Nelle librerie fanno sfracelli le guerre mondiali raccontate da Ken Follet, al cinema la Bibbia da videogioco firmata Ridley Scott sbanca i botteghini e all'Opera trionfa la Rivoluzione Francese raccontata da McVicar. Sempre più vicino allo Zeffirelli dei tempi migliori, il nostro campione dell'opera in costume non manca di rispondere all'appello della "celebration" rivoluzionaria. Ficcato dentro un teatro urlante di entusiasmo ho passato tre ore senza accorgermi del tempo che passava tra ghigliottine, mamme morte, tenori e baritoni innamorati di se stessi (e, volendo, della stessa donna) albe e tramonti più veri del vero, ponti Perronet tracimanti folla, strazianti Madelon e patrie in periglio. Più che una serata all'Opera, un'abbuffata di momenti topici che ogni melomane alla moda fa conto di disprezzare ma che in cuor suo aspetta come la crema della nonna dopo cento portate di nouvelle cuisine.
Niente da dire, il liebigismo di Illica e Giordano non poteva trovarsi in mani migliori di quelle di McVicar che anche in questo Chénier si conferma artigiano di altissimo livello, narratore robusto ed efficace nonché scaltro uomo di teatro perfettamente conscio dei propri limiti: la mancanza di profondità è riscattata tramite lo sfarzo della confezione. Di solito McVicar è anche un imbattibile direttore d'attori; ho scritto "di solito" perché in questo Chénier non ho visto particolari meraviglie. Kaufmann, Westbroek, Lucic, tolta qualche piccola trovata, gesticolavano e si muovevano come il novanta per cento dei cantanti d'opera lasciati a loro stessi e il cento per cento degli Chénier, delle Maddalene e degli Gerard che ho visto da quarant'anni a oggi. Ed è un peccato perché una delle cifre più singolari di McVicar era proprio quella di aver tolto la gestualità convenzionale anche ai cantanti più convenzionali. E così, devo ammetterlo, alla resa dei conti non ho notato cose molto diverse da quelle che, ventenne, apprezzai alla Scala in un remoto allestimento targato Puggelli con Tomowa-Sinton, Carreras e Cappuccilli. Be', forse qualcosa di diverso c'era: alla Scala Cappuccilli cantava "Nemico della Patria" con le mani atteggiate a "ti faccio un culo così"; Lucic era più politically-correct. Però Cappuccilli aveva gli acuti e Lucic no.
Anche musicalmente, lo ammetto, non ho notato grandi differenze da quella serata scaligera.
Lucic è stato il solito Gerard comiziante e vecchio stile, la Westbroek una dolente Maddalena (ma uguale dall'inizio alla fine, senza nessuna crescita del personaggio che, voglio dire, è il meno stereotipato dei tre) e Pappano si è scatenato in brillanti saggi di retorica orchestrale. Come l'allora giovanissimo Chailly.
Tengo il tenorissimo per ultimo.
Kaufmann è stato bravo, ovviamente, bravissimo in molti punti, ultrabravo, da brivido, nel Finale ed è capace come sempre di rendere credibile qualunque personaggio si metta in gola. E non è cosa da poco. Ma mi fermo qui.
Capisco che in un ruolo così "estroverso" come Chénier non si possano tirar fuori chissà quali finezze, ma qualcosa in più che il solito, seppur qualificatissimo, tenorismo da loggione, mi aspettavo.
Anche teatralmente Kaufmann ci aveva abituato ad altri risultati. In questo Chénier ho visto una serie di gesti convenzionali, un buona dose di impaccio nelle controscene e, nel peggiore dei casi, un'inerzia singolare mentre cantavano i colleghi.
Sono comunque, lo ripeto, fisime da snob specie se penso a quali altri tenori cantino questa parte . Però Kaufmann è nell'occhio del ciclone e quindi da lui ci si aspetta sempre qualcosa di intrigante e rivelatorio.
Pubblico anglosassone che, nella mia sera, ha dimenticato l'understatement. Urla, battimani ritmati, boati da hooligans, strilli da loggione latino, signore dai capelli lilla trasformate in groupies che fregandosene del gelo, della tempesta di ghiaccio e dell'umidità se ne stavano all'uscita degli artisti come Compar Alfio in Cavalleria, "all'acqua e al vento" per guadagnarsi, lui il pane, loro un autografo.
Tornando a casa sono passato di lì e lo ho viste agguerrite come soldati in trincea. Dopo un'ora dalla fine dello spettacolo ancora aspettavano.
WSM