Rispondo alle istanze sollevate dagli ottimi Bagnoli e Malatesta.
Cominciamo con la Pluhar: ha inciso recentemente un bellissimo CD intitolato
L'Amore Innamorato, tutto su Cavalli. un altro indizio, questo di come la
renaissance cavalliana aggiunga sempre nuovi tasselli al mosaico. Mi è piaciuto moltissimo per quanto riguarda la realizzazione del basso continuo ma la qualità del canto è soltanto buona e tutto sommato
generica. La Pluhar ha fantasia, e la usa sconfinando ogni tanto nel jazz. Ma è abbastanza lecito, se pensiamo come all'epoca l'improvvisazione fosse parte integrante e sostanziale della prassi esecutiva. Ancor di più la Pluhar mi è piaciuta nel CD dedicato a Purcell (
Music for a while), davvero imperdibile....
Ma, prima di passare agli interpreti di Cavalli, veniamo alle differenze con Monteverdi... e qui il discorso potrebbe farsi lungo, per cui spero nella mia capacità (non sicura
) di essere sintetico. Esiste una data fondamentale nella storia dell'opera lirica: il 1637. E' l'anno dell'apertura del primo teatro d'opera a pagamento in Venezia. L'opera, che prima di allora era stato un fenomeno riservato alle feste di corte, diviene un fenomeno impresariale: nasce con tale evento quello che oggi chiamiamo lo
show business, perché nel giro di pochi anni l’opera a Venezia finirà per occupare quello spazio ricreativo e culturale che al giorno d’oggi è occupato dal cinema. Non è solo un mutamento socio/economico: è soprattutto una rivoluzione stilistica, sia poetica che musicale. L’opera di corte (pensiamo all’
Orfeo di Monteverdi, l’apice della categoria) era aulica, legata più alla poesia pastorale che al teatro in senso stretto; i personaggi non interagivano, dialogavano solo raramente e per lo più narravano: basti pensare alla morte di Euridice nell’
Orfeo, che non è “messa in scena”, ma soltanto raccontata. Il teatro impresariale scompiglia le carte sul tavolo: il committente non è più il mecenate, ma è il pubblico, e l’opera deve venire incontro alle esigenze dell’epoca, divenire “moderna”. Dalla poesia aulica si passa così al teatro in senso stretto: le trame divengono più ricche ed intricate, i personaggi interagiscono, dialogano, litigano, si amano e disamano, muoiono in scena… e soprattutto “cantano”. In altre parole: se l’atmosfera aulica delle corti prediligeva il recitar cantando, disdegnando il canto strofico in quanto “volgare”, il pubblico al contrario inizia a richiedere le arie strofiche, più “orecchiabili”. Il cambiamento è talmente drammatico che Lorenzo Bianconi, nel suo libro sul Seicento musicale, scrive più o meno che una qualsiasi opera impresariale del ‘600 è più lontana dall’Orfeo di Monteverdi di quanto non lo sia da un’opera ottocentesca.
Orbene: Monteverdi appartiene in tutto e per tutto alla temperie culturale antecedente al 1637, e sono di tale epoca i problemi musicali da lui sollevati e le rivoluzioni da lui operate, come la differenza tra prima, seconda e terza prattica o la nascita e lo sviluppo dei madrigali rappresentativi. Cavalli, invece, che esordisce nel teatro d’opera nel 1639, è il dominatore assoluto del ventennio successivo e la sua estetica, le sue intuizioni e la sua ricerca stilistica appartengono in pieno al contesto culturale del teatro impresariale. E’ vero che esistono due opere di Monteverdi (o presunte tali) successive al 1637, ma una (
Il Ritorno di Ulisse in patria del 1641) è opera ricca di eccellenti momenti, ma tutto sommato diseguale, che poco rappresenta la genialità del suo autore, che per me emerge soprattutto, oltre che nell’
Orfeo, nei Vespri e nei madrigali rappresentativi… mente per quanto concerne l’altra (
L’incoronazione di Poppea) bisognerebbe indagare davvero per sapere chi l’abbia davvero composta: nessuna, dico
nessuna cronaca o testimonianza coeva associa il nome di Monteverdi a tale opera, il che è strano, dato che delle opere di tali anni abbiamo magari perso i manoscritti, ma conosciamo benissimo tutti gli autori. Monteverdi era il compositore più glorioso tra i viventi ed il suo nome era più che noto: se
l’Incoronazione di Poppea fosse stata sua, le cronache lo avrebbero evidenziato. Per chi non lo sapesse, il primo autore ad aver associato il nome di Monteverdi all’
l’Incoronazione di Poppea è tale Cristoforo Ivanovich, un dalmata trasferitosi in laguna nel 1650… dunque 8 anni dopo l’esecuzione dell’opera, che nel suo scritto del 1681 (39 anni dopo) intitolato "Minerva al Tavolino... trascorso istorico di Cristoforo Ivanovich" elenca alcune delle principali opere eseguite a Venezia nei decenni trascorsi, attribuendo per l’appunto
l’Incoronazione di Poppea a Monteverdi. Ma un’analisi critica del testo di Ivanovich ha fatto scoprire almeno 7 altri casi in cui l’autore sbaglia completamente l’accostamento tra opera ed autore… un testimone, quindi, tardivo, assente all'epoca dell’esecuzione e spesso infedele. Io vedo la questione non da appassionato di musica, ma da lettore di romanzi noir: attribuire
l’Incoronazione di Poppea a Monteverdi è come pensare che il colpevole sia sempre il maggiordomo. Non esistono prove a sostegno di tale attribuzione (e se qualcuno di voi ne è a conoscenza, le tiri fuori…) ed esistono degli indizi di contorno che rendono ancora più difficile attribuire
l’Incoronazione di Poppea a Monteverdi. Il primo è la presenza del duetto finale “pur ti miro, pur ti godo”, che appartiene ad un’opera antedente, il
Pastor Regio di Benedetto Ferrari, rappresentato a Bologna nel 1641. Il secondo è la presenza di un soprano nella parte di Nerone, fatto lontanissimo dal mondo estetico di Monteverdi, che scrisse nel 1616 “... mosse l'Arianna per essere donna et mosse parimente Orfeo per essere omo..”. Il terzo è di buon senso artistico: cosa c’entra l’Incoronazione di Poppea con il resto della produzione di Monteverdi? Quali analogie presenta? Qualcuno sostiene che fosse un “prodotto di bottega” sotto la supervisione di Monteverdi, ma all’epoca le botteghe esistevano tra i pittori, non tra i musicisti. Molto più probabile che sia un prodotto a più mani e che l’autore (o gli autori) sia rimasto oscuro perché all’epoca veniva evidenziato in maggior misura il nome del librettista. Tra le mani che di sicuro operarono nell’
Incoronazione di Poppea, due possiamo riconoscerle senza dubbio: Benedetto Ferrari, non foss’altro che per il duetto finale, e Francesco Cavalli, che infatti – quando una decina d’anni dopo l’esecuzione veneziana, l’opera fu data a Napoli – venne incaricato della revisione della partitura. Non è un caso che uno dei manoscritti superstiti di quest’opera sia stato rinvenuto a suo tempo nella biblioteca personale di Cavalli e che qualche studio recente (di cui purtroppo ho dimenticato la fonte) attribuisce a Cavalli con una buona dose di certezza quasi tutto il 3° atto. Comunque l’attribuzione dell’
Incoronazione di Poppea a Monteverdi, per quanto sia quasi certamente un falso storico, è servita quanto meno ad attirare l’attenzione nei confronti dell’opera veneziana del ‘600, aprendo di fatto la strada anche alla riscoperta di Cavalli.
Tutto questo per dire che Monteverdi e Cavalli sono sì contigui dal punto di vista storico, ma distanti come contesto culturale e che quando si cita l'
Incoronazione di Poppea cercando analogie e differenze tra Monteverdi e Cavalli, esiste una buona percentuale di probabilità che si stia confrontando Cavalli con Cavalli
. L’esecuzione di Monteverdi (del Monteverdi sicuro) dovrà sempre tenere conto delle esigenze legate all’estetica del madrigale rappresentativo (quindi meno attenzione alla battuta e più attenzione alla mobilità del linguaggio) mentre l’esecuzione di Cavalli dovrà tenere conto delle esigenze di cantabilità e dell'erotismo, che è parte essenziale della sua estetica. Inoltre, dato che le partiture delle opere veneziane sono largamente incomplete, molto dovrà essere lo spazio per l’improvvisazione, a patto che essa sia di buon gusto.
E veniamo ai direttori… e lo facciamo iniziando da una chicca storica. Lo sapete che la prima opera di Cavalli messa in scena in forma integrale in epoca moderna fu la
Didone? Correva l’anno 1950, credo, ed il direttore era niente di meno che Carlo Maria Giulini.
Ma si tratta di “preistoria”: il primo direttore a mettere in scena con una certa frequenza le opere di Cavalli fu Raymond Leppard, che tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80 diede vita alla
Calisto, all’
Ormindo e all’
Egisto. Ma si tratta di “arrangiamenti” più che di esecuzioni fedeli: Leppard, che era anche compositore di colonne sonore, trascrisse le opere per grande orchestra sinfonica, rispettandone poco lo spirito. Tuttavia, per strano che possa apparire, i suoi risultati sono suggestivi e – fatta la tara sulla questione stilistica – finiscono per essere appetibili. Storica è la sua incisione della
Calisto con la Baker, la Cotrubas e Bowman e molto interessante è un DVD in stereo, reperibile nei siti bootleg, con l’
Egisto, in cui spicca Della Jones. Lo stile “leppardiano” lo ritroviamo in pieni anni 2000 niente di meno che in Zedda, che ha inciso
Gli amori di Apollo e Dafne con grande orchestra… ma, nella medesima opera, è preferibile Garrido.
Poi venne Renè Jacobs, che incise nell’ordine
Xerse,
Giasone e la
Calisto (quest’ultima anche in DVD). All’epoca (tra il 1985 e il 1996) la sua apparve come una rivoluzione, ma l’uso di un’orchestra sovradimensionata e di tanti apporti estranei, come l’uso di interludi strumentali di altri autori, ce lo fanno ormai apparire come più vicino a Leppard che ai nuovi direttori. Si tratta comunque di bellissime edizioni soprattutto dal punto di vista del senso drammatico, in cui Jacobs fa letteralmente miracoli, se si pensa che siamo di fronte ad esecuzioni pionieristiche. Oltre al DVD della
Calisto, che è ancora godibilissimo, è ancora molto bello il suo storico
Giasone, nel quale brilla la stella di Gloria Banditelli nella parte di Medea, recentemente ristampato dalla Harmonia Mundi France. In teatro Jacobs ha anche eseguito, nel 2004, un acclamato
Eliogabalo, mai pubblicato in DVD anche se ne esistono le riprese filmate. Io posseggo un bootleg in solo audio, ma mi sembra che – rispetto a quanto ottenuto più recentemente da altri direttori – il risultato mostri un po’ la corda ed appaia tutto sommato datato.
Tra i direttori attuali, ho già detto del primato di Garcia Alarcon: imperdibile il suo DVD con l’
Elena di Aix-En-Provence, che ci immerge in un universo incantato e sensuale a tutt’oggi inaudito nelle esecuzioni cavalliane.
Sconsigliabile Fabio Biondi, che pure in Alessandro Scarlatti ed in Vivaldi è a dir poco straordinario: la sua
Didone in DVD, che pure fruisce di un’ottima compagna di canto, è corretta dal punto di vista dell’organico strumentale ridotto ed intimo, ma inerte dal punto di vista drammatico… e addirittura in alcuni momenti della partitura Biondi sceglie (con decisione per me imperscrutabile) di trasformare in “parlato” alcune battute di recitativo. Un po’ meglio vanno le cose con il suo DVD con
la Virtù de’ strali d’Amore, ma nulla di eccezionale in ogni caso.
William Christie una sola volta si è approcciato a Cavalli, con la
Didone fortunatamente registrata in DVD. Eccezionale! Christie coglie in pieno l’aspetto tragico dell’opera (forse la più tragica di tutto il teatro veneziano del ‘600), ed offre un’esecuzione viva, vibratile, ricca di sfumature. Oltretutto si tratta di un'edizione dominata dalla Didone di Anna Bonitatibus, davvero regale, tragica ed altera. Una cantante che da sola vale l'acquisto!
Un altro illustre personaggio ha accostato Cavalli con ottimi risultati: Federico Maria Sardelli, il cui DVD con il
Giasone è imperdibile. Ogni tanto, come suo solito, Sardelli indulge un po’ troppo nel vizio dello staccato, ma il risultato è vivo e godibilissimo.
Anche Ivor Bolton ha eseguito più volte Cavalli: purtroppo non esistono testimonianze ufficiali registrate della sua
Calisto, ma esiste il DVD con l’
Ercole Amante, che ci mostra un Cavalli diverso dal solito, eseguito con una certa dose di urticante ruvidità e con un orchestra (l’eccellente Concerto Koln) un po’ più sovradimensionata dal solito, ma stavolta con scelta legittima, dato che l’opera fu data a Parigi in onore di Luigi XIV e l’orchestra era quella lulliana, più sontuosa dei piccoli gruppi strumentali usati a Venezia all’epoca. Anche in questo caso, scelta consigliatissima ed almeno un paio di cantanti "da urlo", ossia Luca Pisaroni nel ruolo di Ercole ed ancora Anna Bonitatibus nel ruolo di Giunone
Non dimenticherei Antonio Florio, che incise una
Statira di Cavalli molto bella, purtroppo fuori catalogo, con accompagnamenti poco fantasiosi ma di buon livello e soprattutto con ottimi cantanti: siamo sui livelli del Cavina di
Artemisia.
Esiste anche un'incisione dell'
Ormindo diretta dal francese Jerome Correas, ma è buona senza brillare e soprattutto presenta cantanti tutti francesi, che faticano un po' a realizzare in modo corretto la fusione tra testo e musica.
Citerei la
Rosinda diretta da Mike Fentross, un CD dal vivo con ottimi cantanti. Inizia in maniera entusiasmante dal punto di vista del fraseggio e delle scelte, ma poi si perde per strada diventando monotona. Un'occasione tutto sommato perduta.
Da evitare come la peste l’
Eliogabalo inciso in CD dal vivo da Antonio Solci (direttore a me sconosciuto fino ad allora). Pochissima fantasia, cantanti mediamente pessimi e tanta noia.
Mi scuso per la lunghezza, sperando di essere stato esaustivo.
Saluti
Giuseppe