Con un certo ritardo (perdono..) vi aggiorno sull'importantissimo allestimento che da poco visto ad Amsterdam: Kitezh di Rimskij Korsakov con la regia di Dmitri Cerniakov.
Ho visto la seconda recita (10 febbraio), mi aspettavo di trovarmi di fronte a uno spettacolo storico e non sono rimasto deluso.
Storico e non solo bello...
"Storico" in quanto costituisce un tassello imporante (l'abbiamo detto tante volte) nel processo di riappropriazione che la nostra civiltà operistica sta compiendo nei confronti del repertorio "borghese" ottocentesco o primo-novecentesco, repertorio sottostimato per decenni, visto ancora con sufficienza per quella patina di "facilità", di scarsa problematicità intellettuale con cui si presenta agli occhi del pubblico odierno.
Il grande difetto (anche questo l'abbiamo detto tante volte) degli artefici della rinascita operistica nel ventennio d'oro appena trascorso (1985-2005) erano i pregiudizi intellettualistici verso il repertorio borghese.
I primi a nutrire tali pregiudizi erano i direttori "post-sessantottini" dell'avanguardia teatrale (i Mortier, i Brossman, gli Audi, i Lissner); in prima linea nello spalancare nuove (e sacrosante) prospettive critiche ed esecutive in Wanger, Britten, Monteverdi, Janacek, Haendel... nulla hanno fatto per Massenet, Mayerbeer, Donizetti e (appunto) Rimskij.
I secondi erano gli interpreti: c'è un grande regista? farà Wozzeck! Un grande direttore: al massimo Boris! Un grande cantante? Verdi o Wagner!
Ora però (anzi, già da alcuni anni) il repertorio borghese - per ragioni che abbiamo già trattato in altri thread - ricomincia a destare il dovuto interesse.
Anzi... le potenziali affinità tra gli scenari esociti di certe favole fine secolo, l'entusiasmo vigoroso del Grand-Opéra, la supremazia della forma rispetto al "messaggio" (che non significa affatto superficialità e banalizzazione) potrebbero rendere tanti capolavori troppo a lungo snobbati veri capisaldi del prossimo repertorio!
...PURCHE' non ci si limiti a eseguirli, ma ci si interroghi su quali immagini, quali suoni, quali linguaggi applicare loro, in modo che il pubblico contemporaneo possa riconoscervisi, esattamente come si è fatto negli anni '90 per il Barocco o per il '900.
Ecco: questa Leggenda di Kitez era un esempio perfetto.
Opera-favola, dalle modeste pretese intellettuali, dalla drammaturgia immediata, dai colori favolistici, dalle psicologie abbozzate, dall'involucro orchestrale lussureggiante è proprio il tipo di opera di cui stiamo parlando.
Di certo non uno di quei titoli ricchi di "problematiche" che negli anni '80 e '90 poteva piacere agli intellettuali operistici.
Un titolo che (per fare un esempio) un Abbado non avrebbe mai diretto... e uno Stein mai messo in scena.
Una di quelle cose "kitch" di fronte alle quali un Mortier avrebbe alzato le spalle.
Bene... oggi questo titolo è proposto in uno dei teatri più all'avanguardia del mondo (il NDO di Amsterdam) in una coproduzione che vede coinvolti l'Opéra di Parigi, il Liceu di Barcelona e la stessa Scala di Milano.
Ma proporlo non basta...
Come non bastava (vent'anni fa) proporre una Kabanowa di Janacek o un'Alcina di Haendel.
Occorreva - come dicevamo - sviscerare i linguaggi sonori e figurativi di oggi per rendere Janacek e Haendel fruibili al pubblico attuale.
Idem per Rismkij.
Se ci limitiamo a eseguirlo in modo pedissequo come fa Gergev al Mariinskij e come in genere fanno i russi, allora possiamo dire addio alla rinascita di questo repertorio.
Il pubblico di oggi non può più digerire mezz'ora di aria "ecologista" di una primadonna che inneggia agli uccellini e a tutti gli animali della foresta.
Meno ancora può sopportare sfilate di varia umanità di paese (con suonatori di Gusli e orsi - finti - ammaestrati), o duetti d'amore interminabili ricolmi di frasi stantie di giovani appena conosciuti, o un finale celebrativo - lungo come l'anno della fame - sugli splendori della città-paradiso in cui tutti i "buoni" finiscono, tra uccellini profetici, mororii della foresta e fanfare finali.
Persino i bambini, nei loro cartoni animati natalizi al cinema, sono abituati a maggiori movimento, vivacità, contraddizione psicologica.
La sfida di Cerniakov era dunque quella di setacciare le immagini e i temi della contemporaneità, per trovare quelli che potessero non violentare, bensì valorizzare quest'opera meravigliosa ma irrimedibilmente lontana, in modo da persuadere il pubblico delle sue potenzialità, della sua forza, persino della sua modernità.
Dire che c'è riuscito è dire poco. Ciò che ci ha offerto è stato un capolavoro.
La nuova storia che ci ha raccontato si adagia meravigliosamente sulla vecchia, mantenendone intatti quasi tutti gli snodi e persino i significati.
Un passo alla volta...
Primo atto: l'originale prevede che questa ragazza figlia di un guardiacaccia, sognatrice, luminosa, carica di una sorta di misticismo (sarebbe diventata santa) e avvolta in un rapporto quasi religioso con la natura, incontri un bel principe che ovviamente si è perso durante una battuta di caccia. Fra i due scoppia la scintilla, tanto che decideranno di sposarsi immediatamente, nonostante la diversa estrazione sociale.
Così com'è il tutto è destinato a suscitare risa e sbadigli al pubblico di oggi, benché la musica sia raffinatissima e i personaggi di grande fascino.
Cerniakov soccorre l'opera, aggirando tutto quello che potrebbe oggi farla sembrare ingenua.
Anzitutto l'ambientazione: non più un bosco lussureggiante di età medievale, ma una specie di periferia campagnola ai giorni nostri, con grandi trochi d'albero e strade coperte di erba alta e frumento, sotto lo splendore di un sole estivo. Grandi scale a pioli sono dritte verso il nulla, anzi verso il cielo.
Di lato una baracca di legno.
La scena si apre con l'immagine abbagliante di un mezzogiorno (che lentissimamente e impercettibilmente sfumerà, nel corso dell'atto, nel crepuscolo). Il pubblico esplode in un applauso a scena aperta.
La "spritata" ragazza (che si muove con la calorosa goffaggine di una campagnola animata da strambo misticismo) è lì non tanto in quanto figlia di guardiacaccia, ma come "soccorritrice dei poveri". Ha dedicato la sua vita (nella baracca) ad accogliere diseredati, barboni e rifiutati dalla società.
Cerniakov trasforma gli interminabili elogi a uccellini e animaletti in tenerezze rivolte ai suoi poveri, ai suoi barboni, trasformando una situazione imbarazzante (per il pubblico di oggi) in una di toccante intensità. I fiori, tanto celebrati nel libretto, qui non ci sono... ma non importa che ci siano. Infatti una barbona li disegna e questo è sufficiente perché tutti ne siano felici.
Quando entra il principe (ferito e vestito in modo dimesso) c'è il problema di far stare in piedi un dialogo d'amore assai improbabile (amore a prima vista e matrimonio) oltre che lunghissimo.
E Cerniakov, ancora una volta, accorre in difesa dell'opera, animando il duetto di un'infinità di dettagli delicati e vivaci: lei gli toglie il maglione insanguinato, gli cura il braccio ferito, lo fascia... persino il detttaglio che il disinfettante fa male al principe e lei gli soffia sopra...
Alla fine gli donerà un suo maglione pulito, come fa con i tanti barboni che vengono a chiederle aiuto.
E non è ancora finita: il duetto continua mentre lei prepara da mangiare per tutta la comunità, apparecchia, distribuisce la minestra... e intanto la luce si fa sempre più smorzata.
L'atmosfera è bellissima e la musica di Rimskij, la storia di Fevronia non sono mai parse così belle.
Col secondo atto siamo ai vertici dell'allestimento.
Torniamo alla storia originale.
L'atto si svolgerebbe nella "Piccola Kitezh", ossia nell'avamposto della capitale, la Grande Kitezh che invece si trova ben nascosta nella foresta, sulle rive del lago Svetloyar.
Il pease è eccitato in attesa che la nuova fidanzata del principe passi col suo corteo per la Piccola Kitez prima di recarsi alla Grande. Ovviamente Rimskij ci ficca festeggiamenti e balli di varia umanità e immancabile colorito russo, il tutto molto arduo da sopportare oggi. C'è persino un suonatore di Gusli (che guardacaso prevede sventura) e un domatore che esibisce il suo orso ammaestrato (solitamente risolto con il solito scemo che si agita in scena vestito da Orso, come in un Siegfried da Wagner new yorkese di inizio '900).
Ovviamente ci sono i poveri che chiedono la carità e (ancora più ovviamente) gli ubriaconi, capitanati da uno strano filosofo mendicante, un certo Grish'ka Kuterma, che ride e piange contemporaneamente e rivendica il suo diritto di ubriacarsi come risposta nichlista alla disperazione della vita.
I ricchi del paese sono scontenti che il principe sposi una contadina, così offrono da bere a Griskha affinché questi la insulti.
La futura principessa arriva col suo corteo (marcetta nunziale), accoglie con dolcezza materna gli insulti di Griskha, e si prepara per ripartire verso la Grande Kitezh (coretto nunziale).
Improvvisamente erompono i soldati dell'orda tartara, che puntano alla Grande Kitez. Essi sono guidati da due generali del Kahn: Bendai e Burundai, che in questa fase sono rappresentati nell'opera come l'uno lo specchio dell'altro: praticamente Fasolt e Fafner o, se preferite, Bibì e Bibò.
La Piccola città viene messa a ferro e fuoco, la principessa fatta prigioniera, gli abitanti torturati affinché svelino il cammino per arrivare alla capitale. Tutti preferiscono morire tranne uno: Grishka Kuterma accetta, per sfuggire alla morte, di condurre gli invasori alla città.
Nell'ambientazione di Cerniakov (che vi ricordo è ai giorni nostri) siamo in una sorta di grande bar cittadino, un locale freddo e lussuoso in cui i cittadini "ricchi" convivono con quelli "poveri".
Grazie a Dio, ci sono risparmiate tutte le note di "colore" presenti nel testo.
Il profetico suonatore di Gusli è semplicemente un barbone metropolitano che suona la chitarra in cambio di qualche spicciolo.
Il domatore di orsi non è altro che un normale avventore (particolarmente avvinazzato) e il suo orso non è altri che Grishka, il quale fa lo spiritoso, saltella, fa giochi di prestigio, gira con la bottiglia in bilico sulla testa. Il personaggio si impone da subito, ben vestito, elegante, perfettamente a suo agio nel ruolo di "compagnone simpatico" dei ricchi seduti al tavolino, non senza una certa aggressività.
La scena è di una vivacità che ti travolge.
L'arrivo di Fevronia (in abito da sposa, ma con una pratica casacca sopra) evita - se Dio vuole - ogni sospetto di marcettismo!
Anzi... il pubblico è talmente occupato a guardare Griskha, da non accorgerci nemmeno che la ragazza è entrata.
Le geometrie con cui Cerniakov dispone e sposta i personaggi sono virtuosistiche (una linea sembra congiungere la ragazza all'ubriacone, linea intorno a cui la folla si muove).
Toccante, poi, è il coretto che prepara la partenza di Fevronia: in realtà tutti i presenti (ricchi e poveri) si mettono in fila per farle auguri e complimenti, conquistati dal suo candore un po' strambo.
Qualcuno le bacia la fronte, qualcun altro la abbraccia, altri ancora si mettono a piangere (e lei lo conforta sussurrando qualcosa all'orecchio). Il tutto è gestito con una delicatezza commovente.
Poi si scatena l'inferno.
Quello che Cerniakov combina nella seconda parte dell'atto, fra bagliori di luci elettriche, andirivieni impazzito della folla e nuvole di lacrimogeni, ci piomba nel più spaventoso degli "action movie".
Un esercito di banditi e terroristi irrompe nel locale, spaccando vetri, assordandcio con mitragliatrici, diffondendo un clima di orrore che - miracolosamente - si esalta nella musica.
Dal putiferio emergono i due generali che Cerniakov differenzia in modo geniale... altro che bibi e bibo.
Burundaj è il mafioso ricco, grasso, vecchio, schifoso, ma elegantissimo, nel suo completo e cappotto grigio: entra tirandosi dietro con un laccio, come un cane al guinzaglio, la povera Fevronia, inebetita, muta, ridotta a sgambettargli dietro come una bambola.
L'altro invece è il mafioso coatto: a sua volta grasso, vecchio, schifoso, ma in canottiera, pieno di tatuaggi e borchie.
Tutta la scena è grandiosa e lascerà il pubblico semplicemente annichilito.
Terzo atto.
Qui la storia dovrebbe raccontare lo sgomento nella Grande Kitezh, dove - con la testimonianza di un sopravvissuto, condotto da un paggio "en travesti" - si apprende della devastazione della piccola e del fatto che, guidati da un traditore, i tartarti si stanno dirigendo lì.
Il principe, che poveretto aspettava di sposarsi, sente dire invece che la sua fidanzata è stata rapita e abusata dai tartari. Su invito del re suo padre, il principe e gli altri uomini della città decidono di partire per bloccare l'esercito nemico (ben sapendo che sarà la loro fine).
Tutto l'atto è attraversato da cori di una bellezza e di una disperazione struggenti.
Il vecchio re, il paggio e la donne attendono la fine, quando una specie di nuvola d'ora comincia a ricoprire la città: ecco il miracolo di Kitezh. Dio sta rendendo invisibile la città e i suoi abitanti.
Il celeberrimo interludio dovrebbe descrivere (a sipario chiuso) la sanguinosa battaglia nella quale tutti gli uomini di Kitezh muoiono.
La scena successiva si sposta sulle rive opposte del lago Svetlayar, dove i tartari si sono accampati per la notte. La mattina dopo assaliranno la capitale.
Quando tutti si sono addormentati, Griskha e Fevronia riescono a fuggire. Al loro risveglio, mentre albeggia, i tartari si accorgeranno con orrore che dall'altra parte del lago non si vede la città, ma solo il suo riflesso nelle acque.
Terrorizzati fuggiranno.
Qui Cerniakov è veramente audace. In quanto ultima roccaforte della cività, la "sua" Kitezh non è più una sfarzosa capitale, piena d'oro e di palazzi fastosi, ma una specie di magazzino (anzi, precisamente un cinema) dove si sono radunati i sopravvissuti di questo spaventoso attacco alla civiltà.
L'aver scelto un cinema come rifugio in fondo non soprende (tutti hanno pensato all'orrore del Teatro Dubrovka, in cui le forze speciali di Putin fecero morire soffocati, oltre ai 40 terroristi ceceni, anche 200 ostaggi incolpevoli). Meno decifrabile il fatto che tutti i rifugiati indossassero una sorta di tunica azzurra.
Un dettaglio per confermare ulteriormente la vocazione di Cerniakov nel soccorrere l'opera nelle sue debolezze.
Il paggio (donna en travesti che fa la parte del bambino) ha una parte larghissima in questo secondo atto: e tuttavia è difficilmente sopportabile a livello teatrale, specie in una regia di taglio tanto realistico e cinematografico.
e così Cerniakov ha l'idea di far entrare un bambino vero e proprio, ma la sua voce sarà quella della mamma, che corre ad abbracciarlo, che per tutto il tempo lo stringerà al petto e che alla fine morirà con lui.
Ecco come un dettaglio "imbarazzante" può venir trasformato e risolto con un tocco di genio.
Comunque l'atto si snoda come una grande, consapevole preparazione alla morte di chi non vede altra via di fuga dal crollo della civiltà.
Gli uomini escono disarmati.
Le donne rimaste si avvelenano insieme al re...
E così quella che nel testo sarebbe la nuvola d'ora e la relativa dolcissima musica (imitata dalle campane del Parsifal) non descrive più un miracolo, bensì accompagna queste donne nel loro spegnersi ordinato, ognuna seduta sulle tante sedie del fondo.
E in fondo il miracolo dell'opera descriveva proprio questo: una fuga dalla vita.
I tartari irrompono nel teatro quando è già buio; credono che sia deserto e che le donne siano fuggite. Decidono di passare lì la notte.
La mattina dopo, al loro risveglio, si accorgeranno con orrore delle decine di cadaveri che occupano tutte le sedie del fondo, che hanno trascorso tutta la notte con loro, immobili e terribili, pubblico spaventoso.
E ora veniamo al quarto atto.
Nella storia originale, Fevronia e Griskha corrono nella foresta, per salvarsi dai Tartari. Lei però è sfinita e non riesce a seguirlo.
Lui, al contrario, non riesce a fermarsi, perché nella sua testa risuonano le campane della città: atterrito da ciò che ha fatto, con l'immagine davanti agli occhi dei giovani di Kitez massacrati da quegli stessi Tartari che lui ha condotto lì, dà in una vera scena di pazzia e poi fugge via.
Fevronia resta sola, respira ancora una volta le bellezze della natura, quando due uccelli profetici vengono ad annunciarle prima la morte, poi l'eternità nella gloria di Dio.
Fevronia entra così nella città di Kitezh, che ora è diventata eterna, come quelli che la abitano: ritrova così il suo fidanzato, il re, e tutti i buoni abitanti della città.
Solo Griskha non è ancora pronto per entrarci: deve ancora vincere la sua disperazione e la sua paura.
Con Cerniakov, ovviamente, tutta la parte favolistica salta (ma in fondo era allegorica anche nel testo).
Per cui Fevronia, nella sua corsa pazza con Griskha, si ritrova ancora fra gli alberi del primo atto, che però adesso sono come pietrificati, cementati alle fondamenta.
Dopo che Griskha l'ha abbandonata, lei si ritrova a terra, al freddo, senza forze ...e muore.
Ma la sua agonia sarà descritta, per tutto l'atto, con i suoi sogni in punto di morte.
La baracca del primo atto ricompare, scivola verso il proscenio... lei entra nella baracca dove trova i suoi poverelli di un tempo, il suo innamoratissimo principe...
E soprattutto (questo è un altro tocco di genio) gli stupidi e irritanti uccelli profetici diventano due signore anziane, due zie con i loro cappottini, che la coccolona e la vestono... magari due memorie di quando era piccola, due dolci vecchiette di famiglia che, fra i vaneggiamenti della moribonda, risorgono con tutta la loro dolcezza.
L'ingresso in Kitezh è in realtà un grande pic nic... che lei sogna di allestire in un giardino di primavera.
ci sono tutti: il re, il principe, persino il cieco, persino il paggio e la sua mamma... e lei è al centro del suo paradiso.
...Lo so che dovrei parlare anche della parte musicale, del direttore, dei cantanti...
Ma mi fanno male le dita...
Ne riparleremo
Salutoni,
Mat