Giuseppe Verdi
I masnadieri
Melodramma tragico in quattro atti
Libretto di Andrea Maffei
Massimiliano: RUGGERO RAIMONDI
Amalia: MONTSERRAT CABALLE
Carlo: CARLO BERGONZI
Francesco: PIERO CAPPUCCILLI
Arminio: JOHN SANDOR
Moser: MAURIZIO MAZZIERI
Rolla: WILLIAM ELVIN
Ambrosian Singer
New Philarmonia Orchestra
Direttore: Lamberto Gardelli
Edizione: Philips (1975)
Tornando a rivedere gli appunti delle puntate precedenti, durante il suo lungo periodo di convalescenza a Recoaro nell’estate 1846, Verdi ebbe tempo a volontà per considerare la scelta di un soggetto. La prima idea riguardava quel “Re Lear” al quale doveva tornare tante volte; come abbiamo visto, si dedicò quindi al “Corsaro di Byron, a dispetto degli sforzi fatti da Lucca per dissuaderlo. Ordinò a Piave di abbozzare un libretto e cominciò anche a lavorarvi sopra saltuariamente durante l'estate, mentre era in convalescenza presso la stazione termale di Recoaro; qui trovò Andrea Maffei, che deviò le sue intenzioni in un’altra direzione.
I titoli che emersero furono “Macbeth” e “I masnadieri”, da piazzarsi rispettivamente a Firenze e a Londra in base alle disponibilità della compagnia di canto. Maffei fu il librettista de “I masnadieri” e Verdi, a quanto egli stesso racconta, ne compose gran parte tenendo in mente il precedente impegno fiorentino. Ma avendo appreso che il Teatro della Pergola non aveva in cartellone un tenore di primo piano per la stagione di carnevale, il compositore si rivolse al “Macbeth” e destinò a Londra il soggetto schilleriano. Nel frattempo Verdi stava lavorando al “Corsaro” ma il testo di Maffei fu abbastanza convincente da spingere Verdi ad accantonare momentaneamente il britannicissimo corsaro, e a scegliere il nuovo soggetto schilleriano per il proprio debutto londinese.
Chiusa la pratica di “Macbeth”, Verdi inizia a lavorare compiutamente ai “Masnadieri” nella primavera del 1847; ai primi di giugno il compositore arriva a Londra, e il 22 luglio l’opera va in scena allo Her Majesty’s Theatre con esito piuttosto ambiguo: le prime due recite, dirette da Verdi in persona, sono un trionfo; dopo il debutto dell’opera, però, il gradimento dell’opera comincia rapidamente a scemare.
Compatto e al contempo essenziale, l’organico strumentale dei "Masnadieri" si presenta come tassello rilevante del lungo percorso intrapreso da Verdi verso un impiego sempre più forbito e curato dell’orchestrazione, che evita i toni apertamente bandistici per concentrarsi su sonorità più raccolte e variegate. Nuova è in particolare l’attenzione nel delineare la tinta dell’opera mediante ampi preludi e intermezzi orchestrali che introducono ciascuno una mutazione scenica, e consentono inoltre un’azione mimica dei personaggi sul palco, nonché l’affascinante impiego di sonorità quasi cameristiche per cesellare i momenti più intimisti del dramma. A tal proposito il lavoro svolto anche in questa opera da Lamberto Gardelli in questa direzione è esemplare. Molto bello è il concertino per violoncello che apre l’opera e viene svolto con misteriose sonorità, che danno un’impressione imponente e maestosa. Altri momenti molto riusciti sono a mio avviso i delicati arabeschi di flauto, oboe e clarinetto che nella prima parte rappresentano il quieto cullarsi nel sonno del vecchio conte, o ancora i tremoli quasi rarefatti degli archi che paiono proiettare in una dimensione “altra” il duetto fra padre e figlio. Il direttore riesce sempre a ottenere un suono praticamente sbalorditivo dalla New Philarmonia Orchestra e gli Ambrosian Singer restano un gruppo vocale quasi ancora insuperato per il repertorio lirico.
Gardelli però, come abbiamo avuto modo di notare per gli altri titoli finora ascoltati, perde completamente ogni filo narrativo e spunto drammatico nelle parti di maggior concitazione e forza drammaturgica. Così il finale del primo atto, un gran bel pezzo d’insieme, risulta un po’ moscio. Altra grande pecca è la scena di Francesco del quarto atto: bellissime masse sonore, vellutate e curate, ma abbastanza insignificante dal punto di interpretativo. C’è comunque da dire, a mio avviso, che Gardelli crede molto in questo repertorio e fa di tutto per riscattarlo dall’onta “bandistica” in cui spesso viene confinato. A maggior ragione di ciò, ha sempre scelto dei cast invidiabili e davvero all-stars.
Allettato dalle lucrose prospettive economiche che poteva offrire una piazza remunerativa come Londra, Verdi non rinunciò a condurre le trattative per “I masnadieri” con l’abituale dose di richieste e pretese. Prima di accettare la commissione, il musicista aveva posto come condizione di poter disporre di un cast vocale di prim’ordine e di certo le sue aspettative non rimasero deluse. Il committente riuscì infatti a garantire a Verdi la presenza di un autentico fuoriclasse come Luigi Lablache e a scritturare il celebre soprano svedese Jenny Lind. Nel creare il personaggio di Amalia, Verdi doveva ovviamente soddisfare le caratteristiche della Lind, costruendo una parte basata su un canto fiorito di carattere brillante che le offrisse ampia libertà di virtuosismo. Inoltre l’agiità ornamentale della Lind, accanto alla sua spiccata propensione elegiaca, ben si confacevano all’idea romantica di donna angelicata schilleriana. Si veda a tal esempio la cavatina “Lo sguardo avea degli angeli” e fin da subito la Caballè rende perfettamente il candore del personaggio di Amelia. Nella Caballè, il personaggio di Amelia trova sia momenti di estatica contemplazione, romantica e quasi belliniana, sia la pirotecnica interprete di quell’infiorettata di trilli e ornamentazioni richieste dalla parte. Punto assoluto della registrazione è il duettino con Carlo, in cui la Caballè è un’Amalia assolutamente estatica, sostenuta da un tenore di prim’ordine: Carlo Bergonzi.
Per la parte del protagonista Verdi aveva sperato inizialmente di poter scritturare Gaetano Fraschini, il suo tenore drammatico prediletto, ma l’incerto debutto del cantante sulle scene inglesi convinse il compositore a ripiegare su Italo Gardoni, un giovane tenore di grazia dal calibro più leggero. Con affascinante ambiguità il ruolo trapassa di continuo da momenti di nostalgico rimpianto ad accensioni di titanico eroismo, richiedendo brillantezza nel registro acuto e potenza in quello centrale. Bergonzi è il tenore che fa al caso nostro: tono squillante fin dall’ingresso in un recitativo di canto spianato che poi muove con morbidezza e velature in zone più centrali. Stupendi in Bergonzi sono la gestione dei fiati e quindi dei legati e dei fraseggi: magistrale è la cavatina “O mio castel paterno”. Bergonzi è stato un tenore verdiano di riferimento e lo sarà decisamente anche per qualche generazione a venire.
La parte di Francesco è affidata a un baritono deuteragonista, rivale del protagonista sia in amore sia in questioni famigliari. Cappuccilli ha un colore veramente sbalorditivo, per un personaggio contraddittorio come quello di Francesco spesso ne disegna solo il lato peggiore, dimenticandosi completamente un più variopinto intento d’accenti. Insomma ne fa un bruto più che uno scapestrato personaggio romantico.
La parte di Massimiliano è data invece in consegna a un basso cantante e verte quasi unicamente nella zona centrale del registro il classico dolore del padre oppresso dalla sorte del figlio. Raimondi veste bene questi panni anche se non ha in bagaglio quella perfetta dizione richiesta per un ruolo verdiano. Esempio è “Un ignoto, tre lune or saranno”, con cui con cui ci consegna un emozionante racconto, intriso di donizettiana memoria.
Per questa registrazione troviamo poi delle parti di fianco veramente esaustive e più che buone. Da citare il Moser di Maurizio Mazzieri, il cui splendido duettino con Francesco nell’ultima parte dà piena dimostrazione di quanto spessore drammatico Verdi riesca a conferire a un basso spinto servendosi di pochi interventi incisivi che ne esaltano l’intera tessitura.