Tannhäuser – Robert Gambill
Elisabeth – Camilla Nylund
Venus – Waltraud Meier
Wolfram von Eschenbach – Roman Trekel
Landgraf – Stephen Milling
Walther von der Vogelweide – Marcel Reijans
Biterolf – Tom Fox
Reimar von Zweter – Andreas Hörl
Heinrich der Schreiber – Florian Hoffmann
Ein junger Hirt – Katherina Müller
Vienna Philharmonia Choir
Berlin Deutsches Symphony Orchestra
Philippe Jordan, conductor
Nikolaus Lehnhoff, regia
Raimund Bauer, scenografia
Andrea Schmidt-Futterer, costumi
Registrato dal vivo alla Festspielhaus di Baden-Baden nel 2008
Vedere certi spettacoli di Lehnhoff è come usare una macchina del tempo. Si torna ai primi anni ottanta nel triangolo Francoforte-Weimar-Stoccarda nel regno del regientheater. In questo Tannhäuser troviamo infatti scenografie con palesi intenti simbolici, giochi di luce elementari, costumi squadrati e recitazione a volte destrutturata, a volte naturalistica, ma comunque sempre con intenti critici o dissacratori. Su tutto regna il konzept che il dramaturg proclama e il regista raccoglie.
Qui il konzept è rappresentato da una scala a spirale che, nei suoi contorcimenti, esprime sia la prigione dei sensi da cui Tannhäuser vuole fuggire sia la libertà redentrice a cui ambisce. Ad ogni atto si sale di un piano per arrivare, al finale, in un attico hi-tech dove avviene la catarsi e dove Elisabeth -vestita da sposa- si sacrifica. Lehnhoff non rinuncia nemmeno al caramello disneyano. Tannhäuser muore tra le braccia di Wolfram e un figurante, con lo stesso costume, sale le ultime spire della scala verso il cielo blu notte tra il salmodiare delle voci bianche. L'anima rendenta conquista il paradiso. Amen.
Detto questo non mi stupisco che Lehnhoff faccia del teatro a tesi; quello è il suo stile, quello ha appreso dai suoi maestri (Friedrich e Berghaus in testa), quello è il territorio dove ha riscosso notevoli successi. Mi stupisce invece che piatte narrazioni wagneriane come questa ancora vengano additate come esempio di coraggiosa "avanguardia" e non considerate come rivisitazioni d'epoca alla stregua delle Aide con i teli dipinti o certi allestimenti del Kirov. Ma forse è solo un problema mio: senza dubbio gli spettacoli di Lehnhoff hanno una poetica che mi sfugge oppure -più semplicemente- ho visto troppi Baccanali dove si sacrificava il maschio "castrante" (parola dei coreografi) e troppe Wartburg dove gli invitati sfilavano con bizzarri costumi -in questo caso gigantesche corna di cervo sulla testa- a rappresentare il mondo borghese (parola di Lehnhoff). Per me questo è solo un Tannhäuser scenicamente prevedibile, ingenuo, pretenzioso e muffito nei contenuti.
Dirige il giovane Jordan con slancio, fantasia e tante buone intenzioni. E' un Wagner, il suo, per nulla retorico ma luminoso e articolato. In certi punti si sente il desiderio, più che comprensibile, di comportarsi da primo della classe nell'evidenziare, con capillare cura certosina, certi impasti armonici particolari, certe scelte timbriche inconsuete, certi dettagli che altri interpreti passavano in sottordine. A volte questa analisi si rivela però controproducente. Il finale II, sebbene molto interessante sotto il profilo del colore orchestrale, corre il rischio di spappolarsi per un'eccessiva ricerca della minuzia messa in risalto come se fosse in cornice. Le cose migliori arrivano nel terzo atto a cominciare dal preludio che Jordan arricchisce di nervature cameristiche per arrivare a un finale di incisiva potenza proprio perchè privo di tutta quell'enfasi trombona che il momento sembra suggerire. Bravo.
Tannhäuser è Robert Gambill e qui c'è poco da dire. Forse perchè colto in una serata non particolarmente felice, Gambill letteralmente stramazza sotto il peso del ruolo: il timbro è legnoso, l'accento sempre parossistico ed esagitato, il disegno del personaggio elementare. Nel terribile concertato che chiude il secondo atto non riesce nemmeno a tenere una corretta intonazione e siamo a un pelo dal disastro. La "colpa" deve però essere equamente divisa tra lui e Jordan: con un tenore in quelle condizioni staccare un tempo così lento significa voler a tutti costi farsi del male.
Con la Nylund siamo su un altro pianeta. Sebbene sia un'Elisabeth piuttosto convenzionale (candore e purezza e castità e nient'altro) il canto è fermo, luminoso e certi acuti perentori.
Trekel è un Wolfram che metterà a disagio i wagneriani più belcantisti ma l'accento è convincente, il taglio del personaggio credibile, la musicalità ottima. Milling canta bene, ma confonde il Langravio con Sarastro.
Resta la Meier; l'intesa con Lehnhoff è notevole e lei conosce il ruolo anche capovolto. Difficile esemplificare i colori, le sfumature, il dosaggio degli accenti, la miriade di inflessioni con cui la Meier scompone la parte. Basti dire che le uniche emozioni teatrali autentiche di questo Tannhäuser sono ascrivibili a lei.
Qualità video di alto livello (sebbene un po' più di contrasto nel terzo atto avrebbe giovato). Audio eccellente nella traccia PCM anche se con un'invadenza delle voci nella parte destra del palcoscenico causa un microfono forse posizionato un po' troppo sulla ribalta.
Making-of di 50 minuti. Opera e documentario tutti sottotitolati in italiano.
La versione utilizzata è quella di Vienna.
Maugham