Caro Mat,
dato che di Abbado mi par di capire tu abbia assistito al "Così fan tutte" e che a quanto so io di spettacoli di questo genere in Italia, ultimamente, non deve averne dati molti, forse sei però stato allo stesso spettacolo visto anche da Arbasino, per cui ti posto un articolo scritto in merito da lui...
( psss psss cmq anche se come me non c'eri, è una lettura interessante)
Ciao...
29 febbraio 2000
ALBERTO ARBASINO
E POI TUTTI GIÙ PER TERRA
[Sul «Così fan tutte» diretto da Claudio Abbado a Ferrara, febbraio 2000]
La magnifica esecuzione del «Così fan tutte» a Ferrara può fornire qualche «inside trading» sugli andamenti correnti nella gestione attiva o volatile dei Classici, rispetto al benchmark di riferimento. Infatti il perfezionismo eccelso nella performance del «senior fund manager» Claudio Abbado continua a rifinire e sublimare quel «Rossini ad orologeria» (Clockwork Gioachino) già messo a punto nelle memorabili «Italiane» e «Cenerentole» alla Scala, e culminato nelle strabilianti «macchine» - come le chiamerebbe il Da Ponte - del «Viaggio a Reims» pesarese. Capolavoro di riferimento, per la serie »Divertimento collettivo prodotto con rigore intemerato e impeccabile».
Con questo Mozart ferrarese, i risultati assoluti e più felici appaiono raggiunti nella concertazione degli insiemi: quando partendo da componenti singoli medio-bravi - cantanti non «mozzafiato» - Abbado attinge l'ideale settecentesco della commedia pura, senza residui di sentimenti o di anima. Una strategia entomologica, già biomeccanica, al posto delle passioni, delle emozioni, dei sentimenti. Macché cuori e fegati, arriva von Clausewitz; e perfino Choderlos de Laclos cede la scena alle relazioni e combinazioni fra le rane di Galvani e la pila di Volta, il movimento dei fluidi e dei solidi, il comportamento dei gas perfetti di Gay Lussac.
I risultati sono graziosi ed entusiasmanti, e avrebbero rallegrato i teorici e pratici specialmente russi dell'artista come «congegno slittante, pupazzo su molle». Via le scorie degli affetti, e anche i pretesti del sesso: contano solo i polmoni e i ritmi, l'agilità dell'ugola e del piede, la flessibilità del gomito, del ginocchio, del trillo.
E tutto questo funziona bene con le regìe che rifuggono dalla interpretazione. (Altro che Against Interpretation alla Susan Sontag). Come già col «Don Giovanni» alla Peter Brook, i cantanti non si presentano come protagonisti di trame o intrecci, né pretendono di «interpretare» personaggi con loro fisionomie e tradizioni culturali illustri. Sono sempre simpatici e accattivanti «giovani d'oggi» - come tutti - con gli stessi jeans e gilet e giubbotti e zainetti e fumetti e sacchetti di patatine e i gesti e sorrisi di tutti i ragazzi attualmente in giro dove «protagonista è il pubblico». E tutti normalmente e perfettamente intercambiabili, sostituibili: lunedì cantano Patrizio e Deborah, martedì Christian e Daniela, mercoledì Marco e Martina, e fa lo stesso. Come per tutti i giovani divi che fra gli strilli delle piccole fans assicurano i reporter di avere gli stessi gusti e le identiche abitudini di tutti i loro coetanei: il rock e l'ecologia, la televisione e la moglie, la pizza e gli sport. (Sicché il motto del cinico Don Alfonso, «Ripetete con me: co-sì- fan-tut-te», risulta profondamente emblematico, sintomatico, e realistico).
Nessuna pretesa di avere o presentare una «personalità propria» (anche al di là dei ruoli interpretati), come non ne possedevano solo la Callas o Ava Gardner o Totò, ma anche Cary Grant e Tina Pica. Nessuna aspirazione a impersonare differenzialmente «figure» che come Donna Elvira o Don Carlo si distinguono - per storia, lineamenti, carattere - dal Duca di Mantova e da Lady Macbeth. Come arrivando dai corridoi della scuola, i giovani uniformi e simpatici entrano rapidamente in ogni parte, eseguono il loro pezzo in «casual», e quindi escono dal ruolo come gli animatori e le infermiere che finito l'orario smettono di lavorare per il pubblico e rientrano nel privato per l'uscita del personale. O come le rock stars che dopo decenni di cuoio borchiato e canottiere zozze sul palco «hard» rincasano fra le trapunte e il capitonné.
Quindi non si pensa neanche per un momento che si tratti di personaggi. Siamo davanti a esecutori, non come ai tempi «epici» dello Straniamento Brechtiano, ma pari al primo violino e agli altri solisti dell'orchestra, in frac: e comunicano emozioni esclusivamente artistiche. Come al concerto e nelle esecuzioni «in forma semiscenica».
E non per niente, adesso, Guglielmo e Ferrando non stanno più lì a perder tempo travestendosi da «nobili albanesi» (o turchi, o valacchi), come pur richiederebbe una commedia degli equivoci,con qui pro quo. Ma chissenefrega? Chi mai se ne accorgerebbe? Fa comunque lo stesso: come con gli Shakespeare fra i disabili. Infatti, non si interpreta. Si esegue, con alta professionalità e in abiti sommari, come con Peter Brook o a Santa Cecilia.
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(E pensare che sul programma di sala una ricerca di Adriano Cavicchi ci svela perché mai Fiordiligi e Dorabella sono definite "dame ferraresi", non a caso, nel sublime libretto di Lorenzo da Ponte. C'era infatti una tradizione di rinomate «dame cantatrici ferraresi», almeno a partire dalla Corte di Alfonso II d'Este, con un repertorio illustre di belcanto dal Tasso a Paisiello portato in giro per due secoli nelle capitali musicali europee. E a Vienna, la famosa Adriana Gabrielli Ferraresi, detta »la Ferrarese», dopo i trionfi alla Scala e a Londra con Gluck e Cherubini, diventa una popolare amante del Da Ponte, che frequentava anche sua sorella Luisa, anche lei cantante e galante con mille intrighi fra Casti e Salieri e Giuseppe II, mentre Adriana cantava la Susanna nelle Nozze di Figaro... Quindi, tutto un froufrou, un gioco elegante fra le cadenze «ferraresi» nelle arie mozartiane e l'allegra fama delle due Ferraresi a Vienna: storie d'altronde non ignote agli ufficiali e goliardi italiani ancora verso la metà del Novecento, quando Ferrara si celebrava come capitale della Pittura Metafisica... Ma parecchie notizie storiche sulla Ferraresesi trovano, a cura di Lorenzo della Chà, soprattutto nella squisita raccolta dei Libretti Viennesi del Da Ponte, da poco apparsa con la Fondazione Pietro Bembo, e Guanda Editore. E lì, subito dopo il sublime «Così fan tutte», ecco «La caffettiera biz-zarra», altrettanto sublime. Con servi di bottega che cantano, in un locale viennese già attrezzatissimo prima di ogni Secession e Werkstätte: «Qui si danno acque perfette - Qui gelati ed erba The - Qui si leggon le gazzette - Qui si beve il buon Caffè». Dunque, viene una gran voglia di presentare questa Caffettiera Viennese alla celebre Teiera Wedgwood di Maurice Ravel, che nell'«Enfant et les Sortilèges» balla il fox-trot cantando «Black! Black! Black!» alla Tazzina, che le ribatte in cinese, su testi di Colette...).
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C'è però una sorpresa favorevole: stavolta Don Alfonso non è (come dovrebbe) un vecchio mondano napoletano «dei circoli» che le ha viste tutte anche a Capri e ormai non scopa più, ma si diverte con la sua lunga esperienza da café society a manovrare e beffare i «pivelli». È un altro giovanotto, che passa gran tempo ad architettare scherzi, come un «nonno» con le reclute o un «hacker» coi sistemi informatici. Ma siccome l'interprete Andrea Concetti è bravissimo e disinvoltissimo, potrebbe fare benissimo anche uno Scarpia giovanotto. Chi ha mai detto che debba essere un vecchio laido questore, e non un giovane commissario sportivo che porta via le Tosche e magari le Norme agli anziani tenori panzoni?
Lo spettacolo di Mario Martone è »antinapoletano», secondo quella caratteristica «antiretorica napoletana» per cui la luce e il cielo e il Golfo fanno folklore e dànno un complesso di «O' sole mio», indigeno e abominevole. Dunque, ecco uno sfondo nero da rimessa povera, che sarebbe triste anche per una Passione di Bach con strumenti d'epoca e in forma semiscenica. E così, dopo aver contemplato per decine di volte il muro di fondo dell'Argentina e del Valle e di molti altri teatri di lirica e prosa (generalmente più ammirati di qualunque fondale scenografico), ora si rimira e si applaude anche il muro di fondo del Comunale di Ferrara. Con un sollievo collettivo quando si socchiude un portoncino della rimessa lasciando scorgere un lembo patetico di sole mio. Altro che il riemergere alla luce di quei proverbiali disgraziati del «Fidelio». Qui c'è la crudele tenerezza di quella fiaba di Anna Maria Ortese con la povera piccola ciechina napoletana che quando riacquista la vista viene attanagliata dall'horror nel degrado che vede. Mentre le porcellone ferraresi si sbattono sui letti sfatti dei parenti terribili di Jean Cocteau.
E si recupera magari una leggendaria angoscia della signora Duse, perché un genio teatrale (Gordon Craig, o Appia) le avevano allestito, forse per un Ibsen, una stanza tutta muri esenza finestre. Così, quando dopo un lungo tirammolla di spasimi fra la Divina e il Genio questi acconsente ad aprire "una finestrina", essa davanti a quella finestrina si abbandona a tali frulli Liberty da entrare nella leggenda teatrale all'italiana...Oggi invece l'espediente viene incontro a quei vecchi abitudinari che dovendo scegliere un aggettivo «ficcante»o «intrigante» per classificare uno spettacolo - come - metafora - della - condizione - umana preferiscono il cronico «claustrofobico» al suo pendant «labirintico».
Anche qui tutti i personaggi, quando non sanno cosa fare con le mani e coi piedi, si siedono o accovacciano per terra: come ormai fanno da decenni anche le già altere e stagionate Elisabette d'Inghilterra o di Valois, nonché tutte le Semiramidi e Stuarde e Bolene e Lucrezie Borgie a cui i registi del disagio e malessere hanno sistematicamente tolto la sedia di sotto, spesso confinandole nelle latrine dei manicomi pre-Basaglia anche se il compositore non le gratifica di una Scena della Pazzia celebre come Ofelia o Lucia di Lammermoor. Arriva però stavolta un'applicazione sistemica del principio politico-sportivo per cui «chi non salta, Beethoven è». Tutti entrano infatti in scena saltando il parapetto dei palchi di proscenio. Aiutandosi magari con gradini, ma per decine di volte. E ridestando memorie nostalgiche o satiriche nei superstiti della Dolce Vita e della Nou-velle Vague: l'epoca d'oro delle automobili spider, quando per uscire dalla Giulietta e dalla Triumph si zompava direttamente fuori, mai si sarebbe aperto lo sportello. Con la mia MG rossa d'allora, per anni e anni si è sempre fatto così: perfino nella Varsavia scapestrata degli anni Sessanta, davanti a una piccola folla plaudente che vedeva ovunque Brigitte Bardot. Sono gesti d'epoca, come successivamente stringersi lo stereo estraibile al petto. Ma se l'avesse fatto decine di volte il giovane Trintignant, in un solo film di Vadim?
«Fortunato l’uom che prende / ogni cosa pel buon verso, / e tra i casi e le vicende / da ragion guidar si fa»