io di sapere la sua idea!
Se proprio insistete ne possiamo parlare, ma premetto che non mi sarà facile spiegarmi. Hai presente quando una cosa la avverti chiaramente, ma se cerchi di esprimerla ti pare che le parole siano del tutto insufficienti?
E' il problema di Moses und Aron!
Parto dalla constatazione che ho visto Rosenkavalier tante volte dal vivo, da quel primo 1986 al festival di Aix-en-Provence.
E mai mi è piaciuto.
Non che non mi piacesse l'opera: fin dall'adolescenza mi nutrivo dell'edizione di Karajan I (quei poveri LP distrutti), o Solti, o persino Bernstein (anche se mi piaceva un po' meno).
Quando mi procurai il video con la Schwarzkopf (che ebbi di straforo in Francia, su un vhs copiato, molti e molti anni prima che circolasse ufficialmente) mi parve di toccare il cielo con un dito.
Perché allora a teatro non mi piaceva mai?
Perché lo giudicavo falso e artefatto.
Trovavo le Marescialle sempre inadeguate (e dire che vidi in scena la Lott e la Tomowa Sintow); gli Oktavian sempre manierati, i direttori sempre retorici e sentimentali, i registi sempre fuori posto.
Forse ero stato sfortunato; oppure - questa era la tesi che cominciava a insinuarsi - la nostra epoca non è adatta per il Rosenkavalier.
L'ultimo Rosenkavalier che ho visto doveva essere la prova del nove.
Fu a Salisburgo, tre anni fa. Il regista era Robert Carsen, ossia l'uomo più calato nel nostro tempo che io conoscessi fra i registi.
Se non fosse stato in grado lui di superare la tradizione e di inventarsi un mondo nuovo per quest'opera allora nessun altro avrebbe potuto.
Fu una delle più grandi schifezze che abbia mai visto. Il peggior spettacolo di Carsen che ricordi (e veniva dopo un esaltante Capriccio a Parigi).
Io credo che ogni interpretazione (come forse ogni forma d'arte) respiri il proprio tempo.
Non è solo questione di grandi teorie o di "costumi", ma di uno "spirito", qualcosa nell'aria che non solo il pubblico, ma anche i cantanti, i registi, i direttori respirano. Senza tante meditazioni o intellettualismi.
Lo respirano naturalmente, ne fanno parte.
E anche le opere.
Perché le opere siano "vitali" in epoche diverse bisogna che vi siano fili rossi (tutti da scoprire: è questo il compito degli interpreti) fra lo spirito della "loro" epoca, e quello dell'epoca in cui le opere furono scritte.
Se oggi il Don Giovanni si fa meglio che negli anni '30 o '40 è perché la nostra epoca ha trovato punti di contatto col tempo del Don Giovanni.
Se oggi Rossini, Monteverdi o Janacek si fanno meglio di quanto si facessero negli anni '50 è per la stessa ragione.
In compenso noi oggi facciamo male alcune cose che cinquant'anni fa si facevano meglio. Tra cui, secondo me, il Rosenkavalier.
La bellezza delle Marescialle di Elizabeth Schwarzkopf e Lisa della Casa non sta solo nel fatto che erano brave: anche la Lott lo è! anche la Stemme.
Eppure in quelle antiche Marescialle degli anni 50-60 c'era qualcosa di più: un loro respirare in sintonia col mondo in cui vivevano e che evidentemente aveva trovato un legame col mondo in cui il Rosenkavalier è nato.
Se dovessi dare una definizione del Cavaliere della Rosa lo chiamerei l'opera del muro: un muro che non si vede, ma c'è.
Ed è vicinissimo. E' talmente vicino che potresti toccarlo, ma non lo tocchi perché ne hai paura.
La Marescialla è bellissima, ma sente il muro del declino, dell'età, della fine della sua stagione d'oro.
Tutta l'Austria di Maria Teresa vede il muro. Vienna è splendida, scintillante, gaudente, eppure questi parvenus (questi Faninal) sono lì a dimostrare che alle porte ruggisce qualcosa di terribile e spaventoso: la rivoluzione francese, la fine di un millennio di storia e cultura europea che sta per chiudersi.
Il muro lo doveva avvertire benissimo anche Hofmannsthal, il muro di una guerra planetaria che stava per deflagare sulle contraddizioni di un'età fragorosa e splendente, mirabilmente progressiva, come fu la Belle Epoque. Anche lì c'era la fine di un mondo: un presagio terrorizzante e contraddetto, travestito di ...sublime nostalgia.
Anche negli ultimi anni 50 e nei primi anni 60 ci si preparava a una fine: il muro era visibile nella forzata "epica" di quegli anni, nella retorica dei buoni sentimenti, nello splendore rassicurante di una società gioiosa della propria opulenza.
L'occidente pacificato, risorto dalla seconda guerra, si era dotato di un'etica e un'estetica che parevano solidissime, sorrette dalla rinascita economica e dall'onestà dei valori, ma che stavano per scontrarsi con una generazione impietosa nell'evidenziarne le effettive incongruenze e rabbiosa nella smania di incenerire tutto, anche ciò che di veramente buono si era costituito. Tragedie planetarie stavano per manifestarsi, la "negazione" generazionale stava per deflagrare.
E' di questo profumo di instabile splendore e presagio di rovina che si sono alimentati gli ultimi grandi Cavalieri della Rosa.
Oggi? A parte i facili millenarismi di nostalgici e ambientalisti, a parte le comprensibili paure che il cambiamento induce in tutti noi, siamo davvero sicuri che il nostro tempo avverta il presagio del muro?
Io credo di no: la nostra società è come quella del "positivismo" tardo ottocentesco o, meglio, della piena stagione illuminista.
E' una società che guarda avanti, si nutre del progresso, si avventa nel futuro. Le convenzioni, le etichette, le confortevoli regole a cui si aggrappano le epoche "prossime al muro" (e che tanta parte hanno nel Rosenkavalier) non ci condizionano: amiamo il sovvertimento e la dissacrazione (il mio avatar è un personaggio di South Park), la fusione dei generi, la mescolanza dei linguaggi, il superamento di convenzioni e tabù.
Questo ci rende tanto vicini al Barocco e tanto lontani da decadentismi e inquietudini da Belle Epoque.
Carsen, che non è affatto un intellettuale, è però sicuramente il regista che ha proiettato il nostro tempo fra le convenzioni della messinscena operistica, mutuandole dal musical, dalla tv, dal cinema, dal pc, dall'intrattenimento moderno.
Ma è anche un uomo intelligente: ha letto il Rosenkavalier e vi ha trovato il muro.
Alla fine dell'opera, sulla musica dolcissima, ha fatto salire il "muro" del fondale dietro al quale si stagliava l'esercito austriaco della grande guerra, nero e spaventoso, con in testa il famoso Feldmaresciallo che nell'opera non si vede mai.
Così facendo ha mostrato di sapere - in teoria - qual'è il problema.
Il Rosenkavalier è l'opera del muro.
Ma non per questo il suo Ronsenkavalier è stato bello!
Sapere che dietro a quest'opera c'è il "muro" non basta!
Questo chiunque può dirlo.
Bisogna, in quanto artista, farlo vedere questo muro.
E non solo con una facile visualizzazione al finale, ma anche nei sorrisi della Marescialla, nelle trine della sua camera da letto, o nel sentimento sciocco e adolescente di Oktavian.
Carsen non c'è riuscito: e io credo che nessuno oggi possa riuscirci, perché per noi oggi il muro non c'è. A Lotte Lehmann e alla Schwarzkopf invece veniva naturale. Perché vivevano nelle epoche giuste.
La nostra è l'epoca del Così fan tutte, dei Racconti di Hofmann, dell'Incoronazione di Poppea, della Donna del Lago, non del Cavaliere della Rosa: possiamo esprimere il malessere del cambiamento - se vogliamo - ma non il rimpianto struggente per la fine (o meglio il presagio della fine) di ciò che siamo e non vorremmo perdere.
Bah... sapevo che non sarei riuscito a spiegarmi.
Salutoni,
Matteo