DRESDA, 2010Salve a tutti,
riappaio nel forum dopo qualche settimana di silenzio e per prima cosa... rispondo a me stesso.
Ovvero recupero un vecchio thread nel quale avevo sostenuto l'ineseguibilità odierna del Rosenkavalier, o per lo meno il timore che le interpreti di oggi fossero condannate a soccombere al confronto con quelle passate (la Lehmnann, la Schwarzkopf), non perché queste ultime fossero insuperabili, ma perchè i nostri tempi non consentirebbero (era questa la tesi) una vera adesione alle problematiche insite al Rosenakavalier e ben comprensibli in altre fasi storiche.
Più precisamente affermavo:
MatMarazzi ha scritto:
Io credo che ogni interpretazione (come forse ogni forma d'arte) respiri il proprio tempo.
Non è solo questione di grandi teorie o di "costumi", ma di uno "spirito", qualcosa nell'aria che non solo il pubblico, ma anche i cantanti, i registi, i direttori respirano. Senza tante meditazioni o intellettualismi.
Lo respirano naturalmente, ne fanno parte.
E anche le opere.
Perché le opere siano vitali in epoche diverse bisogna che esistano fili rossi (tutti da scoprire: è questo il compito degli interpreti) fra lo spirito dell'epoca in cui sono interpretate e quello dell'epoca in cui furono scritte.
Se il Don Giovanni si fa meglio oggi che negli anni '30 o '40 è perché oggi abbiamo scovato più "fili rossi" col Don Giovanni che negli anni '30 e '40.
Se oggi Rossini e Monteverdi o Janacek si fanno meglio di quanto si facessero negli anni '50 o '60 è per la stessa ragione.
In compenso a noi vengono male alcune opere che cinquant'anni fa si facevano benissimo.
Perché la nostra epoca non riesce più a trovare i "fili rossi".
Tra queste, secondo me, il Rosenkavalier.
Lo splendore di Elizabeth Schwarzkopf e Lisa della Casa non sta solo nel fatto che erano brave: è che il loro mondo (quello degli anni '50) aveva qualcosa in comune col mondo che cinquant'anni prima aveva dato vita al Rosenkavalier.
E poichè la nostra civiltà non "cerca le nevi dell'anno passato" ma si avventa sul futuro, non vive di ricordi gloriosi (cristallizzati in morali ed etichette) ma si rigenera negandosi continuamente, mi ero spinto a dire che sarebbe meglio lasciar perdere il Rosenkavalier, che tanto siamo condannati a farlo male, a replicare tradizioni e maniere che non sentiamo...
....Tutto questo prima di sentire e vedere Angela Denoke nelle vesti della Marescialla.
Sono stato smentito come più non si potrebbe.
Ma in fondo non mi dispiace!
Non c'è fortuna più grande (per il pubblico) che quella di essere smentito da un'artista.
Se l'artista dovesse solo "confermare" le nostre tesi (come fanno i "miti" dei loggionisti nostrani) il suo non sarebbe un contributo così rilevante.
Grazie al Cielo, invece, ci sono gli interpreti di genio, quelli che fanno la storia, quelli che passano la loro vita a ...smentirci, e a strapparci con violenza alle sintesi semplicistiche che noi (che artisti non siamo) siamo condannati a elaborare.
Così ha fatto con me Angela Denoke, la cui Marescialla ho appena ammirato all'Opera di Dresda, nel meraviglioso tempio di Semper (devastato nella seconda guerra mondiale e da poco risorto) in cui il Rosenkavalier è nato.
Con lei l'opera risfodera - OGGI! - una verità forza 9 che spazza via i ricordi più sublimi (anche la Schwarzkopf) e respira l'aria del nostro presente.
Lo spettacolo non era speciale. La direzione era un filino chiassosa, mentre la regia di Laufenberg (ingenua e tipicamente tedesca) non mancava di una certa canagliesca efficacia.
L'idea di ambientare in piena Anschluss la vicenda (i soliti nazisti, direte....) non disturbava per nulla, perché apriva spaccati interessanti, ad esempio, nel rapporto fra Faninal e Ochs (non più il Borghese che cerca l'alleanza col Nobile, ma il Viennese che cerca quella col Tedesco).
Peccato che il Bavarese Ochs (un Rydl ancora efficace e sonorosissimo nei do gravi) e la sua banda di sbevazzoni da OktoberFest vestiti alla tirolese risultassero troppo caricaturali, così come l'ingenuità dei Faninal, un po' da cartone animato.
Chi si è notevolemente avvantaggiata della ricontestualizzazione è stata però la figura della Marescialla, e soprattutto il personaggio "ombra" che le sta dietro: il Maresciallo.
In un simile contesto, chi è il Maresciallo?
Chi è quest'uomo potentissimo, la cui autorità terribile fa tremare al solo passaggio della sua "compagna", tanto che la Polizia all'ultimo atto (ovviamente ufficiali delle SS) si ritirano in buon ordine al suo solo apparire?
Be' il pensiero corre.... dove deve correre!
In un simile contesto, la Marescialla è una Eva Braun, la compagna di qualcuno che nessuno vede ma che si ha persino paura a nominare.
Resta da chiedersi come avrebbe funzionato una simile soluzione con un'altra interprete, ad esempio la Tilling, l'altra Marescialla della produzione: sul sito della Semperoper c'è un video di presentazione con la Tilling appunto... che - sul ricordo di cosa ha combinato la Denoke - fa un po' cascare le braccia.
Se con la Denoke questo ripensamento del personaggio risulta sconvolgente è perché LEI è di per sè sconvolgente, a mio parere la più grande Marescialla che si sia vista o sentita dopo la Schwarzkopf (con buona pace della Crespin e della Lear).
Appena appare in scena - tra l'altro vestita da uomo, proprio come Oktavian (i due o le due si spoglieranno a vicenda con un'incredibile effetto omo-lesbo di impagabile efficacia) - la Denoke si impossessa dello spazio come solo una grandissimo può fare; sembra una Marlène Dietrich, sensuale e provocante da impazzire, maestosa come una leonessa nella savana, elegantissima e a tratti persino androgina, ma con una carica di femminilità, tenerezza e vulnerabilità che pare impossibile in un simile personaggio.
Anche per la divina Schwarzkopf è venuto il turno di essere superata.
Con questo non voglio affermare che la Denoke sia più brava di lei, ma semplicemente che il suo intimidatorio modello (che ha imprigionato persino una grandissima come la Lott) è stato superato da un nuovo "atto di genio".
Per meglio descrivere la Marie Therese della Denoke, proverei a confrontarla alle altre grandi marescialle di oggi (la Stemme e la Fleming).
Premetto che la Denoke è incommensurabilmente superiore all'una e all'altra (che pure non sono affatto male).
La sua supremazia è dovuta non solo a questioni di personalità e taglio interpretativo (che pure ci sono) ma soprattutto a questioni tecnico-vocali.
E' la vittoria - relativamente al personaggio - del declamato radicale alla tedesca sia sul declamato "morbido" alla Svedese (quello del "Wagner internazionale" di Flagstad e Nilsson, difeso dalla Stemme), sia sul vocalismo d'alta scuola - anche se arricchito dei colori "all'americana" - di René Fleming.
Partiamo da quest'ultima.
E' normale che la Fleming (da rigogliosa vocalista) sovrasti le colleghe nel terzetto finale, con una linea immacolata ed edonistica che progredisce in modo entusiasmante. Il problema è che - a differenza di quel che credono gli straussiani della domenica - (che non hanno mai messo sul piatto i primi due CD dell'Opera e poi pontificano su come andrebbe cantata) non c'è solo il terzetto finale.
Esso arriva dopo circa tre (tre!) ore di pura e semplice conversazione. Ed è qui che la Fleming (che pure ci mette tantissimo impegno) risulta un po' debole.
Marie Therese non è Ariadne, non è Arabella e non è Helena... non è nemmeno la Contessa del Capriccio.
Tutto il primo atto e quasi tutto il terzo richiedono una padronanza della "parola" declamata che sarebbe persino ingiusto chiedere a un vocalista.
Peccato perché pure, a modo suo, la Fleming avrebbe, dal punto di vista espressivo, qualcosa di personale (sia pure semplice) da dire: il suo personaggio non manca di verità e simpatia; l'età che avanza diventa simbolo di una perdità di identità (artistica?) nel mondo patinato in cui respirano le dive; l'evoluzione, il cambiamento sono nemici contro cui combattere; l'ineluttabilità dell'invecchiamento un qualcosa da smentire finché sarà possibile.
La Marescialla della Fleming funziona benissimo come donna che nega i suoi cinquant'anni, perché non è in grado di adeguare ad essi la propria "maschera".
...Che tutto ciò sia un problema reale (e persino artistico...) per super-René, credo ce lo potrebbe confermare persino il Flemingologo del gruppo.
Resta il fatto che il suo canto molle e sontuoso le crea al primo atto gravi impacci e la fa sembrare un po' ridicola al terzo, quando le volute della linea non le servono a svelare tutto ciò che il suo sguardo (a tratti davvero intenso) vorrebbe comunicare.
E la Fleming almeno (come già la Norman) sa appiccicare qua e là qualche colorino prezioso... Ma Dio ci salvi dalle Marescialle-Caballé...
Vocalmente parlando, molto meglio la Stemme, che almeno è una declamatrice; interpretativamente invece no.
La sua imperturbabile maestosità, la compostezza austera e felice ci distraggono dalla tragedia discreta del personaggio e dalle sue infinite sfaccettature.
La Stemme procede per la sua strada come un grande veliero, abituato solo a orizzonti oceanici e che snobba i fondali bassi.
La sua Marescialla non conosce perplessità, contraddizioni, introversioni e compromessi. Ma se togliamo al personaggio la sua molteplicità di sentimenti contrastanti cosa gli resta?
L'allure...? Roba - anche questa - da Straussiani della domenica.
Nella sua forbitezza e inflessibilità da regina d'altri tempi, la Stemme è sempre troppo esplicita: lo è anche il suo disprezzo per Ochs... mentre andrebbe nascosto dietro un disprezzo più grande (e quindi ancora più da nascondere) verso la società, quella società che permette che un Ochs acqusiti - come se gli fosse dovuto - il fiore di una ragazza; quella società, però, di cui lei stessa, Marie Therese, è simbolo splendente, è complice.
Alla Stemme sfugge questo gioco di specchi. Il suo personaggio è troppo semplice, troppo prevedibile.
E non è solo questione di personalità, ma - ancora una volta - di vocalità.
Il declamato "vocalisticheggiante" (suononi, frasone, legatoni) in cui le Svedesi si sono anticamente distinte (la Flagstad, la Nilsson), nella Marescialla proprio non funziona.
Tende a "monumentalizzare" un personaggio che invece pulsa di dubbi, domande senza risposta, pulviscolari contraddizioni.
Tutto questo non può venire fuori senza le sonorità contrastate e variegatissimo di una vera declamatrice (o di una vera colorista).
Parole e suoni vanno degustati tanto da far fiorire - frase per frase - significati complessi , di volta in volta ambigui e rivelatori, come faceva la Schwarzkopf (inarrivabile e pionieristica colorista).
E proprio come fa la Denoke, semplicemente incredibile nel manovrare fra mille suggestioni sonore le parole e le note del testo, alternandovi languori, sussulti di ironia, ambiguità ciniche o dolorose, pianti repressi con grazia e trasformati in ammiccamenti, mormorii distratti che però si rivelano mitragliate gelide, che stendono Ochs, e soprattutto tanti sorrisi di maniera, da copertina patinata, in apparenza perfetti, in realtà carichi di significati sempre diversi (come quello incredibile che la Denoke ci regala alla fine dell'opera, prima di avviarsi all'uscita con piglio leggero e disinvolto: un sorriso da donna forte, impassibile, a trentadue denti, ma con gli occhi gonfi di lacrime e di smarrimento, quando l'ineffabile gaffeur che è Faninal - indicando Sophie e Oktavian abbracciati - le dice: "che vuole? Sono giovani...").
Il canto della Denoke è, per tutta l'opera, una delizia per le orecchie.
Il suo declamato non privo di durezze, ma puro e tagliente, si impossessa a tal punto di ogni singola parola che anche chi non conosce il tedesco pende dalle sue labbra, e coglie ogni sfumatura di ciò che sta dicendo.
E anche quando (al finale del terzetto) si sente qualche piccola tensione, si finisce per amare anche quella... come se fosse parte di quella sconfitta che sta bruciando dal di dentro la "donna forte", la donna "invincibile" (va detto che invece all'inizio del terzetto, la Denoke compie un'incredibile prodezza per una declamatrice, filando a regola d'arte il si bemolle scoperto della prima frase, quello per cui la Crespin tremava tutte le sere).
Scusate la solita prolissità e un salutone,
Mat