Venendo alle note e basta, bisogna subito precisare che Kaufmann non è il classico tenore italiano né nel timbro, scurissimo, baritonale (i detrattori dicono ingolato, e un po’ in effetti lo è) né nella tecnica, che non è affatto quella belcantistica tradizionale e che a sua volta, a differenza di quel che molti pensano, non è affatto l’unica tecnica vocale possibile. Acuti bellissimi, facili almeno fino al si naturale (il finale del terz’atto di “Manon Lescaut”, trasformato in uno strambo assolo tenorile, non permette di barare), mezzevoci suggestive ma non “sul fiato”, italiano perfetto. E’ un grande tenore, ma non ortodosso.
Il punto è che per Kaufmann il canto non è un fine, ma un mezzo. E l’obiettivo è fare teatro. Per questo forse uno spezzatino di arie come quello milanese non è il modo migliore di apprezzarlo: mancano la presenza scenica, notevolissima, e la costruzione del personaggio, che poi se il personaggio è pucciniano viene messo a fuoco più nel canto di conversazione che nelle romanze. Però è sbalorditiva la capacità di ri-creare il momento scenico anche soltanto nella manciata di minuti di un’aria. E non meno rivoluzionaria la capacità, che di solito manca ai cantanti in generale e a quelli italiani in particolare, di distinguere fra Puccini e il puccinismo, fra un grande uomo di teatro pienamente novecentesco e la sua versione ridotta alla commozione prêt-à-pleurer. Certe figure mille volte viste e ascoltate (pensate a Cavaradossi, o a Des Grieux) smettono di essere stereotipate, o almeno prevedibili, per diventare teatralmente “vere”, addirittura nuove.
In questo senso, l’idea di mettere il programma in ordine cronologico, dalle “Villi” a “Turandot” (passando perfino per il famigerato “Edgar”, “E Dio ti GuARdi da quest’opera”, come diceva il sor Giacomo, e dire che l’aveva scritto lui…) permette davvero di seguire l’evoluzione non tanto musicale quanto drammaturgica di Puccini. Il quale viene rivoltato come un calzino, come se adesso toccasse a un cantante compiere quell’operazione di svelamento del vero Puccini dietro il puccinismo che i grandi direttori d’orchestra hanno fatto da tempo e i registi stanno iniziando a fare. E’ grazie ad artisti come Kaufmann, tenore “globale”, che l’opera smette di essere un museo di vecchie care cose per diventare qualcosa di estremamente attuale e contemporaneo, bruciante di verità. E non è davvero poco.
Non capita tutti i giorni di leggere una descrizione del "fenomeno Kaufmann" così chiara, precisa ed intelligente.
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DM