Beethoven "da esperimento" con Daniele Gatti e la MCO

sinfonia, cameristica e altri generi di musica non teatrale.

Moderatori: DocFlipperino, DottorMalatesta, Maugham

Beethoven "da esperimento" con Daniele Gatti e la MCO

Messaggioda vivelaboheme1 » ven 30 gen 2015, 15:28

Era nella logica che il felice inizio del ciclo delle Nove beethoveniane con Daniele Gatti sul podio della formidabile Mahler Chamber Orchestra non si connotasse per convenzionalità. L'orchestra, una delle meraviglie create da Claudio Abbado, ha, di suo, una duttilità e una freschezza di approccio che dura negli anni (nella composizione attuale si compone di giovani e semigiovani), un tipico suono asciutto. D'altra parte, per Daniele Gatti, l'approccio alle Sinfonie beethoveniane (diverse delle quali ha eseguito più volte, negli anni) si configura - come nello spirito di questo direttore - come uno studio e un'avventura sonora ed interpretativa da vivere "qui e ora", non dimentica di tradizioni ma allo stesso tempo slegata da esse. un Beethoven rivissuto in prima persona da ricreare, per noi, ADESSO. Ne deriva una favolosa freschezza interpretativa e - soprattutto in una delle tre Sinfonie eseguite a Torino, Ferrara, Pavia (noi eravamo al Fraschini, di magnifica acustica): la Seconda - un esito che, come spesso accade con Gatti, getta nuova luce sul capolavoro beethoveniano.
La Sinfonia n. 2 in re maggiore ne esce, effettivamente, capolavoro dell'inquietudine: inquietudine storica di un lavoro che - in un clamoroso salto in avanti tematico ed espressivo rispetto all'haydniano do maggiore del mondo dei giochi della Prima - vive di luci ed ombre, humour e dramma, già almeno preromantici. Lo dice a chiare lettere il movimento lento (per il quale Gatti ha chiesto ed ottenuto un suono "grasso", corposo a sostegno e una tinta inquieta), ma lo conferma il "gioco" del finale (gioco? Ha un asprezza che par quasi già Mahler, in Gatti, che "strappa" e "ruba" quello sberleffo sonoro iniziale, sul quale tutto il movimento si costruisce!). E', a nostro avviso, il clou e il vertice del programma, questa Seconda così "agitata", ripiena di suono così come la leggeva il Leonard Bernstein degli anni maturi, l'eccelso outsider dell'interpretazione beethoveniana, che ci sembra il modello tematico della lettura gattiana, lontanissimo qui, per concezione si suono e fraseggio, dalla linea esecutiva filologi-Abbado (mai sentita la Mahler Charmer, di solito tendenzialmente "asciutta" e parafilologica nel suono e nella scansione, suonare così "corposa" : segnale di straordinaria duttilità e disponibilità ad uscire dai propri binari con un direttore che le chiede "altro" dal suo solito). In ogni caso, questa Seconda suona avvincente e convincente, nella sua non-convenzionalità.
Anche nella Prima Sinfonia, siamo fondamentalmente in mondo-Bernstein, quanto alle scelte esecutive, ma soprattutto in mondo-Haydn. L'andante è un ricamo quasi settecentesco, il finale è croccante (sempre con un certo tasso di suono, ma con una stilizzazione di frase che riporta indietro, nel tempo e nella tematica, rispetto agli esperimenti della Seconda).
E si chiude con la Quinta. Qui si capisce che Gatti vive e vivrà ogni Sinfonia del ciclo come una avventura a sè. Se modelli ci sono, qui cambiano. Il direttore milanese si è sempre professato grande ammiratore di Arturo Toscanini. E sembrano condurre "da quelle parti" sia l'implacabile ritmica del movimento iniziale sia la cartesiana pulizia della stretta finale. "Sembrano", perché poi, invece... l'andante con moto, così lirico ed epico ma anche ombroso, la spasmodica "suspence" del passaggio dal terzo movimento al finale, le pazzesche irregolarità ritmiche chieste (e date, con totale disivoltura dai "mostri" dell'orchestra) nello sviluppo del finale, accendono, di nuovo, tutto un mondo di inquietudini che "getta" in avanti la Quinta "di Gatti". L'impressione è che si tratti di un work-in-progress, una lettura che (come avveniva con Claudio Abbado e le sue orchestre) Gatti stesso potrà evolvere e mutare, secondo ambiente, tempo ed orchestra a disposizione.
Sicuramente, nel complesso del programma, è un Beethoven che colpisce, sorprende, soprattutto inquieta e fa pensare: ed è quanto si chiede alla musica ed ai suoi grandi interpreti. Un Beethoven per noi, qui ed ora, frutto dell'avvincente collaborazione fra la creatività del direttore ed una orchestra al di sopra di ogni elogio: quei corni che suonano a tutte le dinamiche, il flauto "da sposare" e tutti i legni uno splendore, gli ottoni perfetti, gli archi un tutt'uno, e la disciplina e la tecnica unite alla fantasia. Una meraviglia, la Mahler Chamber!

marco vizzardelli
vivelaboheme1
 

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