Giuseppe Verdi
Il corsaro
Melodramma in tre atti
Libretto di Francesco Maria PiaveCorrado: JOSE’ CARRERAS
Medora: JESSYE NORMAN
Gulnara: MONTSERRAT CABALLE’
Seid: GIANPIERO MASTROMEI
Selimo: JOHN NOBLE
Giovanni: CLIFFORD GRANT
Eunuco/Schiavo: ALEXANDER OLIVER
Ambrosian Singers
Maestro del coro: John McCarthy
New Philarmonia Orchestra
Direttore: Lamberto Gardelli
Edizione: Philips
“Il corsaro” non è di certo un capolavoro, questo è chiaro. Direi piuttosto che sia un prodotto culturale assolutamente figlio del proprio tempo e di una moda ben precisa: il romanticismo byroniano. Dopo “I due Foscari”, Verdi sembrò completamente infatuato dal poeta inglese, tanto da avvicinarsi a suoi due poemi, “The Bryde of Abydos” e “Cain”, che però non vennero mai musicati. “Il corsaro” invece entrò a far parte del catalogo mentale verdiano fin dal 1844, quando lo pensava quale soggetto per l’apertura della stagione di carnevale alla Fenice.
Nel 1845 Verdi firmò un contratto con l’impresario Lucca per la messa in scena, all’Her Majesty’s Theatre di Londra, di un’opera che avrebbe dovuto essere rappresentata durante l’estate del 1846. Verdi pensò subito nuovamente al “Re Lear” ma, come sappiamo, questo titolo mai entrò a far parte delle opere verdiane. Allora il compositore ritenne che “Il corsaro” poteva fare al suo caso, magari avvalendosi di Francesco Maria Piave quale librettista, che già era avvezzo alla poetica byroniana. Lucca si dichiarò d’accordo sulla scelta del soggetto, ma si prese la liberta di mettersi in contatto con un italiano residente a Londra, tale Manfredo Maggioni, a cui avrebbe voluto affidare la stesura del libretto. Verdi fu irremovibile e disse di essersi già impegnato con Piave. Giovannina Lucca allora prese in mano la situazione e propose altri soggetti a Verdi, tra cui Ginevra di Scozia ma egli fu inamovibile anche in questo caso: “o il Corsaro o niente”.
Nel frattempo la salute di Verdi peggiorò e dovette trattenersi a Recoaro per delle cure termali. Qui incontrò spesso Andrea Maffei con il quale dialogò di progetti futuri, tra cui “Macbeth” e “I masnadieri”. Proprio quest’ultimo titolo divenne l’opera con la quale onorò il contratto con Lucca per Londra. Rimaneva a questo punto da tener fede, dopo “Attila” e appunto “I masnadieri”, al terzo titolo oggetto di contratto con l’editore. Verdi pensò così di recuperare “Il corsaro” che nel frattempo era stato abbandonato.
Dal momento che ii libretto di Piave per “Il corsaro” era stato scritto e già pagato, Verdi l’offri di nuovo a Lucca. Lucca invece gli inviò un nuovo libretto e il compositore andò su tutte le furie. Verdi riprese quindi in mano il libretto di Piave, e lo mise in musica cosi com’era. Nel febbraio 1848 fece avere la partitura completa all’editore, autorizzandolo a disporne come meglio credesse. Pare si tratti dell’unico caso in cui Verdi sia così poco interessato a una propria creazione prima della sua rappresentazione.
Lucca decise di mettere in cartellone “Il corsaro” al Teatro Grande di Trieste. Verdi non fu chiamato a dirigere la prima rappresentazione mentre la direzione del teatro fu ben contenta di avere Muzio, che aveva assistito Verdi nell’allestimento della maggior parte delle sue opere e che avrebbe potuto conoscere meglio di qualsiasi altro le intenzioni del compositore.
L’accoglienza sia del pubblico sia della stampa fu alquanto disastrosa e l’opera venne tolta dalla programmazione dopo solo tre recite. Fu quindi ripresa per tre volte nel 1852, a Cagliari, Modena e al Teatro Carcano di Milano. Fu poi mandata in scena a Venezia nell’anno successivo come soluzione
di ripiego, e l’opera permise a Felice Varesi, che cantava il ruolo di Seid, di riprendersi la propria reputazione dopo una fallimentare prova quale Germont.
Il caro Budden indica così le ragione della mancanza di fortuna di “Il corsaro”: “ciò dipende dal fatto che la sua struttura è essenzialmente narrativa. Non essendo concepita in termini drammatici, non consente di innescare un forte potenziale musicale nel conflitto e nello scontro dei personaggi. Di conseguenza ben difficilmente si possono trovare nell’opera quelle qualità di costruzione drammatica che esaltano i pregi delle opere migliori scritte dal primo Verdi, a prescindere al valore del linguaggio musicale in sè. Nel “Corsaro” manca quel crescendo incalzante di interesse drammatico che in “Ernani fa balzare in piedi lo spettatore, o quella dialettica rigorosa e tagliente che percorre tuto “I due Foscari”, o ancora quel vasto senso spettacolare che trasfigura i grandi momenti di “Giovanna d’Arco” e “dell'”Attila”. D’altra parte, e escluso che Verdi potesse far tesoro dei progressi formali raggiunti con il “Macbeth”, in quanto la genesi del “Corsaro” appartiene, come per “I masnadieri”, a un periodo antecedente.”
I personaggi di “Il corsaro” sono davvero asettici. Corrado è il classico eroe byroniano, luciferino, ribelle, orgoglioso, solitario, accompagnato da Medora, la classica eroina byroniana, statica e impotente. Seid richiama il gusto dell’oriente ormai così vicino mentre Gulnara è una donna qualunque che compie un gesto coraggioso per l’uomo che ama, ma nulla di più.
A livello interpretativo, “Il corsaro” non da molti spazi di introspezione e creazione del personaggio. Piuttosto l’attenzione del direttore deve essere tesa a una linea drammaturgica ben definita, senza sfronzoli, diretta e chiara. Lamberto Gardelli in questa edizione fa proprio questo: non ci da sicuramente una lezione di grande fantasia però riesce perfettamente a condurre le redini dell’opera. Routinier? Direzione di maniera? Non direi, si tratta piuttosto di presentare un’opera che è e rimane asettica, c’è poco da fare. “Il corsaro” è un titolo negletto da Verdi stesso e Gardelli ce lo fa notare. Anzi, credo vada oltre e cerchi di presentarcelo quanto meglio si possa fare, senza eccedere in sonorità, con precisione e perizia fin dal naturalistico preludio che ci viene presentato come un bel quadro pittorico.
Per altro il direttore si avvale di un cast che meglio non si potrebbe avere, anzi è quasi sprecato, con cantanti presi nel bel mezzo del loro miglior potenziale.
Davvero strana l’idea di affidare il ruolo di Medora a una stella nascente quale lo era Jessye Norman a metà degli anni Settanta e, invece, Gulnara a Montserrat Caballè. Mi sarebbe piaciuto quasi fosse il contrario. Comunque sia la Norman presta voce a una Medora da un timbro vellutato, mordido e angelico, che calza a pennello al personaggio e rende giustizia a un interessante brano quale la romanza “Arpa che or muta giaci, vieni” è. Dal canto suo Montserrat Caballè è una buona Gulnara, forse un po’ appensantita nel registro grave ma formidabile in quello acuto, che indora ogni singola fioritura e abbellimento come nella sortita.
La scelta migliore del cast è assolutamente Josè Carreras quale Corrado. Il tenorissimo era in quegli anni al pieno del proprie forze e ci restituisce un Corrado di grande forza giovanile, entusiasta, vigoroso ed eroico. Anche in questo caso la sortita e cabaletta del primo atto sono di forte impatto; Carreras ci da una splendida idea dell’unico personaggio veramente credibile dell’opera, un eroe stentoreo, appassionato ma anche cinico e dallo sberleffo facile.
Seid è uno strano personaggio: Verdi amava alla follia la voce baritonale, ma questo ruolo è talmente defilato e dalla staticità da cartolina Liebig che ci sembra quasi un comprimario. Non male comunque Mastromei, baritono elegante e dalla voce calda e abbastanza pastosa.
Discreti i comprirari, peccano solo un poco di pronuncia italiana. Avvolgenti e precisi come sempre gli Ambrosian Singers.
A mio parere si tratta di un’ottima registrazione sia grazie alla direzione di Gardelli sia al grandissimo cast, che danno fin troppa giustizia a un titolo con molte ombre e qualche luce, ovvero l’ispiratissima chiusa del secondo atto, la concisione, il tratto pacato del romanticismo belliniano unito agli adori del giovane Verdi.