Caro Tucidide,
quello che dici è interessantissimo su talmente tanti fronti che non so da dove partire!
Premetto che anche io ho sempre considerato Ramey uno dei cantanti maggiori del nostro tempo.
Tuttavia ho sempre (trovato) magnifica, davvero, la voce di Samuel Ramey.
Come si sa, non si trattava di un cantante tonitruante: la voce, pur essendo timbratissima e squillante (davvero tanto, trattandosi di un basso), non possedeva il volume di certi mostri sacri del passato, né pareva possedere l'autorevolezza di cavata.
Hai ragione: la voce di Ramey era "magnifica" come tu affermi, senza se e senza ma...
Però hai ugualmente ragione quando riconosci che non era ultra-rotonda e pastosissima; e tuttavia mi sono sempre sorpreso quando sentivo dire che non era una voce stupenda.
Ma come no? Certo che lo era!
Ce ne fossero di voci come quella di Ramey! Di timbri così privilegiati.
In effetti, credo che, ponendo il problema della "bella voce" di Ramey, tu abbia messo il dito su una delle piaghe del cellettismo.
E, se mi permetti un piccolo off-topic, vorrei chiarire cosa intendo.
Partiamo dall'origine, e all'origine c'era Marylin Horne.
Evocando l'età dell'oro della vocalità (che naturalmente esiste solo nella testa di chi la evoca) e descrivendone le imprescindibili caratteristiche tecniche, Rodolfo Celletti aveva sempre avuto come modello la tecnica dei cantanti italiani che piacevano a lui (la generazione degli Schipa, dei Pertile, dei Lauri Volpi, dei Gigli), pretendendo che essa corrispondesse a quella dei cantanti belcantistici e financo barocchi.
L'omogeneità dei suoni, l'assoluto raccoglimento, la piena copertura, la cascata di armonici, la "dinamica sfumata"... e tutti gli altri miti della religione cellettiana.
Poi però è saltata fuori la Horne, e il sogno cellettiano ha rischiato di sbriciolarsi.
Da un lato, la Horne (piaccia o non piaccia, come a me) eseguiva il repertorio belcantistico con un vigore, una proprietà, una adesione che nessuna fino ad allora aveva avuto.
E questo Celletti non poteva non riconoscerlo: anzi, la Horne è diventata il totem del suo pensiero.
D'altra parte, in quanto americana e tecnicamente "sincretista" (non è un caso che all'inizio cantasse anche Minnie e Marie del Wozzeck), la Horne non disdegnava di ricorrere ad aperture del suono, registro di petto "sparato", colorismi degni di una straussiana, acuti aspri e fibrosi, effetti "growl" da musica Jazz, tutti elementi che divennero parte integrante del suo stile belcantista.
Chiunque capisce, se ci ragione onestamente, che - in teoria - Celletti non aveva mai ammesso suoni simili nella sua "grammatica del perfetto vocalista" e che essi non derivavamo per niente (ma proprio per niente) dalla tradizione "aurea" del canto "italiano", semmai dal contatto che gli americani ebbero sempre con i declamatori wagneriani e con i cantanti pop.
Sul fronte del suono, la vocalità della Horne permetteva una carnalità insolente e una vastissima tavolozza coloristica (precluse a cantanti del modello "cellettiano") ma contemporaneamente esponeva il timbro a disomogeneità, durezze e asperità, le stesse che Celletti rimproverava ai tanto odiati declamatori.
Sentire nei loro duetti la Horne e la Sutherland è rivelatore.
L'australiana canta esattamente come vorrebbe Celletti (e infatti il suo suono ha certe caratteristiche), la Horne no: e infatti la sua voce è assai più carnale, ruvida, sensuale.
Con l'avvento della Horne, il povero Celletti si ritrovò nel bel mezzo di un corto circuito.
Da un lato doveva esaltare in lei l'emblema stesso del progetto neo-belcantista, dall'altro doveva giustificare in qualche modo il fatto che i suoni della Horne non corrispondessero affatto a quelli che lui contrabbandava per "regole auree" e anzi avessero molte delle caratteristiche di quei cantanti che lui invariabilmente demoliva (non tondi, non vellutati, non omogenei).
E allora si inventò la scappatoia puerile della "brutta voce".
ehehehe...
"Eh, sì... la Horne è stata la più grande belcantista, nonostante una voce - ahimé - sfortunata timbricamente".
Il suono della Horne è aspro? E' povero di armonici? E' poco vellutato, poco morbido, poco tondo?
Eh... ha un così brutto timbro, poveretta!
Come sempre, sono le scappatoie più puerili ad aver maggior successo.
E così non venne mai in testa a nessuno di riconoscere che se la Horne produceva quei suoni era perché aveva scelto un certo tipo di emissione (assai poco italiana); e se aveva scelto quel tipo di emissione era perché il suono omogeneo e vellutato non le interessava: e che per lei l'intensità sensuale di un suono semi-aperto o di un colore valorizzato contava di più di ogni rotondità (proprio come per Vickers o per la Resnik sui conterranei).
Poi sono saltati fuori i figli della Horne: anzitutto Ramey, poi Blake e Merritt, la Anderson, poi tutti gli altri.
E con il problema si ripropose tale e quale.
L'emissione scelta da tutti loro non prevedeva affatto l'oscuramento "cellettiano", l'arrotondamento estremistico, la copertura assoluta di una Sutherland (che giustamente restava il modello di riferimento del cellettismo).
E infatti i suoni di tutta questa scuola erano graffianti, sensuali, moderni, coloratissimi, ma anche poveri di armonici, poveri di rotondità, poveri di velluto.
La scappatoia, una volta utilizzata per la Horne, dovette poi essere applicata a tutti i suoi figli.
Merritt? Eh... grande vocalista! Peccato per il brutto timbro...
Blake? Eh... anche lui! Stupendo rossiniano! Peccato per il brutto timbro...
La Anderson? Grande vocalista lei pure! Peccato per quel timbro aspro...
Ramey? Grandissimo! Il vero basso virtuoso...
Peccato per quella voce povera di armonici e di cavata!
E' arrivato il momento di smentire Celletti (proprio come hai fatto tu).
La voce di Ramey era meravigliosamente bella! Un timbro assolutamente privilegiato.
Se non era ridondante di armonici era solo per un motivo: perché TECNICAMENTE non gli interessava coltivare quel tipo di emissione che dà ai bassi il suono "antico" e uniforme di un Nazzareno de Angelis o di un Ezio Pinza prima maniera.
A Ramey - come a tutta la scuola dei belcantisti americani, uscita dalla Horne - interessava precisamente un suono striato di sensualità, aperto ai centri, chiarissimo nella dizione, vario nei colori, leggero (come tu dicevi) nelle intenzioni e giovane, rampante, moderno, a costo di perdere qualcosa in potenza, pastosità, velluto.
Era una questione di scelta tecnica, caro il mio Celletti, e non di "voce sfortunata".
Proprio come Blake, Merritt, la Horne.
Ritengo che a fare di Sam Ramey un grande interprete (ma attenzione, solo di alcuni ruoli), concorrano in maniera decisiva due fattori. La leggerezza (relativa, si intende) della voce, e la sfrontata sicurezza dell'emissione. Tutto ciò lo rende a mio avviso irresistibile in certi ruoli, quelli da condottiero sicuro di sé, oppure da cattivo tenebroso, oppure da personaggio "sburone".
Secondo me hai descritto perfettamente le caratteristiche interpretative di Ramey.
E i giudizi sui suoi personaggi sono assolutamente condivisibili.
Ma non riesco a vedere, in queste caratteristiche, la conseguenza di disposizione tecnica o vocale, quanto una caratteristica dell'uomo e delle origini americane, il suo essere gioiosamente "yankee".
Anzi, vedendo la cosa in una prospettiva opposta alla tua, ritengo che quel tipo di suono "leggero e svettante" (che tu consideri la causa) fosse piuttosto la conseguenza di quella natura e di quella scuola, che - per esprimersi - ha bisogno di certi suoni.
Ramey ha sempre coltivato il suo machismo, una fisicità gioiosa da rodeo, una semplicità psicologica, da bambino, che vede tutto semplice e solare, fuori delle macchinazioni e delle nevrosi della nostra vecchia Europa.
Ecco perché il suo Attila, al di là dell'aspetto vocale, è stato così grandioso anche a livello umano; così come il suo Maometto II e il suo Mustafà.
Perché erano tutti uomini che venivano da lontano, da mondi dove tutto è più semplice, istintivo, luminoso e giovane, dove l'uomo deve solo essere forte e onesto, senza lambiccarsi in sotterfugi e dietrologie politiche, senza portarsi sulle spalle il fardello di una civiltà vecchia, sfinita, intorbidita.
Tutte le volte che sento e vedo l'Attila di Ramey o il suo Maometto II, la loro purezza infantile, la loro morale fortissima e ingenua, la loro incapacità di comprendere le macchinazioni e le piccolezze "europee" di chi li circonda, io penso a quanto sia vicino a tutto questo l'Americano di James.
Se qualcuno mi chiedesse di descrivere in una sola immagine Ramey, a costo di stupirti, non tirerei in ballo la questione del vocalismo virtuoso, ecc...; piuttosto direi proprio che è stato il cantante che più di tutti ha saputo incarnare lo scontro di due civilità: da una parte una giovane, sana e ingenua, dall'altra una vecchia, colta e corrotta.
Poi è chiaro che tutto questo viene a mancare quando il nostro Sam va a cimentarsi con personaggi che a loro volta sono intaccati dal tarlo del declino e dalla paura della morte (che grandi errori Filippo II e Boris!).
Erano ruoli posti all'altra riva dello scontro: esponenti di una civiltà vecchia e intaccata, che lui nemmeno come uomo - figuriamoci come artista - poteva capire!
Meglio allora come Pimen (anche se insolitamente giovane). Meglio sarebbe stato come Principe Igor o come Kovantchi.
Meglio se avesse osato Boccanegra, piuttosto che Fiesco.
Io ho visto Ramey dal vivo tante volte: Attila, Mustafà, ecc...
Persino in una Messa da Requiem a Venezia dove si presentò con un vestito assurdo, e uno strichetto da festa a Las Vegas.
Ma il ricordo più bello me lo ha lasciato come Nick Shadow del Rake's Progress a Aix en Provence.
Aveva il codino, il disincanto superficiale, la leggerezza ironica e l'agilità palestrata di uno yuppie anni '80. E fu geniale.
Salutoni
Matteo