Maugham ha scritto: Allora, giochiamo al direttore artistico.
Be' Willy,
io veramente non proponevo di "giocare al direttore artistico" (semmai al direttore di casting).
Proponevo solo di identificare delle continuità fra lo stile espressivo di un regista in rapporto alle peculiarità tecniche e linguistiche di un'opera.
Cosa che oggi non fa quasi nessuno.
Forse perchè la figura del regista d'opera (pur non essendo freschissima) è ancora poco ragionata.
Nemmeno i direttori artistici (intanto) si occupano di "categorizzare" i registi e di impiegarli in repertori opportuni, non lo fanno i direttori di casting, non lo fa il pubblico e nemmeno gli stessi registi, che accettano a caso le scritture (vedi Carsen che accetta di fare Wagner, solo perché fa fino, senza riuscire a dominarlo adeguatamente).
A differenza di direttori e cantanti (oggi persino le orchestre) che vengono inquadrati sulla base delle loro esperienze tecniche e stilistiche e quindi orientati su un certo repertorio, il regista viene chiamato puramente a caso.
Devi fare Traviata? Vuoi un regista di grido? Chi è un regista di grido? Carsen? Bene: gli faremo fare la Traviata.
Se ragionassimo così con i cantanti, per Violetta potremmo chiamare la Bartoli.
Ora la situazione delle scritture registiche è questa, ma fra qualche anno non lo sarà più.
Vi saranno "barriere" (o per lo meno "ambiti") di repertorio anche per i registi.
La domanda che intendevo porvi, col mio giochino, era: secondo voi, in cosa consisteranno queste barriere?
Quali elementi tecnici indicheranno in un regista (o nella sua scuola) l'interprete giusto di un certo repertorio, proprio come si fa con i cantanti?
La mia idea, lo ribadisco, era di ragionare insieme su quali saranno, nell'immediato futuro, le categorizzazioni in base alle quali si identificheranno costanti tecniche e drammaturgiche fra i registi, si formalizzeranno le prime "scuole" e si introdurranno le prime direttrici fra queste costanti e uno specifico repertorio.
Quindi non ci tenevo affatto a giocare al "direttore artistico", semmai al "profeta".
Come sai (poiché ci conosciamo da anni) nulla mi piace di più che fare ipotesi e vederle poi confermate puntualmente una decina di anni dopo!
E non per virtù magica, ma solo perché la storia (in generale) è molto generosa nell'indicarci le vie che prenderà: essa spande indizi e illumina lampadine rosse; il divertente - sempre che ci si voglia giocare - è interpretare gli indizi e intuire gli sviluppi
...e naturalmente rinfacciarlo a chi (vent'anni dopo) si reca in pellegrinaggio alla Scala per applaudire la Jenufa della Silja, dicendogli: "tu dov'eri quando vent'anni fa io andavo a Bruxelles per assistere al suo debutto in questo ruolo? E, dieci anni fa, cosa dicevi della Silja "declamatoria"?
Scherzi a parte, evidentemente mi ero espesso male, parlando di "giochino".
Ora spero di aver chiarito quale voleva essere il fine di questo dibattito.
io non sono un esperto di regie d'opera nè tantomeno super.
Lo sei..lo sei!
ho visto abbastanza materiale per poter stilare un discorso complessivo sulla regia d'opera (tra l'altro non è molto dissimile alla prosa)
In che senso non molto dissimile dalla prosa?
A me pare molto dissimile, invece.
tanto per citare il tanto da te odiato Kusej (vedremo assieme l'Elektra, non ti salverai!
), con il Flauto di Zurigo festeggiava il suo sessantesimo allestimento d'opera. Io ne ho visti solo quattro...
, che dire è sufficiente?
Sì, lo è.
Almeno secondo me.
Un'opera (che sia ben realizzata o un buco nell'acqua) ti dà tantissime informazioni sulla tecnica, sullo stile, sul mondo interiore di un regista. Come te le dà su un cantante o su un direttore.
Ti basta sentire un soprano nella Traviata (ad esempio) per capire benissimo verso quali direzioni il suo repertorio può estendersi.
Quello che ci manca, con i registi (e che invece abbiamo con i cantanti) è la "categorizzazione" di queste caratteristiche.
Ed è quello che io, in questo caso, invito a ricercare.
Per un hobbysta dell'opera, penso di sì. Ma per un direttore artistico -qui giochiamo a questo- che mai deve lasciarsi condizionare dai propri gusti personali, è davvero poco per poter valutare un rapporto così complesso come regia/opera.
Non si sta parlando di gusti. Si sta parlando di costanti e affinità, principalmente tecniche (e quindi oggettive).
E' un dato di fatto che una Sills ha più le carte in regola per cantare Bellini di una Gwyneth Jones.
Così come mi pare ovvio che un Caurier ne ha di più di Pountney, sempre se parliamo di Bellini.
b)
Userei il mio potere per entrare in contatto con i registi a prescindere dalla scrittura, cercherei di parlare a lungo con loro, di lanciare provocazioni, di sentire se hanno desideri nl cassetto...
Ahi, ahi! Sicuro che faresti questo?
Sai perché prima ho citato la Jones in Bellini?
Perché il suo sogno (ripetuto in tutte le interviste) era proprio di cantare Norma, ritenendosi (evidentemente) perfettamente in regola rispetto alle problematiche tecniche dell'opera.
Per nostra somma sciagura, c'è stato un direttore artistico che - pur di averla - le ha chiesto proprio "se aveva sogni nel cassetto".
Il risultato, documentato da un live, te lo lascio immaginare.
A me pare che l'artista non sia tenuto a conoscere i propri limiti o a conoscere il repertorio.
L'ignoranza è, da sempre, la peggiore consigliera di ogni artista (non parliamo degli agenti!).
E' proprio chi scrittura che dovrebbe avere lo sguardo sereno che il cantante (come il regista) non ha su di sè.
Inoltre valuterei il mio pubblico (ricettivo oppure solo in cerca di conferme, di media età oppure di età avanzata, colto o popolare), il repertorio dell'istituzione che dirigo (è inutile che osi con Guth quando a malapena mi digeriscono Ronconi), il sociale della città in cui lavoro se industriale, agricola, grande, piccola, se ha un'universita, se è turistica. Poi farei cassa. Lo dico sempre, un direttore artistico di un teatro a volte è come un cuoco; deve anche saper far cucina con quello che ha in dispensa.
Questo è assolutamente vero!
Però l'opera non è più, da tanto tempo, un prodotto da limitate circuitazione, come può essere un'altra forma di spettacolo teatrale.
L'opera non trova il suo pubblico nella cittadina in cui è eseguita.
E' evidente che se uno pensa di allestire una "Proserpine" con Greenway, non lo fa in funzione del tessuto sociale della propria cittadina: dovrà pensare al contrario all'affluenza anche a larghissimo raggio che un simile evento provocherebbe, all'esportazione della produzione, al mercato globalizzato del video e delle televisioni satellitari.
Oggi nascono festival prestigiosissimi anche in cittadine sperdute e fuori da ogni tradizione (pensa a Baden Baden, Innsbruck, Beaune, Treviri e ora - pare - Cortona): non è importante dove uno spettacolo è allestito, perché la gente accorrerà comunque (se il livello è alto) e il prodotto sarà poi venduto a livello mondiale.
Se Dussurget (il geniale inventore e mitico direttore artistico di Aix-en-Provence per vent'anni) si fosse dovuto preoccupare, negli anni 40, del tessuto sociale delle cittadina provenzale e della totale inesperienza di opera in quel sito (il suo sponsor principale era il Casinò del posto) non avrebbe mai fatto la rivoluzione mozartiana che ha fatto!
Lui invece sapeva che sarebbero corsi da Parigi e dall'estero per vedere i suoi Mozart; sapeva che avrebbero fatto dischi diffusi nel mondo e produzioni in grado di essere ripetute anche per quindici anni.
Allora:
Beatrice.
(cut)
Se invece ho un interprete fuori dal coro e dirige Harnoncourt, mi butto, prenderei Poutney. Sperando che tiri fuori tutto quello che di agghiacciante c'è in quest'opera. Oppure, andando nell'empireo e indebitandomi fino al 2020 Willy Decker. Anche se poi non c'è molto nella Beatrice di ragion-di-stato e ragioni-del-cuore da solleticarlo. Guarda, prenderei Villegier, ma lo metterei in accoppiata con Christie. Pensa che strano Bellini!
Fermo restando che Harnoncourt (purtroppo) non dirigerà mai il belcanto (perché, da vecchio direttore fintamente moderno, dice di odiarlo), Pountney temo che slitterebbe sui delicati equilibri della drammaturgia belcantistca.
Per far emergere "quanto di agghiacciante" c'è in quest'opera, non bastano le intenzioni, ma anche il saper dominare figurativamente la prigione della forma chiusa, della musica concertante, della dialettica recitativo-aria.
L'esperienza che ho di Pountney (fermo restando che il suo Macbeth è stato molto interessante) me lo dimostra piuttosto fragile in questo, come tutti i registi che approdano all'opera dalla prosa.
Macbeth presenta, grazie a Piave, una drammaturgia talmente fragorosa e sferzante che si può anche trascurare il problema della forma chiusa. Ma Beatrice no...
Stesso limite io ravviso in Decker, che ho apprezzato in molte produzioni (poche delle quali ho considerate di genio, sinceramente); per grande e abile che sia, per lui il pezzo chiuso significa semplicemente piazzare il cantante lì, e lasciarlo cantare (magari con qualche espressioncina convincente).
Ma muovere le immagine sulle strutture della musica, no... Nemmeno nella Traviata (che come Macbeth si avvantaggia del linguaggio già molto moderno di Piave).
Villegier ha già più esperienza in questo senso, perché ha praticato il barocco, ma anche lui spesso cedendo di fronte alle dificcoltà del pezzo chiuso. Finito il recitativo, è come se la luce si spegnesse.
A costo di dar ragione a certi "reazionari"
, devo dire che il belcanto è tecnicamente molto più difficile per un regista di un'opera post-wagneriana, perchè in esso la musica non si può trattare da "colonna sonora" ma occorre interagire alle sue regole, alla sua manipolazione del tempo narrativo, alla mancanza di peso strutturante della parola.
Sai chi, pur puntando al lato "agghiacciante", saprebbe dominare egregiamente la forma musicale antica e farsene vero interprete?
Sellars.
Lui sì che non avrebbe alcun problema a lanciarsi nella drammaturgia di Romani e nelle prigioni strutturali dell'aria.
Sarebbe interessante chiamarlo per Beatrice di Tenda.
Personalmente non lo farei, perché ho in uggia il culto "della provocazione".
Il pubblico va persuaso, non provocato.
Oberon. Dal momento che lo vorrei diretto da Gardiner o da Pappano con la Stemme e Kaufmann (altrimenti non lo faccio)
La Stemme?? In Rezia...
Secondo me finirebbe per darci il solito imbroglio della cantante "wagneriana" in un ruolo di Weber.
Rezia reclama esperienze vocalistiche e post-mozartiane che la Stemme, già in crisi con Aida, difficilmente potrebbe mettere in campo.
Invece su Kaufmann assolutamente d'accordo!!!!
A Pappano, preferirei Gardiner (anzi, sogno per sogno, preferirei Rattle con l'orchestra dell'Illuminismo).
vorrei Carsen. E se Carsen non può allora ripiegherei su Montalvo. Tutt'altra cosa, ovviamente, tutta tecnica multimediale e velatini, ma penso che possa muoversi in questo campo con accortezza e fantasia.
Ci avevo pensato anche io a Carsen.
Ma poi l'avevo escluso.
Per gestire il "finto-fiabesco" (evitando di risultare ridicoli) ci vuole tanta, tanta cultura; Carsen è un intuitivo, persino un po' infantile (un bambino di genio?).
E' più adatto al "vero-fiabesco" di Rusalka, secondo me. A lui farei fare, semmai, una Lakmé con la Dessay!
Non un'opera in cui la magia deve essere filtrata da un velo di intellettualismo pre-romantico.
Montalvo potrebbe essere, ma - proprio come Beatrice - anche Oberon è opera dalle strutture musicali incombenti.
Un po' più di esperienza in questo senso non mi dispiacerebbe.
Diavoli. Come ti ho detto la conosco poco. Lascerei stare Chereau perchè non ne potrei più di cappottoni, di muraglioni e di una batteria di luci degna dei Pink Floyd per fare quaranta tipi diversi di buio.
Già..hai ragione.
ehehehehe....
Ma io non penso proprio che Chéreau farebbe i Diavoli come ha fatto quel Tristano a Milano.
Hai visto "la reine Margot" al cinema?
Anche quello era Chéreau, ma non c'erano affatto "cappottoni" e "muraglioni".
Anzi c'era un culto morboso di ricostruzione storica, sia pure tra i fumi di una Parigi inondata di sangue, lussuria e ignominia.
Non c'erano cappottoni e muraglioni neppure nel Don Giovanni di Salisburgo, anzi effetti "fantascientifici" di impatto sorprendente (la testa gigantesca del Commendatore, che irrompeva sul palcoscenico spaccando tutto, vetrate, mobili...)
Non dobbiamo lasciarci condizionare da quel Tristano scaligero, nel giudicare Chéreau: quello fin sulla carta, doveva essere un omaggio al Ring del 76. E lo è stato.
Un "come eravamo" e poco più..
Vorrei invece uno nuovo, che trattasse quest'opera come scritta ieri mattina. Pensa, io ci metterei l'irriverente, coloratissimo, tecnico perfetto Pelly.
Coloratissimo? :O
Un'opera che parla di complotti al buio di un convento? Di esorcismi, trame politiche, suore deformi e lussuriose, emissari di Richelieu, preti ribelli, torture e roghi?
Pelly?
Be' sarebbe un colpo di scena mica da ridere... ma pure il rischio!
Quanto a Dresen e Wernicke (pace all'anima sua) ne avrebbero fatto un monumento di seriosità intellettualizzante anni '70, rendendolo ancor più noioso di quel che è, come il film di Ken Russel (che a me pare inguardabile e morboso).
Piuttosto preferirei Zeffirelli!
Sarebbe certo più eccitante qui, che in Aida.
Chissà... se, a contatto con drammoni storici morbosi e dodecafonici, tutto il colore da cartolina di Zeffirelli non risulterebbe opportunamente "sgrassante"?
che ne dici?
Grazie delle considerazioni e salutoni.
Mat